Sulle analisi di Carlo Ginzburg a proposito del rapporto tra letteratura e storia

Dare maggiore spazio alle riflessioni di Ginzburg e Vidal-Naquet consente non solo di analizzare riflessioni decisive nel dibattito tanto ad un livello teorico, quanto ad un’analisi morale e politica. Dal momento che le discussioni chiamano in causa gli eventi più violenti della storia del Novecento, è la storia di questi stessi eventi a rischiare di essere sottoposta alla deriva relativista. Pertanto la tensione del dibattito non si sviluppa esclusivamente in riferimento ad una disciplina, ma coinvolge anche esplicitamente le radici storiche della società in cui viviamo.
In nessun caso il processo di ridefinizione del testo storico è negato o respinto: la “moda della retorica”, anche nelle critiche più feroci che le vengono rivolte, ha una sua validità e una sua motivazione che viene riconosciuta. Entrambi gli studiosi sono così costretti a scendere a patti con il proprio nemico, conducendo numerosi tentativi di rimanere ancorati ad una “verità storica” che non sia suscettibile delle interpretazioni più disparate, di mantenere le posizioni fino alla fine prima che l’idea stessa di Storia non si sfaldi in infiniti frammenti, consentendo di correre comunque ai ripari anche quando questo avviene.
Nel caso di Ginzburg ciò implica la necessità di soffermarsi sulle sue analisi a proposito del rapporto tra letteratura e storia: “verso la metà degli anni ’50 leggevo romanzi; l’idea che avrei fatto lo storico non mi sfiorava nemmeno. Leggevo anche Lukács, con insofferenza per il modo in cui parlava di Dostoevskij e Kafka. Pensavo che mi sarebbe piaciuto di occuparmi di testi letterari, sottraendomi sia alle secche del razionalismo sia alle paludi dell’irrazionalismo. Oggi questo progetto mi appare, com’è ovvio, ingenuamente ambizioso; tuttavia non potrei rinnegarlo; in esso sono invischiato ancora”. <530
Cosa sia la letteratura per Carlo Ginzburg è perfettamente racchiuso in queste poche righe, scritte nel 1986, in un momento in cui il dibattito sulla storiografia è forse diventato meno feroce, ma non per questo meno denso di spunti e prese di posizioni polemiche. Si tratta di un momento, dunque, in cui l’estrema contiguità tra storia e letteratura è già sancita, con tutte le problematiche ad essa connesse.
In realtà, il legame tra letteratura e storia nell’opera di Ginzburg emerge all’interno delle sue ricerche, prima ancora che nei suoi interventi rispetto al tema. A chiunque legga “Il formaggio e i vermi” (1976) risulta evidente come si tratti di un’opera che si muove lungo il confine tra le due: la storia del mugnaio friulano Menocchio, condannato per eresia dall’Inquisizione, è infatti narrata mediante uno stile che appare più in sintonia con le opere di finzione che con la forma della ricerca storica: “Si chiamava Domenico Scandella, detto Menocchio. Era nato nel 1532 (al tempo del primo processo dichiarò di avere cinquantadue anni) a Montereale, un piccolo paese di collina del Friuli, 25 chilometri a nort di Pordenone, proprio a ridosso delle montagne. Qui era sempre vissuto[…]. Prevalentemente faceva il mugnaio; portava anche l’abito tradizionale dei mugnai, una veste, un mantello e un berretto di lana bianca. Così vestito di bianco si presentò al processo. Un paio di anni dopo disse agli inquisitori di essere «poverissimo»: «non ho altro che doi mollini a fitto et doi campi a livello, et con questi ho sostentato et sostenuto la mia povera famiglia». Ma certo esagerava”. <531
Queste poche frasi, con cui si apre “Il Formaggio e i vermi”, potrebbero tranquillamente far parte di un romanzo storico. Le prime righe costituiscono di fatto la presentazione di un personaggio, che tuttavia non è un eroe senza macchia. Già nei primi capoversi ci viene detto infatti che non bisogna prestare eccessiva fiducia alla testimonianza di Menocchio: «ma certo esagerava». Questo continuo gioco di svelamento delle parole di Menocchio è il fulcro del lavoro storico di Ginzburg: la testimonianza è infatti necessariamente condizionata dalla situazione in cui Menocchio si trova nel momento in cui è chiamato a parlare, ossia mentre è in arresto per mano dell’Inquisizione. I documenti possono quindi essere analizzati solo con la consapevolezza della costrizione che il processo inquisitorio impone.
Per quanto rischioso, leggere attraverso quest’ottica i testi del processo consente di superare uno dei principali limiti principali del lavoro dello storico, dal momento che la maggior parte dei documenti non sono stati scritti dalle classi popolari bensì dalla classe dominante. Ma Ginzburg si spinge anche oltre, dal momento che le vicende da lui analizzate appartengono ad un personaggio “anomalo” rispetto allo strato sociale a cui Menocchio appartiene sia per la sua relativa cultura, che per il suo isolamento all’interno della comunità. Recuperare questa singolarità diventa allora un modo per indagare una storia a sua volta anomala, in grado forse più di altre di rivelare le caratteristiche del mondo in cui essa si svolge: “anche un caso limite (e Menocchio lo è certamente) può rivelarsi rappresentativo. Sia negativamente – perché aiuta a precisare che cosa si debba intendere,in una situazione data, per «statisticamente più frequente». Sia positivamente – perché consente di circoscrivere le possibilità latenti di qualcosa (la cultura popolare) che ci è noto soltanto attraverso documenti frammentari e deformati provenienti quasi tutti dagli «archivi della
repressione»”. <532
La metodologia che viene utilizzata è già argomentata all’interno dell’introduzione, dove Ginzburg segnala la necessità di leggere le parole di Menocchio attraverso uno sguardo critico. Tuttavia ciò non basta per prevenire il dubbio che quanto viene raccontato appartenga in realtà al campo della finzione: al di là della costruzione narrativa, Ginzburg rimane sempre sulla soglia tra due forme differenti, arrivando ad immaginare i pensieri e le azioni di Menocchio, seppur tramite il costante riferimento al contesto storico in cui si svolgono le vicende: “i suoi discorsi erano noti a tutti: la gente se li ripeteva forse con curiosità, forse scuotendo la testa” <533.
A questo si aggiunge una forma tipicamente letteraria, particolarmente evidente nella sospensione con cui i capitoli si chiudono, inducendo una curiosità (se non proprio suspense) che viene saziata nel capitolo successivo:
“ma che cosa aveva letto Menocchio? <534
Anche se l’interpretazione di Menocchio era scattata a contatto col testo, le sue radici affondavano lontano. <535
Nelle parole del sultano Menocchio poté trovare tutt’al più una conferma e una legittimazione della sua spietata critica nei confronti della Chiesa: non certo un motivo di turbamento. Esso va cercato altrove. <536
Com’era spuntata nella testa di Menocchio una antropologia così astrusa e complicata?” <537
Insomma, se le posizioni di Ginzburg rispetto a White e in generale rispetto al dibattito sull’interpretazione della storia sono molto nette, tutto si complica nel momento in cui si fa riferimento ai suoi libri.
[NOTE]
530 Carlo Ginzburg, “Prefazione”, in Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino, 1986, p. IX.
531 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 1976, p. 3.
532 Ivi, p. 20.
533 Ivi, p. 5.
534 Ivi, p. 34.
535 Ivi, p. 49.
536 Ivi, p. 52.
537 Ivi, p. 85.
Paolo La Valle, Raccontare la storia al tempo delle crisi, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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