Tetto Murato nel romanzo appare come un luogo irreale

Con “Tetto Murato” <28 Lalla Romano tratta la tematica resistenziale in un modo che è diverso rispetto alla Ginzburg ma ugualmente innovativo, se si pensa ai romanzi sulla Resistenza a cui erano abituati i lettori degli anni ’50.
Anche la Romano ha vissuto la guerra civile, contribuendo alla lotta antifascista. In occasione del ciclo di incontri Lalla Romano e la Resistenza a Demonte e in valle Stura dell’agosto 2013, Ersilia Alessandrone Perona ha così ripercorso le tappe del contributo della intellettuale alla Resistenza nel Cuneese:
“Sulla partecipazione alla Resistenza la divaricazione fra cronaca e narrazione letteraria è molto forte. La scrittrice, che era tornata a Cuneo nel periodo della guerra, tenne contatti d’amicizia e politici con Dante Livio Bianco, che le commissionò nel 1941 il ritratto di sua moglie Pinella Ventre […], con Alberto Bianco […], con Aldo Quaranta […], col classicista Adolfo Ruata […] e con sua moglie Eugenia Gennaro, anch’essa insegnante e resistente, come la Romano. Aderì […] al Partito d’Azione […] ed ebbe attività di collegamento alle quali fa solo scarne allusioni nei suoi scritti. Certo non svolse ruoli di contatto permanente con le formazioni partigiane […] ebbe soprattutto responsabilità organizzative nei Gruppi di Difesa della Donna […]. Lalla Romano appartenne dunque all’organizzazione politica della Resistenza, svolta clandestinamente in città o nei luoghi di temporaneo rifugio”. <29
Come avviene in “Tutti i nostri ieri”, anche “Tetto Murato” nasconde radici autobiografiche sotto la finzione narrativa: il racconto ripercorre il periodo trascorso da Lalla Romano-Giulia in un cascinale sopra Demonte insieme ai coniugi Ruata, che rivivono nei personaggi di Ada e Paolo, lì nascosti poiché la misteriosa malattia di Paolo, attivo antifascista e partigiano, gli impedisce qualsiasi attività clandestina. Anche Adolfo Ruata, appunto, curava a Tetto Murato i seri danni cerebrali causatigli dalle percosse subite per mano fascista.
Non è certo importante localizzare Tetto Murato nella geografia del Cuneese: nel romanzo esso appare come un luogo irreale, lontano dalla civiltà ed immerso nella natura alpestre, circondato d’estate dal verde dei boschi e isolato d’inverno dalla neve e dal freddo, che ingigantiscono la sensazione di solitario ovattamento già suggerita dalla conformazione del luogo. Allo stesso modo risulta difficile individuare la trama del romanzo: non esiste, infatti, uno svolgimento fatto di eventi legati da rapporti di causa-effetto.
Come è noto, il nodo del racconto sta nel rapporto che si crea tra le due coppie Giulia-Stefano e Ada-Paolo, nelle affinità elettive che incrociano i quattro adulti. Quello che “Tetto Murato” ricrea è una resistenza personale tutta introspettiva e interiore, ritagliata all’interno di una Resistenza collettiva appena accennata: poco si vedono partigiani o tedeschi. I fatti della guerra scorrono nel romanzo come se si trattasse di eventi lontani, narrati come una storia di fantasia da Stefano. Sono, apparentemente, sfondo ai drammi privati dei singoli personaggi, e pretesto perché il racconto si costruisca: Giulia e Stefano incontrano Ada e Paolo nel paese di montagna in cui tutti sono sfollati. Il loro rapporto si evolve grazie alla condizione di precarietà e isolamento che la guerra civile obbliga a sopportare. Con la Liberazione, quando le due coppie tornano alla quotidianità della vita cittadina, questa frequentazione finisce, anzi sfuma perdendo quasi ragione di esistere.
La scelta dello sfondo resistenziale non è però causale: l’atmosfera che la guerra sottilmente comunica è necessaria perché Giulia, che nel romanzo dice “io”, non solo si avvicini ad Ada e a Paolo, condividendo la parentesi di Tetto Murato, ma stabilisca anche, con loro, un rapporto che a mio avviso somiglia più a quello genitori-figli che non ad un platonico scambio di coppie. La precarietà della guerra, che obbliga Giulia a lasciare le certezze della città e la salda figura del marito, conduce alla regressione della voce narrante in un altro tempo – il tempo dell’infanzia – in cui diventa necessario andare alla ricerca di figure similgenitoriali capaci di infondere tranquillità e protezione, per ricreare un nido familiare in un altrove geografico – Tetto Murato – dai contorni fiabeschi.
Anche se il racconto accenna soltanto alla guerra che si consuma in quelle valli, alcuni personaggi sono in rapporto con lo sfondo storico più di altri. Paolo è un antifascista e partigiano, ricercato dalle autorità repubblichine: il suo personaggio è il più legato al contesto storico circostante, e ne porta fisicamente i segni. Si dice del suo contributo come antifascista, immaginando che siederà nell’Assemblea Costituente:
– Che bellezza. Va tutto bene. Nani dorme, Paolo mangia, Giulia è con noi. La guerra finirà e torneremo a casa. Paolo starà bene, sarà importante. Mi farò fare un vestito, quando andrai alla Costituente, Paolo? – Paolo sorrise, ammiccando, a me. <30
In un rapido accenno, si suggerisce che la sua malattia è causata da violenze ricevute per mano fascista. Si legge infatti:
– Quella povera madamin, così giovane, così graziosa, toccarle un marito malato. Io mi sentii a disagio. Era la prima volta che udivo parlare della malattia di Paolo come si parla sempre di queste cose, come di una disgrazia. […] – Quella poveretta ci rimette il suo uomo, e quando sarà finito gli altri prenderanno i buoni posti. […] Mi rincrescerebbe per quei poveretti –. E indicò Nani che inseguiva cauta il gatto, tra i vasi di sempreverdi. – Vorrei sbagliarmi, ma l’hanno picchiato sulla testa, il suo papà. I fascisti. Io lo so che l’hanno picchiato. Il male di Paolo mi apparve, ad un tratto, spaventosamente reale. Avrei voluto che la Sibilla parlasse ancora, come se a lei fosse dato veramente di sapere. <31
È da notare, en passant, la scelta del nome di Sibilla, che richiama le veggenti della mitologia greca, per il personaggio anziano e pettegolo che rivela a Giulia la verità. La tragedia globale della guerra proietta le sue ombre, quindi, sulla tragica situazione di Paolo, costretto a nascondersi e impossibilitato a continuare l’attività partigiana poiché la malattia lo rende preda improvvisa di forti crisi asmatiche e momenti di panico. L’uomo ha continuamente bisogno delle attenzioni e delle cure di Ada, emblematica figura che incarna nel romanzo il ruolo della moglie di Paolo ma assume connotati spiccatamente materni.
All’apparire del personaggio la voce narrante si sofferma sul suo atteggiamento affettuoso nei confronti della figlia:
La bambina aspettava, ferma sull’uscio, coi suoi capelli che sembravano fili di luce. Sua madre andò a sfilare un cassetto e glielo diede «da riordinare». […] A un certo punto disse: – ho finito –, sua madre prese il cassetto come stava, vale a dire con gli oggetti disposti in un meticoloso disordine, e andò a riporlo, come se così e non altrimenti dovesse stare. La bambina, implacabile, domandò: – E adesso? La madre sospirò brevemente (amorosamente), poi aprì uno stipo e diede alla bambina, perché giocasse, un servizio da tè. Erano tazze quasi trasparenti, certo anch’esse «di casa». Arrischiai se non ci fosse pericolo che le rompesse. Lei mi guardò stupita e un po’ scura: – Certamente no! <32
L’atteggiamento materno di Ada nel rapporto con la figlia si estende anche ad altre figure nel racconto, trasformando la donna in una “madre universale” che comunica tranquillità, calore e protezione. Ada è madre, paziente e assidua, di Nani, la figlioletta che ogni notte deve essere calmata poiché teme di morire; è una madre amorevole e sollecita per Paolo, che ha bisogno delle sue cure per domare gli attacchi della malattia che lo squassa. La voce narrante osserva apertamente:
Ad ogni modo fu confermata in me la mia prima impressione: che la vera madre di Paolo fosse Ada. <33
La figura di Ada – la donna sembra disinteressarsi dei fatti bellici e vivere fuori dal tempo: ascolta i racconti di Stefano a proposito della guerra come se fossero invenzioni della sua fantasia – diventa madre anche per Giulia, che è inconsapevolmente alla ricerca di una figura protettiva. La voce narrante si trova in una condizione di smarrimento causata dal ritrovarsi sola, priva dell’appoggio di Stefano, in un frangente – quello della guerra – che le comunica ansia e precarietà:
Anch’io mi sentivo smarrita nella piccola città dove pure avevo trascorso l’infanzia: il mio ritorno era stato forzato dalla guerra. Vivevo nella casa ormai estranea di due cugine di mia madre, anziane. Le cugine erano state belle, da giovani, e lo erano anche ora da vecchie, o quasi vecchie. Stefano, mio marito, le ammirava, con un’ombra di omaggio; esse gli erano grate del suo trattarle da donne. Lo ascoltavano attente – un po’ rigide – raccontare fatti della vita di guerra a Torino. In quanto a me, le brevi visite di Stefano mi sconvolgevano e mi lasciavano più debole. <34
Stefano è la principale porta di collegamento tra la realtà dello sfollamento dove si trova Giulia e la dimensione cittadina in cui la guerra infuria. I racconti che egli porta con sé dalla grande città nelle sue sporadiche visite alla moglie aumentano lo smarrimento che si impadronisce di lei quando il marito non c’è, e il timore per i pericoli a cui l’uomo si espone:
Nell’agosto Stefano raccontò orrori di nuovi bombardamenti (dalla soffitta delle cugine si vedevano di sera i bagliori degli incendi di Torino). Nei suoi sonni accanto a me Stefano era turbato da sogni spaventosi: vedeva irruzioni armate nelle case, udiva grida nella notte. Gemeva, io lo svegliavo: si tormentava ancora, da sveglio, e diceva: – Stavo per capire chi erano, cos’era. – Ma quando ripartiva, Stefano era sereno – egli era contento che toccasse solo a lui, gli pareva giusto – e il suo saluto mi faceva coraggio. Una volta che, partendo, mi aveva lasciata con Ada e Paolo, essi vollero che rimanessi un poco con loro. Sapevano che era un momento difficile per me da passare. <35
Ada si propone a Giulia come colei che può assicurarle la protezione e il calore famigliare di cui è inconsciamente in cerca. Il luogo dove Ada e Paolo vivono appare caldo e protettivo, se paragonato alla fredda dimora delle cugine, ed esercita una fortissima attrazione in lei che vorrebbe rimanere presso la sua nuova famiglia d’elezione, mentre sa di dover tornare dalle due anziane, verso le quali non sente alcuna affinità. Si legge nel romanzo:
– Ma non è strano, – diceva lei, – che tu faccia tanta strada tutti i giorni, e poi tu non abbia il coraggio di dire che ti fermi una sera? – Un’altra volta, – concludevo, e mi avviavo. Se mi voltavo indietro li vedevo, sul sentiero sotto i grandi alberi, «figure che si allontanano in un arazzo». Riprendevo la strada, sotto il gran cielo freddo; in esso la luna risplendeva solitaria e preziosa, senza raggio. Sentivo, andando, stanchezza, desiderio di casa: non la casa delle cugine. Più tardi, nella stanza fredda, nel letto scomodo, abbracciavo «la bottiglia». <36
La neve invernale permette a Giulia di rimanere presso la sua famiglia elettiva, pernottando con i due coniugi. Nell’episodio della condivisione del letto la donna completa il suo percorso di regressione allo stato infantile. Bisognosa di protezione, si affida alle decisioni degli adulti, rifugiandosi nel nido protettivo
che Ada sa ricreare:
La signora domandò: – Dove la fate dormire, la signora Giulia? Ada fu pronta: – Sul sofà, dove dormiva Alessandra. – Ma è piccolo, – commentò la Fantoni. – Giulia si adatta facilmente, – ribatté Ada. Il Maggiore appariva imbarazzato; Paolo ed io aspettavamo, come i bambini quando gli adulti dispongono senza interpellarli della loro destinazione. […] Appena fummo soli disse: – Potremmo restringerci un poco, e far posto a Giulia vicino a noi. – Ma lei vorrà? – Fece Paolo. Per me va benissimo. <37
La critica ha visto in questo episodio il momento topico delle sottintese affinità che si creano nel romanzo. Pur non volendo contraddire questa interpretazione che può trovare conferme in altri luoghi – particolarmente se si considera la simpatia che Ada sente per Stefano, oppure l’affinità tra Paolo e Giulia, vista la confessione dell’uomo di essere «un poco innamorato di lei» <38 – ad essa si affianca un’altra lettura, in cui a mio avviso diventa predominante la sensazione che Giulia cerchi calore e affetto presso Ada e Paolo come una figlia che si insinua tra i genitori in un momento di pericolo: la trasgressione che il personaggio sente non è dovuta alla violazione dell’alcova matrimoniale di una coppia di coniugi ma è simile all’emozione del bambino che viene ammesso nel letto proibito del padre e della madre. Si legge infatti:
– Che gioia, avere Giulia con noi, – sospirò Ada; poi si rannicchiò, disse: – Buona notte, – e già dormiva. Sul letto era stesa una sola coperta: una pelliccia. Morbida, calda, leggera (anch’essa reliquia di antiche ricchezze), aveva un nome favoloso: vigogna. La stufa ai piedi del letto mandava calore. Ma l’assedio della notte e del freddo premeva alle piccole finestre. Io stavo immobile, sotto il peso leggero e dolce della pelliccia, nel tepore e nel lieve odore di quel letto non mio. Il letto «loro». Ero un poco angosciata, eppure anche felice. Era stato facile: con Ada tutto era facile. <39
Questa interpretazione è ovviamente dipendente dalle immagini di Ada “madre universale” e di Giulia alla ricerca di una famiglia che la salvi, col suo calore, dal senso di smarrimento di cui è preda. La protagonista sembra rifiutare la sua condizione di donna adulta per assumere i comportamenti tipici di una bambina. Si cala frequentemente nella dimensione del gioco:
Adesso facevo un gioco, lungo la strada di Tetto Murato. Cercavo di far coincidere tratti di strada – da un ponte all’altro, da una casa a un albero – con un certo numero di avemarie, di paternostri. Fingevo di giocare, e intanto pregavo. […] Dicevo, dunque, preghiere; non continuamente, ma seguendo la finta occasione del gioco. […] Facevo anche veri e propri giochi: rompevo col piede il velo di ghiaccio nei solchi delle carraie. Il piccolo scoppio e il crepitio stridulo mi davano una gioia, che era un’eco di giochi lontani e dimenticati. <40
E ancora:
Stefano mi pose sul palmo una manciata di bacche, rosse, che aveva strappato alla siepe. Dunque poteva ancora – in questi tempi in cui egli maturava rapidamente – ritrovare i nostri giochi. Mentre succhiavo le bacche dolci-acide, cotte dal gelo del lungo inverno, presi a saltellare, appesa al braccio di Stefano: mi sentivo irresponsabile e felice. <41
A mio avviso, il rifiuto della condizione di persona adulta non prende avvio solo grazie al ritorno nei luoghi in cui la donna era stata bambina ma è anche catalizzata dallo smarrimento che la dimensione della guerra comunica. Si veda la descrizione dei soldati sbandati che Giulia e Ada incontrano dopo l’8 settembre. Anche il loro sguardo è perso, bisognoso di protezione e assistenza come quello di un bambino. Uno di questi soldati trova presso Ada e Paolo le cure di cui ha bisogno:
Intanto che smontavo dalla bicicletta fummo raggiunti da un gruppo di sbandati: stanchi, dal passo pesante strascicato. Passarono oltre, muti, superbi come colpevoli. Poco dopo vedemmo un altro soldato, seduto sul ciglio della strada, ripiegato su se stesso. Alzò verso di noi un viso dagli occhi grandi e tristi di bambino. Non c’era timore di offenderlo a guardarlo. Ada lo interrogò: rispose che non ne poteva più e che del resto non era possibile proseguire così, con la divisa. Aveva il tono obiettivo di chi è disperato, ma anche umile, ingenuo. Doveva essere un figlio di famiglia: nell’abbandono aveva ancora addosso qualcosa del suo candore infantile. Il soldato si trascinò, docile, appena Ada l’ebbe inviato a seguirci: la casa si poteva raggiungere senza dare nell’occhio. A casa lo rivestirono da capo a piedi con la roba di Paolo (tutta roba insostituibile). <42
Il bisogno di riparo in un nido familiare, manifestato dal soldato e dalla protagonista, è esplicitato in più luoghi del racconto e sottintende quasi la volontà di Giulia di restare giovane e priva di preoccupazioni, eludendo l’inesorabile percorso di crescita che dovrebbe trasformare anche lei in adulta e madre:
Seguendo il piccolo cerchio di luce e forse perché andavo dietro a Stefano, io mi sentivo, nella notte senza confini, non sperduta, anzi protetta, come mi trovassi in un luogo chiuso e sicuro. Andavo pensando tra me, per quale ragione avessi voluto portare Stefano a Tetto Murato. Anzitutto per offrire a Stefano il calore di una vera casa, di una vera famiglia. Questo bisogno era profondo, era il bisogno di colmare qualcosa che aspettava di essere colmato, qualcosa per cui dopo – se ci fosse un dopo – non sarebbe più possibile essere, noi due, soltanto ragazzi. <43
La protezione che la realtà di Tetto Murato comunica non dipende solo dalla figura materna di Ada ma è accentuata anche dalla conformazione del luogo. Ecco come la voce narrante lo descrive, evidenziando subito quanto ne sia colpita:
Tetto Murato era costituito da un gruppo di case, cortili e orti, il tutto cinto da un muro quadrato. Si entrava per un arco semidiroccato in un dedalo di orti invasi dalle galline, di muri e fabbricati. […] I muri erano solcati da crepe profonde. Eppure io sentivo una segreta – persino un poco angosciosa – affinità, per quel luogo desolato; quasi fosse la mia vera patria, da cui un tempo ero discesa. <44
Una cerchia di muriccioli racchiude un piccolo mondo interno; la neve e il freddo dell’inverno contribuiscono ad isolare e a rendere tutto ancor più spoglio e nitido, essenziale. In questo isolamento, però, le angosce della guerra riescono a penetrare. Queste le sensazioni che vive Giulia contemplando di notte un orto ricoperto di neve:
Vedevo, sotto, un piccolo orto quadrato, sepolto nella neve: affioravano i rami corti della siepe, rade macchie nere, di sterpi e alberelli, che disegnavano tracce lineari. Era uguale a un piccolo cimitero, e dava, della morte, una immagine povera, calma e solenne. Lo guardavo a lungo, fin che potevo resistere al freddo: e mi pareva di cogliere un poco del senso ultimo delle cose. <45
Il senso di morte che abbraccia questa scena non è connaturato nell’essenza del luogo – si tratta di un orto, che nulla dovrebbe avere di funebre – ma sta nell’occhio di chi guarda, cioè Giulia, ancora scossa per la notizia della drammatica morte di un partigiano, amico di Paolo, ucciso dai tedeschi. Gli eventi della Resistenza, sebbene presenti solamente in filigrana, permeano il racconto attraverso gli strascichi emotivi che lasciano nei personaggi, in particolare in Giulia, assalita da un angosciante senso di precarietà. Ecco quali echi la donna sente negli spari che i tedeschi esplodono per festeggiare il Capodanno:
Una notte – Ada dormiva di un sonno inquieto, strano in lei, con sospiri, sussulti – Paolo ed io ascoltavamo spari lontani nella notte. Paolo rammentò che era l’ultima notte dell’anno – non ci avevamo pensato, altrimenti – e come fosse costume tedesco festeggiarla in quel modo. Ma anche a pensare che non vi era battaglia né uccisioni, la selva disordinata dei colpi non era meno angosciosa. Aveva, anzi, qualcosa di convulso, di disperato: esprimeva ansia, e insieme determinazione: ma non di chi fosse alla vigilia di un cimento, bensì di una diserzione, di un’abbiezione. Paolo tacque; egli provava, io lo sentivo, l’uguale di quello che provavo io. <46
Il calore che Giulia trova a Tetto Murato contribuisce ad allontanare le sue paure. Nella dimensione domestica del nido ritrovato però, la precarietà si insinua sotto forma di malattia. Durante un attacco del male di cui Paolo soffre, Giulia si sente di nuovo smarrita:
All’improvviso provai ira, contro Paolo; e insieme compassione di lui, così diverso da se stesso in quel momento – eppure anche il simbolo di se stesso – e infine di tutti noi, come se davvero fossimo giunti a essere senza casa, senza calore, davvero sperduti in mezzo a tutta quella neve. <47
Il male che assilla Paolo sembra progredire di pari passo con la Resistenza, fino a confondersi con essa – in un passaggio la voce narrante dice «Non era ancora la fine di quello stato di oppressione che Paolo fu colto da una crisi di asma» <48 senza specificare se per «oppressione» s’intenda l’occupazione tedesca o le crisi di panico dell’uomo – e quasi terminare con la Liberazione:
È vero che quando la fine sembra già vicina, c’è sempre ancora un tempo da passare. Tempo di pazienza, per molti, e, per gli altri, forse il «tempo di ravvedersi»? Così nelle valli ci furono ancora rastrellamenti; e la stagione volse ancora alla neve. A Tetto Murato Paolo fu ripreso dai dolori. Ma non fu più come prima. Vale a dire noi non ne fummo più impressionate al modo di prima. Ormai noi eravamo tese verso un rinnovamento che pensavamo totale, quasi a noi fosse dato sapere che anche Paolo sarebbe stato presto liberato. <49
In quest’ottica, la Liberazione diventa la fine dell’occupazione tedesca di quelle valli ma significa anche il termine delle sofferenze di Paolo, il cui fisico è quasi invaso da una forza esterna che a momenti alterni si impadronisce della sua volontà. Malattia e guerra diventano una il simbolo dell’altra – il male di Paolo richiama il conflitto che ha squassato la società civile, e viceversa – e diventano due manifestazioni diverse della stessa violenza causata dall’uomo, che nel romanzo viene universalmente condannata. L’episodio seguente è esempio di questa condanna. Ada e Giulia assistono in paese all’incontro tra un giovane partigiano e un uomo accusato di spionaggio, accompagnato dal figlioletto:
Il giovane doveva averlo insultato: egli teneva gli occhi bassi, e taceva. Ada vide il giovane alzare la mano e colpire l’uomo, in piena faccia, una, due volte. Tutto fu molto rapido. Il giovane si allontanò con passo sicuro. L’uomo non reagì e si volse invece lentamente; e finché non se ne fu andato, nessuno fiatò né si mosse. […] L’uomo colpito doveva ben essere, come dicevano i paesani, una spia, e in quei momenti uno schiaffo, da parte di un uomo armato, era una carezza: che fosse, Ada si domandò, la presenza del ragazzo, forse un figlio? Ada concluse che la violenza, anche quando era giusta era spaventosa e forse la giustizia, perciò, era tanto più meritoria. <50
Ada resta scossa di fronte ad una scena – come già detto, sono radi gli accenni diretti ai fatti resistenziali: essi acquistano per questo un maggior significato emblematico – in cui la violenza è appena accennata e priva dei sui connotati più fisici e sanguinari. La donna prende perentoriamente posizione contro l’aggressività che, seppur celata, anima la situazione. A sua volta, Paolo condanna una violenza che per lui veste panni di volta in volta diversi: è la malattia che diventa padrona incontrastata del suo corpo, oppure è l’atto di forza con cui lui cerca di liberarsene uscendo, nel freddo dell’inverno, oppure è il fare un po’ aggressivo di Giulia che tenta di riportarlo in casa. Si veda la scena seguente in cui Paolo, in preda ad una crisi, esce in strada e non vuol rientrare:
Ada cercava di persuaderlo: – aspetta ad uscire, un giorno meno freddo. Rientra, te ne prego. Paolo non rispondeva; e si vedeva che non si sentiva libero nemmeno lì, ma ancora prigioniero, impotente. Ada, a testa china, ritornò indietro a lunghe e lente sgambate. Spinta da una disperazione un po’ infantile, convulsa, corsi a balzi, a salti, fino a Paolo. Gli fui addosso e gli singhiozzai davanti al viso: – Paolo, smetti di tormentarci, vieni. In camera, tornato a letto, egli mi disse – e aveva di nuovo la sua voce tranquilla: – Non si dovrebbe mai, ricorrere alla violenza. Ma io non volli capire: – Quale violenza? <51
In filigrana il romanzo condanna, quindi, ogni forma di violenza, individuale o collettiva. La sicurezza con cui Ada e Paolo prendono senza timori le distanze da comportamenti aggressivi, ricreando dentro Tetto Murato l’atmosfera famigliare necessaria alla vita, funziona anche per Giulia.
Affrontando infatti da sola una situazione critica – la strada che deve percorrere è bloccata da autocarri e soldati tedeschi – il distacco e il sangue freddo imparati dagli amici la aiutano a liberarsi di una paura che si rivela irragionevole, di fronte ad un nemico ormai umano, rassegnato alla sconfitta, quasi felice per l’imminente ritorno a casa:
Non c’era passaggio, per me. Nell’attimo di esitazione in cui mi domandai se potevo fare dietro-front, uno di quei giganti mi sollevò la bicicletta, che parve un fuscello, e la trasportò al di là, dietro la mole del camion. Per me la paura dei tedeschi finì da quel momento; non che mi fossero parsi meno temibili perché cortesi, ma perché mi sembrarono, non solo già perduti, ma addirittura salvati. <52
Giulia è quindi inizialmente preda di sconforto e solitudine, ma sconfigge la paura e il senso di smarrimento che la guerra le causa grazie all’esempio di Ada e alla forza, insieme stoica e pragmatica, da lei mostrata nell’affrontare sia la vita da sfollata sia la battaglia contro la malattia del marito. Giulia guarda alla Liberazione con l’entusiasmo che già esprimeva la Ginzburg di “Tutti i nostri ieri” e che distingue il racconto di Lalla Romano dai romanzi degli anni ’40. Partendo da Tetto Murato per raggiungere Stefano a Milano, la giovane donna è avvolta in un’aria di sobria, contenuta festa:
Salutai Ada e Paolo leggermente, quasi festosamente, sicura che li avrei riveduti presto (senza domandarmi come). Tutto era aperto, possibile; non ebbi alcun timore. <53
La gioia di Giulia è offuscata dalla consapevolezza che con la fine della guerra termina la parentesi rassicurante di Tetto Murato e la corrispondenza di affetti che ha condiviso con Ada e Paolo. Stefano invece, legato al presente e non al nido dello sfollamento, incarna più pienamente la vitalità della rinascita
dopo le distruzioni:
Stefano era pieno di amore per quella città liberata, risollevata dai suoi dubbi, giovane nei suoi balli popolari, la sera, in cortili appena spazzati dalle macerie, allegri di bandiere rosse. Stefano era – e in questo assomigliava a Ada – intento al presente e pieno di amore per esso, ma anche teso, pieno di speranza, verso il domani. <54
Per tirare le fila di questa approfondita analisi, in “Tetto Murato” Lalla Romano dipinge la guerra e poi la Resistenza, sebbene accennandovi solo in trasparenza, come la situazione di precarietà in cui la paura e lo smarrimento spingono la voce narrante a rifiutare la propria condizione di adulta per liberarsi da preoccupazioni e responsabilità e cercare protezione presso un nuovo nido famigliare, cui lasciare il compito di dover affrontare le difficoltà e da cui imparare, di nuovo, a camminare con le proprie gambe. Un approccio certo diverso rispetto alla Ginzburg ma allo stesso modo risolutivo poiché, seppur con altri mezzi, anche i personaggi della Romano non soccombono, né fisicamente
né moralmente, ai venti della Resistenza ma li affrontano senza fuggire.
Prima di concludere la parentesi analitica su Lalla Romano è necessario ricordare che per qualcuno l’etichetta di romanzo sulla Resistenza in riferimento a “Tetto Murato” può risultare esagerata. In effetti, altri sono i testi in cui la scrittrice ha toccato più da vicino la tematica resistenziale. Mi riferisco in particolare alla sezione “Cuneo ’45” posta a chiudere il volume “Un sogno del nord”, e definita da Giovanni Tesio «quasi un’appendice, quest’ultima, disposta lì a rovescio per acuire il forte senso di continuità e nello stesso tempo di sorpresa che l’intero libro riserva». <55 […]
[NOTE]
28 LALLA ROMANO, Tetto Murato, Torino, Einaudi, 1957, da cui cito.
29 ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, Antifascismo e Resistenza nella biografia e nell’opera di Lalla Romano, in “Il presente e la storia”, n° 84, dicembre 2013, secondo semestre, pp. 229-231.
30 L. ROMANO, Tetto murato, cit., pp. 69-70.
31 Ivi, p. 81.
32 Ivi, p. 11.
33 Ivi¸p. 51.
34 Ivi, p. 8.
35 Ivi, p. 18.
36 Ivi¸p. 52.
37 Ivi, pp. 57-58.
38 Ivi, p. 141.
39 Ivi, p. 59.
40 Ivi, pp. 104-105.
41 Ivi, p. 143.
42 Ivi, p. 20.
43 Ivi, p. 90.
44 Ivi, p. 43.
45 Ivi, p. 97.
46 Ivi, p. 98.
47 Ivi, p. 119.
48 Ivi, p. 122.
49 Ivi, p. 135.
50 Ivi¸pp. 133-134.
51 Ivi, p. 119.
52 Ivi, p. 138.
53 Ivi¸ p. 147.
54 Ivi, p. 149.
Sara Lorenzetti, Narrativa e resistenza: “invenzione” della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” – Vercelli, Anno Accademico 2014/2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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