Un grande intellettuale, gesuita, portoghese, difensore degli Indios

 

Nel Seicento il celebre gesuita ed intellettuale lusitano Antonio Vieira (1608-1697), grande predicatore (infatti, Vieira confessore e predicatore di Maria Cristina di Svezia ne influenza la visione millenaristica attraverso la sua personale e talora contestata interpretazione), fu illustre anche per il suo indefesso impegno a pro dei Nativi Americani (essendo profondamente convinto che da sempre si sia versato sangue e si siano perpetrate orribili ingiustizie indotti oltre che dall’avidità di guadagno e ricchezza in molti casi anche dall’ignoranza che genera l’incomprensione e quindi l’emarginazione sin ai livelli più brutali). Nativi Americani o Indios che, per celebrarne perennemente la figura lo gratificarono dell’appellativo onorifico e affettuoso di loro “Padre Grande” e davvero giustamente -sarebbe subito da aggiungere- atteso quanto per loro fece sin al punto di ottenere, contro la volontà dei molti e mai accontentandosi dei risultati raggiunti per le limitazioni via via interposte da interessati colonizzatori, dalla, in qualche modo, tragica figura del re del Portogallo D. João IV la Lei de Liberdade dos Índios.

Ma contestualmente Padre Antonio Vieira operò a favore anche degli Ebrei e dei “Marrani” e quindi dei diritti dei cristãos-novos contro i privilegi dei cristãos-velhos.

Ed oltre che per tale impegno evangelico, apostolico e filantropico (sino al segno di esser accostato all’ “Apostolo delle Indie” Bartolome’ De Las Casas) la sua fama planetaria si diffuse anche per altre ragioni: tra cui la tenacia (ma anche il coraggio a fronte del predominio spagnolo) con cui portò avanti quelle idee messianiche e millenaristiche che elaborò da quella sorta di bizzarro profeta che fu il Bandarra e che, tra non poche opposizioni, sublimò in un’opera infinita la Clavis Prophetica o Clavis Prophetarum (cosa che comunque gli garantì anche l’ammirazione di non pochi fautori tra cui Maria Cristina di Svezia) e che se da un lato portava innanzi l’idea della Rinascita del Portogallo nel contesto di un regno millenario contestualmente coimplicava una critica allo strapotere spagnolo contro cui fu anche indotto ad agire direttamente per eccitare una rivolta antispagnola a Napoli sulla scia di quella drammaticamente conclusasi di Masaniello.

L’erudito, frate agostiniano, già inquisitore, Angelico Aprosio, detto anche il “Ventimiglia”, dal nome della sua città natale del Ponente Ligure, dove, dopo una vita di intensi viaggi anche culturali in ispecie nel Nord-Est e nel Centro d’Italia, tornò per trascorrervi gli ultimi anni di vita e dove costrituì un’imponente, per i tempi, “Libraria”, Biblioteca pubblica di grande rilievo, non poteva ignorare Antonio Vieira la cui grandezza era indiscutibile [in senso meramente letterario ne fa specie (con quella di altre letterature europee e non) la vasta conoscenza della lingua e della letteratura spagnola e comunque addirittura della produzione letteraria delle colonie del “Nuovo Mondo” ad opera del frate ventimigliese: e l’erudito ventimigliese non mancava di competenza nemmeno sull’area culturale portoghese, specificatamente su autori come Luiz Nunez e Francisco Macedo].

Soprattutto la conoscenza del grande lusitano doveva esser indiscutibile per uno come “il Ventimiglia” che più volte era intervenuto avverso i predicatori alla moda e del nulla invocando predicatori della sostanza come in definitiva era proprio il Vieira.

Sarà magari un giudizio azzardato ma il fatto di non averlo citato può esser legato alla collocazione politica del predicatore portoghese, alla sua discussa interpretazione profetica e millenaristica e non ultimo ai suoi ripetuti contenziosi avverso l’Inquisizione oltre che certe posizioni – che tanti problemi gli crearono a difesa degli Ebrei quanto dei cristãos-novos a fronte dei privilegi dei cristãos-velhos: Aprosio aveva spesso “spinto sull’accelerazione delle idee” e in definitiva nel giudizio globale della sua esistenza mai era riuscito davvero a liberarsi della fama di esser “Poeta”, nel senso allora decettivo di provocatore e polemista spesso incontrollabile e tutto ciò anche se aveva cercato di calmierare questa sua postazione assumendo la carica di Vicario dell’Inquisizione = una certa cautela, trattando di un autore che aveva tanti amici ma altrettanti nemici, e spesso politicamente e gerarchicamente possenti, può esser stata una ragione di cautelativa per non perdere alcuni sostenitori od imbattersi, avvicinandosi il crepuscolo del suo tempo, in dibattiti che avrebbero potuto frustrarlo come in fondo anche Antonio Vieira rimase frustrato dal suo impegno intellettuale e politico sin ai limiti di esser incarcerato sotto l’accusa di eresia giudaizzante e comunque di conoscere l’arresto in forza delle sue idee già sotto forma di una prigionia per la difesa degli Indios contro le pretese schiaviste dei coloni (1661) ed ancora di risultare incarcerato e processato ulteriormente sempre nel contesto della sua attività evangelica e filantropica (dal 1667 al 1668).

Vieira, missionario nel Maranhão e nel Pará dal 1653, nella cui veste difese instancabilmente i diritti umani non degli tutelati dal diritto Indios, combattendo contro le esplorazioni e la schiavitù [non raggiunse la fama -anche per una discordanza cronologica- dell'”Apostolo delle Indie” Bartolome’ De Las Casas epocalmente calato nel momento culminante del “genocidio”: ma ebbe grande fama tra gli Indios per il suo apostolato e per la difesa incessante – in quel ‘600 in cui la conquista era avvenuta e, seppur tra meno eclatanti drammi, lo sfruttamento continuava sanguinoso – che faceva dei nativi che gli conferirono l’appellativo di “Padre Grande”].

Venne poi processato dal tribunale dell’Inquisizione ed imprigionato dal 1667 al 1668 con l’accusa di aver annunciato il regno millenario del Portogallo e l’imminente resurrezione del defunto Giovanni IV; graziato e riabilitato dal re Pietro II e da Clemente X, che gli concesse l’opportunità di predicare davanti al Collegio dei Cardinali, prendendosi quindi una grande rivincita contro chi l’aveva condannato per eresia; confessore [e predicatore ufficiale] della regina Cristina di Svezia.

“La sua produzione letteraria è molto vasta” [scrive ancora Maria Carmela De Marino ] oltre che varia: dai sermoni agli scritti meditativi e profetici, fra cui la Historia do Futuro che rimasta incompiuta verrà pubblicata postuma nel 1718, alle operette di argomento politico o sociale, agli atti del processo inquisitoriale, alle oltre 800 carte tra lettere, prediche e argomenti vari. Vieira si dedicò personalmente alla sistemazione dei suoi scritti dal 1681, quando cioè fece definitivamente ritorno in Brasile, aiutato in quest’impresa da alcuni padri del Collegio di Bahia. Molti altri testi, sia manoscritti che a stampa, sono stati raccolti e pubblicati postumi in più tappe, ma ad oggi sono centinaia quelli ancora da studiare. Gli scritti più rinomati sono indubbiamente gli oltre duecento Sermões (1679-1684), frutto dell’instancabile attività di predicazione che il gesuita svolse tra Bahia, Lisbona e Roma. Per le tematiche politiche, sociali ed economiche affrontate, i sermoni appassionano ancora oggi i lettori e sono annoverati, dalla letteratura portoghese, come brillante esempio di oratoria sacra.

A questi si aggiunge la Clavis Prophetarum, il progetto più importante di Vieira al quale dedicò cinquant’anni della sua vita. Si tratta di un’opera di argomento profetico ed escatologico dallo stile freddo e controllato rispetto ai Sermões, dalla quale emerge la visione millenaristica [nemmeno priva di valutazioni astrologiche specie in merito a comete ed eclissi] dell’autore.

Il manoscritto originale è andato perduto; la più importante testimonianza è rappresentata dalla Sententia del gesuita milanese Antonio Carlo Casnedi (1643-1725), il quale ricevette dal cardinale Nuno Cunha de Attayde (1664-1750), Inquisitore portoghese, l’incarico di esaminare gli originali che alla morte di Vieira erano stati chiusi in un’arca. da Cultura-Barocca

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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