Un acquazzone di luce

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La raccolta Mia sorella la vita, pubblicata quasi un secolo fa (1922) e riproposta integralmente in italiano dalla casa editrice Passigli [Mia sorella la vita], è tra questi. Considerato un caposaldo dell’opera poetica di Boris Pasternak la raccolta è concepita alla vigilia della rivoluzione. Prima che il movimento storico delle masse si incagliasse nella sua terribile cristallizzazione, Pasternak ne fotografa il divenire rivoluzionario: Mia sorella la vita “esprime lo stadio della rivoluzione più vicino al cuore e alla poesia – l’alba della rivoluzione e il suo erompere, quando essa riporta l’uomo alla sua vera natura e vede lo stato con gli occhi della legge naturale”. Scrive il poeta in una lettera a Brjusov nel 1922. L’esistente è mutevole e iridescente, colto dai raggi del sole che illuminano il velo d’acqua steso sulla sua superficie; la natura è in rivolta; “un acquazzone di luce” è l’intera raccolta, secondo Marina Cvetaeva. Pasternak si mette in ascolto, (in)vita ad accogliere ogni accadimento nel senso etimologico di “cadere verso”: movimento in divenire e esperienza della caduta. C’è il sussurro di Rainer Maria Rilke nella convinzione che tutto valga la pena di essere vissuto e di essere attraversato, che la meraviglia porti con sé lo spavento. Del resto i versi conclusivi della Decima elegia di Rilke riassumono questo modo di sentire vicino a Pasternak: “la pioggia che cade su terra scura e primavera.// E noi che pensiamo la felicità/come un’ascesa, ne avremmo l’emozione/ quasi sconcertante/di quando cosa ch’è felice/cade.”

Pasternak rompe gli argini della soggettività per fondersi con gli abissi siderali, con il midollo vibrante della natura, persino quando racconta le vicende private della storia d’amore con Elena Vinograd. Il poeta si lascia smembrare come un Orfeo: non c’è andamento ragionativo, né progressione narrativa, ma continui frammenti in cui possiamo specchiarci solo frangendoci o riflettendo l’esterno; dentro lo specchio appare il giardino, i rami rotti, il caos come suggerisce la poesia dal titolo Lo specchio. In quegli anni Pasternak è vicino alle poetiche futuriste, che rifiutano la convenzionale rappresentazione della realtà e ricercano nuovi mezzi espressivi. Lo stile delle sue prime raccolte è spesso associato all’oscurità di senso e all’indecifrabilità. Sono difficili da comprendere se proviamo con la ragione, ma si sa che in Russia molte cose non si comprendono “con il senno” [Tjučev, La Russia non si intende con il senno]. Succede perché la poesia, non solo in Russia, muove i corpi, evoca il contatto, esige l’ascolto.

Alcune poesie si schiudono davanti ai nostri occhi, come la penultima della raccolta, rivelando l’intero percorso che la vita riserva. Due azioni al modo infinito si impongono e aprono la composizione: “amare” e “andare”; il movimento che generano è caotico e scomposto. In gioventù l’amare e l’andare producono ostacoli e inebriamento, “le fronde ti urtano la faccia”, i baci fanno perdere la strada. La terza strofa indica un primo passaggio di maturità, arriva la consapevolezza dello scorrere del tempo, scandito dalla presenza di ogni cosa, oggetti celesti e terreni, persone, parole (o loro assenza), figure dell’immaginazione. Il mondo spaventa per i suoi cambiamenti, intima al silenzio. Con la maturità si ripensa al passato, “racimolare tra le loro spine/ i fatti degli anni”, subentra la stanchezza della vecchiaia dovuta al caldo o forse al freddo del corpo che si avvicina alla morte. Ma il movimento continua attraverso il canto e il processo del morire. Si continua a cantare fino a tornare alle mani di lei (del primo amore? della vita? della natura?) e fino all’ultima parola del componimento che in russo è prošalsja ( tradotto con “accomiatandomi”).

Infine il congedo, un poco cerimonioso, da una vita che nasce come sorella.

Amare – andare – non si tace il tuono,

pestare angoscia, non conoscere scarpe,

spaurire i ricci, ripagare col bene

il male dei mirtilli avvolti in ragnatele.

Bere da fronde che ti urtano in faccia,

e rimbalzando striano l’azzurro:

“questa è l’eco che fanno?” – e verso la fine,

perdere per via dei troppi baci la strada.

Come a suon di marcia, vagare pieni di lappole.

Apprendere al tramonto che il sole è più vecchio

di certe stelle e certi carri con l’avena,

di Margherita e della locandiera.

Perdere lingua e abbonamento al fortunale

di lacrime negli occhi di valchirie,

e, nell’afa, a tutto cielo ammutolendo,

l’alberatura del bosco affogare nell’etere.

Stesi, racimolare tra le loro spine

i fatti degli anni, come pigne di pini:

lo stradone; la nostra scesa alla Taverna;

albeggia e noi geliamo, mangiamo pesce.

E nel cadere, cantare: “Canuto,

andavo e caddi spossato. Un tempo

la città si ingozzava di gramigna,

a bagno in lacrime di mogli di soldati.

All’ombra di aie lunghe e illuni,

di luci di spacci e di fiasche,

di certo anche lui, il vecchio,

finirà per tirare le cuoia”.

Così cantavo, cantavo e morivo.

Tanto morivo, quanto ritornavo

alle mani di lei, come un boomerang,

accomiatandomi – se ben ricordo.

Любить — идти,- не смолкнул гром,
Топтать тоску, не знать ботинок,
Пугать ежей, платить добром
За зло брусники с паутиной.

Пить с веток, бьющих по лицу,
Лазурь с отскоку полосуя:
«Так это эхо?» — и к концу
С дороги сбиться в поцелуях.

Как с маршем, бресть с репьем на всем.
К закату знать, что солнце старше
Тех звезд и тех телег с овсом,
Той Маргариты и корчмарши.

Терять язык, абонемент
На бурю слез в глазах валькирий,
И, в жар всем небом онемев,
Топить мачтовый лес в эфире.

Разлегшись, сгресть, в шипах, клочьми
Событья лет, как шишки ели:
Шоссе; сошествие Корчмы;
Светало; зябли; рыбу ели.

И, раз свалясь, запеть: «Седой,
Я шел и пал без сил. Когда-то
Давился город лебедой,
Купавшейся в слезах солдаток.

В тени безлунных длинных риг,
В огнях баклаг и бакалеен,
Наверное и он — старик
И тоже следом околеет».

Так пел я, пел и умирал.
И умирал и возвращался
К ее рукам, как бумеранг,
И — сколько помнится — прощался.

La voce italiana di questa raccolta è di Paola Ferretti. La traduttrice non si limita di inseguire una presunta letteralità ma intende riportare la poesia al suo livello extra-semantico, mettendo in campo l’invenzione lessicale, sonora e retorica, cercando in italiano, come nell’originale, la densità di senso per mezzo del tessuto sonoro, la condensazione ritmica che, nelle preziose traduzioni di Ripellino, appare più diluita. La traduzione di Ferretti potrebbe rappresentare una meta-riflessione sul tradurre poiché si coglie una specifica poetica, una scelta di modo e di metodo. E tra le tante strategie messe in atto, è interessante sottolineare  un determinato scarto tra l’originale e il testo tradotto: in russo la discendenza dei componimenti dalla dimensione orale è evidente nella presenza di parallelismi e anafore che, al pari della griglia metrico-rimica, costituisce l’ossatura del dispositivo di memorizzazione nella misura in cui i segmenti ricorrenti diventano appigli della memoria; nella versione italiana, se il rigido schema rimico-metrico salta, si riducono notevolmente i procedimenti “formulari”. Attraverso tali scelte la traduttrice sembra esprimere l’impossibilità di restituire la dimensione orale dei componimenti, forse suggerendo la natura eminentemente scritta della traduzione di poesia nella cultura contemporanea, il suo legame con la cultura del libro e, di riflesso, con la cultura alta; o forse ricordando il percorso di trasformazione della poesia occidentale verso la dimensione scritta (o di una parte di essa), e con essa di una sua costola, la traduzione, in contrasto con la tradizione russa, in cui la poesia, almeno per tutto il Novecento, ha coltivato la sua dimensione orale e oracolare.

Elisa Baglioni, Su Boris Pasternak, Mia sorella la vita, atti impuri, 21 marzo 2021

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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