Sui film italiani di guerra dei primi anni Cinquanta

Doris Dowling e Jacques Sernas in una scena del film Cuori sul mare – Fonte: Wikipedia

La pervasività del tema della guerra recente in scenari narrativi in linea di principio distanti da esso non può che risaltare ulteriormente se paragonata alla relativa afasia del genere che invece dovrebbe essere deputato ad accoglierlo. I film di argomento bellico, in particolare quelli relativi alla Seconda guerra mondiale, realizzati nel nostro Paese prima de La grande guerra sono unanimemente considerati tra i lavori più allineati con le direttive restauratrici del potere italiano dell’epoca e già all’epoca della loro uscita erano considerati lavori di propaganda dagli stessi autori 154. Per la storiografia più recente sono opere che nei fatti evitano il discorso sulle responsabilità collettive, sull’eredità del fascismo e sui disastri della guerra, limitandosi a mostrare esempi isolati e non problematici di eroismo e abnegazione. Tornando al lessico di Pierre Sorlin, potremmo dire che quei film costruiscono un visibile estremamente ridotto e selettivo degli eventi che pure nominalmente mostrano.
Abbiamo già discusso il caso di Penne nere; ci limitiamo a ricordare che la collocazione temporale del film è inizialmente incerta: la voce over non specifica il momento di avvio della vicenda (prima o dopo la guerra?) e le figure stesse dei protagonisti che danno il titolo, gli alpini, sembrano suggerire una continuità umana e antropologica che trascende in qualche modo il corso degli eventi e le responsabilità sociali e collettive.
Ritroviamo questi elementi in un gruppo di altre pellicole, come Siluri umani (Antonio Leonviola e Carlo Lizzani 155, 1954), I Sette dell’Orsa Maggiore (Duilio Coletti, 1953), Carica eroica (1952), Mizar (1954) e Uomini ombra (1954) del veterano Francesco De Robertis (1954), La grande speranza (Duilio Coletti 1954).
Tutti questi film mostrano alcuni debiti con il combat hollywoodiano 156: l’enfasi narrativa su un piccolo gruppo d’azione, la prevalenza di personaggi maschili 157, il compimento di un’impresa apparentemente disperata, l’etica del sacrificio individuale.
I personaggi sono invariabilmente lontani dai luoghi in cui la Storia si decide (la prevalente ambientazione marina pare indicativa) e le loro vicende, marginali e periferiche, non possono evidentemente rappresentare alcunché in termini storici.
Come ha scritto Sara Pesce: “Questo filone fa passare in secondo piano la contingenza storico-geografica della guerra e finanche l’identità del nemico, che diventano astrazioni. Il racconto è basato sulle difficoltà e gli imprevisti di un’impresa militare; si sceglie il registro avventuroso, incentrato sull’azione, e si sfrutta l’appeal di una star dell’epoca, simbolo di mascolinità, fermezza e audacia 158.”
Non è solo il nemico invisibile, di cui spesso si vedono solo gli attacchi, come nei western del periodo, a essere astratto: anche gli eroi sono talvolta anonimi, come il comandante del sottomarino in La grande speranza, che rifiuta di dichiarare la propria identità a uno dei nemici che ha salvato, preferendo essere ricordato solo come “un militare italiano”.
Il registro melodrammatico – elemento sul quale torneremo più avanti – che secondo Sara Pesce contraddistingue questi film si mescola poi a quello commedico: al romance, che in genere coinvolge uno degli ufficiali, si affiancano segmenti comici di alleggerimento che di solito hanno come protagonisti i componenti della truppa. Non manca quasi mai, poi, come nel repertorio brillante teatrale, un personaggio investito della funzione di raisonneur, colui che esprime un punto di vista morale sugli eventi.
Considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito di un film che, visto oggi, non sembrerebbe rientrare nel genere, Cuori sul mare (Giorgio Bianchi, 1950), ma che è ambientato presso l’Accademia Navale di Livorno e ha come protagonisti veri militari di carriera e autentici cadetti, amalgamati a professionisti come Charles Vanel e Doris Dowling nonché i giovani Jacques Sernas, Paolo Panelli e Marcello Mastroianni.
Il film di Bianchi nasce probabilmente come variante marinara di Gioventù perduta (1948) di Pietro Germi.
Presenta lo stesso protagonista (Sernas) in un ruolo simile, una vicenda analoga di perdizione maschile (anche se il Bildungsroman di Germi è decisamente più pessimista) e venne messo in lavorazione con il titolo di Gioventù sul mare 159. Anche qui il tempo diegetico non è chiarito e la storia recente è convocata solo per allusioni o citazioni; il primo riferimento cronologico arriva dopo cinque minuti di proiezione, quando si viene a sapere che il padre di uno dei protagonisti ha perso la vita nella battaglia navale di Matapan (1941), mentre più avanti il nonno ammiraglio lamenta l’esiguità della pensione riservata agli ufficiali. Negli ultimi venti minuti, poi, il racconto diventa quello di un film di pirati, con salvataggio da parte dei cadetti degli amici ormai redenti, sequestrati da una banda di contrabbandieri.
Una conferma per assurdo della negazione della Seconda guerra mondiale nei film a essa ispirati pare arrivare dalle pellicole che raccontano invece di altri eventi bellici, come la Prima guerra mondiale ne Il caimano del Piave (Giorgio Bianchi, 1950), o le campagne contro il banditismo in Donne e briganti (Mario Soldati, 1950) e Il brigante di Tacca del Lupo (Pietro Germi, 1952).
In questi lavori è assai facile ritrovare nel dialogo o nella messa in scena elementi (più o meno incongrui rispetto alle vicende narrate) che rimandano a lessico e a figure propri dell’ultima guerra. Nel film di Bianchi, ad esempio, gli ufficiali austriaci che occupano la casa del protagonista Gino Cervi sono dipinti seguendo il modello dei dissoluti nazisti di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) e l’azione di sabotaggio compiuta da Cervi e Frank Latimore per neutralizzarli rimanda più all’immaginario della Resistenza che a quello della guerra di posizione.
Soldati mette in scena con Donne e briganti uno “standard” della narrativa popolare italiana: le vicende di Michele Pezza detto Fra Diavolo, brigante legittimista al servizio dei Borboni contro i Francesi che invasero il Regno di Napoli nel 1798. Il film mostra, tra le altre cose, un re indegno che anziché rimanere a fianco del popolo scappa verso sud all’arrivo del nemico (metafora decisamente trasparente per il pubblico del 1950) e dispacci militari francesi di questo tono: “Da circa due mesi un bandito chiamato Fra Diavolo comanda una formazione di partigiani, impedisce la presa di Napoli, attacca i posti isolati, assale i nostri convogli e predispone così l’opinione pubblica contro la Francia e la libertà”.
Ne Il brigante di Tacca del Lupo, film stavolta di ambientazione post-unitaria, le influenze principali sono quelle del western fordiano. Pure non mancano allusioni al passato prossimo, quali ad esempio l’immagine degli ostaggi uccisi dai briganti, impiccati come partigiani lungo le strade di montagna.
Potremmo allora dire, con una battuta, che se le pratiche di genere più diverse (dalla rivista filmata al film di banditi) finiscono in qualche modo per inglobare la realtà della Seconda guerra mondiale, essa entra nei film che le sono dedicati come pretesto per costruire delle avventure.
Ciò tuttavia non terrebbe conto di un elemento che pure, a nostro avviso, è degno di nota. A differenza di quanto sostengono Pesce e Casadio, non ci sembra infatti che questi film siano “completamente dimentichi del neorealismo, quasi si fosse trattato di un fenomeno avvenuto ad un’altra civiltà” 160. Chiaramente non resta molto di quello sguardo e di quella attenzione fenomenologica al presente. Stilemi realistici, però, colorano qua e là questi film, che sembrano non poter fare a meno di marche che potremmo definire oggettivanti.
La presenza di attori non professionisti o il patrocinio (interessato) delle forze armate sono esibiti nei titoli di testa e ognuno di questi film ha almeno una sequenza di battaglia o di esercitazione girata e montata con un evidente stile documentaristico. Ne La grande speranza, ad esempio, i titoli di testa precisano che “Le vicende narrate sono realmente accadute” e tra le cose più interessanti della pellicola vi sono sequenze di battaglia che sembrerebbero valere come autonomi segmenti attrattivi all’interno del film. Le inquadrature insistono a lungo sulla strumentazione, gli ordini impartiti dagli ufficiali, i gesti minimi dell’equipaggio, mentre il montaggio privilegia nettamente il jump cut. Il film (ma potremmo dire il genere), insomma, ben lontano dal realismo inteso come tensione mostrativa ed “etica dell’estetica”, recupera però determinati tratti di stile di quel cinema mettendoli in funzione del tipo di spettacolo che intende perseguire.
Questo aspetto documentario-realistico viene in ogni caso riconosciuto dalla stampa dell’epoca, che, a seconda delle posizioni estetiche ed ideologiche che promuove, censura le indebite pretese realistiche dei film 161 o ritiene che lì vada rintracciato il motivo del successo di queste pellicole: “Soltanto a nominarli i film di guerra, c’è pericolo di vedere fiorire intorno una serie di sbadigli. In questi anni sono passati sugli schermi tanti e tanti chilometri di pellicola dedicati alle avventure belliche, che un tal genere di film lascia ormai indifferenti anche gli spettatori più ingenui. Eppure sulle imprese dell’ultima guerra la nostra cinematografia ha saputo realizzare un nuovo film, che ha suscitato l’interesse di un folto pubblico. Il successo di I sette dell’Orsa maggiore si spiega soprattutto con l’autenticità documentaristica del film. Non è l’intreccio che attira l’attenzione degli spettatori. Anzi il breve accenno romanzesco inserito per dare una maggior consistenza narrativa alla pellicola finisce per annoiare” 162
154 Cfr. Golfiero Colonna, Firmamento di stellette, in «Festival», a. IX, n. 7, 14 febbraio 1953, pp. 24-25.
155 La collaborazione – non accreditata – di Carlo Lizzani alla regia e alla sceneggiatura del film è riportata da Roberto Chiti e Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I film vol. 2. Dal 1945 al 1959, Gremese, Roma, 1991, p. 338.
156 Cfr. Jeanine Basinger, The World War II Combat Film. Anatomy of a Genre, Columbia University Press, New York, 1986.
157 Con curiose eccezioni come Mizar, rarissimo esempio di film di guerra con una protagonista femminile, Dawn Addams nei panni di una sabotatrice.
158 Sara Pesce, Memoria e immaginario: la seconda guerra mondiale nel cinema italiano, op. cit. p. 92
159 Cfr. la fotonotizia apparsa su «Hollywood», a. VI, n. 224, 1 gennaio 1950, p. 22 e Italo Dragosei, Ricordo di Corinne, in «Hollywood», a. VI, n. 230, 11 febbraio 1950, p. 14.
160 Gianfranco Casadio, La guerra al cinema. I film di guerra nel cinema italiano dal 1944 al 1997. Vol. II. Dalla seconda guerra mondiale alla Resistenza, op. cit., p. 16.
161 Cfr. la recensione (non firmata) di Siluri umani su «Cinema nuovo», a. IV, n. 55, 25 marzo 1955, p. 234, nella quale si accusa lo sceneggiatore Marc’Antonio Bragadin di confondere il pettegolezzo con il realismo. A puro titolo di curiosità: il fascicolo è il medesimo su cui compare la celebre polemica su Senso, con gli articoli di Luigi Chiarini (Tradisce il neorealismo, pp. 225-226) e di Guido Aristarco (È realismo, pp. 226-228).
162 Ezio Colombo, “I sette dell’Orsa maggiore”, in «Festival», a. IX, n. 9, 28 febbraio 1953, p. 2.

Paolo Noto, Dal bozzetto ai generi. Il cinema italiano dei primi anni Cinquanta, 2.2.3 La guerra nei film di guerra, Kaplan, 2011, (bozza AMSActa)

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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