Un contrasto fra Genova e Chiesa sull’Inquisizione

A fine Seicento esplode a Genova la questione delle Consulte vale a dire “l’esame finale da parte dei giudici e dei loro consulenti giuridici e teologici, tipico di tutti i processi inquisitoriali” che stando alla “rappresentazione” dei Protettori del Santo Ufficio più non si tenevano a Genova “non solo ne’ termini che si praticava anticamente, ma nemmeno nelle formalità che anche nello stato più depresso anteriore all’ultimo aggiustamento era introdotta”.
Come scrive il Canosa, p. 192 “Il posto della Consulta come luogo di decisione delle cause era stato preso dagli ordini ricevuti da Roma che stabiliva per tutti i processi inquisitoriali qualità e quantità delle pene che il tribunale avrebbe dovuto infliggere”.
Il pontefice, direttamente coinvolto nella questione, non pareva esser rimasto insensibile all’osservazione dei Protettori per cui siffatto cambiamento operativo risultava apertamente in contrasto al “…dovere e alla buona consuetudine, pregiuditiale ai processati, gravoso ai popoli, distruttivo della sostanza del tribunale e disdicevole a molte convenienze pubbliche”: per siffatta ragione il papa, a suo dire, avrebbe ” studiato di dare alla repubblica tutto quel maggior gusto che havesse potuto”.
E verisimilmente, proprio per calmare le acque e dare sostanza a questa pontificia affermazione, il nuovo Inquisitore ecclesiastico di Genova tenne una Consulta in occasione di un procedimento abbastanza importanta, Consulta cui presero parte con altri Francesco Maria Doria, Francesco Maria Lercaro, i Magnifici Nicolò Passano e Marc’Antonio Gentile oltre ai Protettori Gio. Batta Centurione e Agostino Saluzzo.
Evidentemente si era trattato di un momentaneo accorgimento per tacitare le rimostranze genovesi atteso che il Padre Inquisitore, nei processi successivi, ripristinò la nuova metodologia, che comportava in pratica lo svolgimento dei processi a Roma e che coimplicava vari elementi negativi come una lunga carcerazione degli inquisiti e, indubbiamente, la violazione dei diritti dello stato genovese.
A confortare siffatta situazione storica Romano Canosa, p. 192 riprende i termini di una “Relazione” congiuntamente realizzata nel 1696 dai Protettori in collaborazione coi membri della Giunta di Giurisdizione: nel documento si faceva rilevare come da oramai 18 anni la Consulta non veniva di fatto più praticata “anche omessa quella pura apparenza che si pratticava nello stato più depresso, cioè a dire la formalità della Consulta e di inviarla a Roma per la decisione”.
A fronte di queste proteste i componenti dei due organi politico-amministrativi erano ben consci delle difficoltà tanto del problema quanto dei correttivi da individuare: si ipotizzò, non senza tremore, di frapporre, qualora Roma fosse rimasta sorda ad ogni querela, degli impedimenti alla cattura degli inquisiti da parte del Santo Ufficio.
Il tremore indubbiamente derivava dalla consapevolezza che la Santa Sede avrebbe potuto contestare a Genova non solo di ostacolare i servizi del Tribunale dell’Inquisizione ma anche di favorire l’impunità a fronte di delitti e crimini di indubbia gravità.
Tentando di mediare in un campo così delicato, e soprattutto a contestazioni patibili da Genova in merito alla seconda possibilità, nella citata “Relazione”, vagliando come in campo religioso sempre meno frequenti fossero i reati di mera eresia a fronte di quelli di misto foro, si ipotizzò apertamente di estendere le competenze del Magistrato degli Inquisitori di Stato, “…ampliando anche l’autorità che detti Signori Inquisitori tengono contro quei che nelle chiese commettono qualche delitto ad altri simili che possono riguardare il serviggio di Dio anche fuori delle dette chiese”.
A questo punto come ragguaglia ancora il Canosa, p. 193 sopravvenne il caso Dupuis, l’arresto cioè di un prete francese tale Giacomo Dupuis che fu fatto arrestare e quindi venne condannato dal Tribunale dell’Inquisizione a 7 anni di remo per essersi macchiato del crimine di poligamia: tutto era avvenuto attraverso le gerarchie ecclesiastiche e lo Stato genovese non vi aveva avuta alcuna parte, anche i Protettori non erano sati interpellati ed erano di fatto stati relegati al ruolo di “semplici testimoni alla sentenza pubblicata, già determinata a Roma”.
Il Canosa, p. 193 riassume abilmente la stringente protesta della Signoria, comportante un ulteriore sospetto, che cioè alla base di ogni decisione “potesse esservi stata “…una intenzione sinistra della Congregazione di voler ridurre ad una pura formalità ciò che si è consentito da Roma per mero atto di necessità alla Repubblica, di riconoscere dalla lettura dei processi se sia stato fatto alcun pregiudizio nei medesimi ai suoi sudditi. Un veemente sospetto di ciò era costituito dal fatto che havendo cercato qualche volta loro Eccellenze di venire un giorno prima della sentenza alla lettura dei processi, sotto vari pretesti l’Inquisitore lo aveva impedito”.
A questo approccio seguì un’azione più decisa della Signoria intenzionata a non palesarsi in merito al caso Dupuis troppo remissiva di rimpetto alla Santa Sede.
Da un lato al Padre Inquisitore fu fatta pervenire una “Lamentatione” ufficiale in cui il Governo di Genova palesava le sue “perplessità” in relazione a tale vicenda giudiziaria ed agli inconvenienti che aveva comportato: soprattutto ponendo l’accento sul processo deciso a Roma e sull’assenza di una Consulta.
Per altro verso (“Istruzione” del 1698 in Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404) allo Spinola, plenipotenziario genovese a Roma, si commise l’obbligo di interpellare lo stesso pontefice in merito a tante carenze procedurali e formali, non esclusa certo la mancata convocazione dei Protettori trattati in modo, come detta la stessa “Istruzione”, che “…non si dà loro notizia non solamente delle qualità, ma nemmeno del nome e cognome del reo e si rappresenta loro il caso solamente in abstracto, dove all’incontro gli Eccellentissimi Protettori, oltre la notizia che hanno della persona prima di concedere la cattura, devono anche intervenire alla lettura dei processi offensivi e difensivi prima della pubblicazione della sentenza”.
Il papa alle interpellazioni dello Spinola rispose, come era nel suo carattere, in maniera benevola affermando che rientrava nei suoi voti che le cose “camminassero in quell’ordine in cui erano per avanti, non essendo egli amico d’impegni per intraprendere novità”.
Non si allontanò da questo formula abbastanza vaga e lasciò di fatto che lo Spinola trattasse l’annosa questione con il cardinale Spada e con la stessa Congregazione del S. Ufficio.
Il plenipotenziario genovese in Roma si trovò così in qualche difficoltà, non tanto per i rapporti con lo Spada, ma per l’atteggiamento evasivo, per quanto cortese, del Commissario Generale del S. Ufficio che nel corso di un’udienza gli rassegnò come, dall’analisi personale che aveva fatto delle carte sottoscritte nei tempi pregressi, nulla risultasse di sostanziale in merito alla tesi genovesi sulla “tassativa assistenza ai procedimenti inquisitoriali dei Protettori”.
Per sua sfortuna lo Spinola non aveva molto materiale diplomatico di cui avvalersi nelle sue dispute diplomatiche.
Praticamente il solo documento concreto su cui poteva far conto era il concordato del 1678 stipulato da Genova con papa Innocenzo XI in merito al quale “non potea dubitarsi che la Congregazione havesse havuta presente questa convenienza della Repubblica”.
A fronte delle difficoltà che l’abile diplomazia romana gli poteva far sorgere contro, lo Spinola ritenne possibile cercare un scorciatoia di comodo reciproco e per questo, come ancora annota il Canosa, p. 194 e note 4 e 5, propose al suo Governo (lettera del 28 giugno 1698) di adottare per l’assistenza alle Consulte dei Protettori una formula pressoché identica a quella ideata per la loro assistenza ai processi che dettava sia “ad arbitrio della S. Congregazione” quanto “ad arbitrio del padre Inquisitore”.
La soluzione non dovette piacere alla Signoria se questa gli rispose indirettamente di far altra cosa, cioè di prendere tempo e di formulare una strategia che mirasse principalmente a che “si levasse di mezzo il disordine di farsi in Roma le sentenze contro degli inquisiti”.
Fatti estranei al contenzioso tra Genova e Roma determinarono una pausa nelle trattative: il Sant’Uffizio si era imprevedibilmente trovato di fronte ad altra e più seria questione, che comportava un’aspra controversia tra l’arcivescovo di Cambray ed il vescovo di Meaux.
Ed anche dopo che la questione fu risolta, tra la Repubblica e la Santa Sede intercorse un periodo di silenzio, bruscamente interrotto da un fatto non tanto di ordine diplomatico o giursdizionale quanto piuttosto legato alle contingenze della vita: la morte del Bertucci, Padre Inquisitore in Genova, avvenuta nel 1701.
L’evento luttuoso tuttavia, dati il rilievo e la pubblica funzione del defunto, comportò una serie di problematiche di ordine formale e diplomatico.
In primo luogo si pose il problema della partecipazione o meno dei genovesi Protettori alle esequie solenni da tenersi nella chiesa di San Domenico in Genova: ed al riguardo il Vicario del Sant’Ufficio aveva avanzata un’esplicita richiesta.
Fu a tal punto che il Governo indusse i Protettori a scrivere, a Roma, a Filippo Cattaneo, il “gentiluomo” che al momento andava seguendo le vicende del Sant’Ufficio per conto di Genova, perchè s’adoprasse “con la destrezza e prudenza sua propria” al fine che venisse nominato per Genova un nuovo Padre Inquisitore che potesse “riuscire di pubblica soddisfatione”.
Questa richiesta, unita al fatto che in fine della storia i “Protettori” non presenziarono alla cerimonia funebre per il Bertucci, va a formulare un bilancio abbastanza enigmatico ma comunque di sostanziale incertezza e perdurante tensione in merito ai rapporti intercorrenti ancora tra Genova e Congregazione.
E del resto che il vecchio concordato di Genova con Innocenzo XI si reggesse su una linea di precari equilibri lo si potè dedurre abbastanza presto, quando nel 1711, quando i Protettori furono messi al corrente dal Vicario del S. Ufficio che il Padre Inquisitore di genova Corradi non si riteneva in dovere di “somministrare” loro il procedimento avverso un sacerdote accusato di sollecitazioni in confessione.
Atteso il diniego non mancò risentimento ufficiale del Governo che incaricò ancora Filppo Cattaneo di affrontare la questione trattandone con il cardinale Del Giudice che faceva parte della Congregazione del S. Ufficio ma che, notoriamente, era filogenovese.
Le raccomandazioni al Cattaneo furono affidate ad un documento, riesumato dal Canosa, p. 195 e nota 6, che tuttora si custodisce nell’Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404, contestualmente ad altre carte spettanti al Santo Ufficio e comportante una serie di lamentele (con la segnalazione delle relative indagini) avverso le procedure dell’Inquisizione genovese, ritenuta responsabile di gravi dilazioni nell’uso delle carcerazioni preventive e degli eccessi nelle spese imposte agli inquisiti.
L'”Istruzione” inoltrata al Cattaneo e da questi comunicata personalmente al cardinale Del Giudice espressamente riportava un invito a che il cardinale mettesse “…nella dovuta attenzione il padre vicario presentemente [l’Inquisitore Corradi era nel frattempo morto] ed a suo tempo il nuovo soggetto che sarà eletto alla carica di Inquisitore i quali, operando diversamente dal consueto, non potrebbero doleri che di sè medesimi se non incontrassero nella Repubblica Serenissima o sia nei detti Eccellentissimi Protettori tutte quelle facilità et assistenze che sono state contribuite sin’ora con tutta la pienezza in ogni occorrenza del Tribunale”.
Il cardinale Del Giudice non rimase sorpreso delle richieste, di cui già conosceva l’ideazione, come del pari già era al corrente della successione degli eventi ed in particolare del fatto che il Governo di Genova, spinto da eccessivo rigore, aveva con fretta ed una certa mancanza di tatto, sostanzialmente estranei alla reale portata dei problemi in essere, obbligato il vicario a raggiungere la sala in cui si riuniva solitamente la Giunta di Giurisdizione: a suo parere la Santa Sede non avrebbe mai concesso che il Tribunale dell’Inquisizione dovesse assoggettarsi ad un duplice controllo quello legittimo dei “Protettori” e quello nuovo della “Giunta”.
A parere del cardinale romano la scelta del defunto Inquisitore Corradi aveva delle giustificazioni e non risiedeva in un volontario affronto ai “Protettori” e quindi allo Stato: l’accusa era infamante, la colpa sconveniente, il procedimento così particolare da rendere considerabile l’esclusione della partecipazione dei “Protettori”.
Gli argomenti scabrosi, di chiara matrice erotica, coinvolgevano infatti donne, monache, zitelle, creature strutturalmente fragili e comunque plausibilmente restie a denunciare le molestie sessuali sapendo che queste sarebbero venute a conoscenza di due Senatori della Repubblica.
Ragguagliando il suo Governo (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1405, lettera del 5/I/1712) il Cattaneo riassunse la sua linea operativa basata sulla minimizzazione della possibile mancanza fatta al Vicario dell’Inquisizione e soprattutto sul principio che secondo i contenuti dei concordati ai “Protettori” non avrebbe dovuto esser inibita la partecipazione a processi di simil genere.

 

da Cultura Barocca

 

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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