Su Guido Seborga

 

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[…] prendevo lucidamente atto che la Valle delle Meraviglie rinasceva in me dalle origini e che la mia psicosi di cui ero ormai abbastanza consapevole si urtava con questo mondo delle origini, i segni ideografici incisi su quelle rocce tra l’incanto del silenzio e delle forme materiali mi si rivelarono come non mai, la mia matita disegnava come se avessi sempre disegnato […] Provavo una felicità rara e una ricchezza straordinaria per fantasia. Sapevo di ricavare improvvisamente ogni mia facoltà da un mondo antichissimo che in me non s’era ancora rivelato. Ma questo non veniva fuori dalla volontà, ma da un dono singolare. Concentravo la bellezza, tutto quanto avevo vissuto e vivevo nel quadro che trovavo. Non perdevo un istante e anche nelle poche ore di sonno ero in veglia, come un indiano […] non dormivo mai cioè non perdevo mai completamente coscienza di me, la mia realtà si estendeva nel sogno, il sogno nella realtà, la materia fenomenica mi alleggeriva e davvero mi sembrava che avrei potuto volare oltre l’orizzonte quella demarcazione instabile che mi aveva sempre (prima) fermato ora non mi ossessionava più. La pittura fisicamente più viva della parola più difficile mi liberava. Ero meravigliato di questa nuova possibilità che non avevo voluto. Ho sempre riso della volontà. Non facevo nessuna fatica a lavorare dieci ore al giorno. Quattro ore in mare, tre ore di sonno ed ero riposato desideroso di rimettermi al quadro che mi stupiva per tutte le possibilità che mi offriva. Il mondo esterno non esisteva più […] Dal segno passavo al disegno poi a forme specifiche e ai colori. La pittura di «realtà ideografica» era nata […] Mi sono singolarmente arricchito. Prima la macchina da scrivere. Ora pennelli e macchina da scrivere […]
Guido Seborga, Occhio folle, occhio lucido, Ceschina, 1968

“Dalla parte di Savona la costa è brulla, severa, coi comignoli delle fabbriche; e non c’è demarcazione tra Vado e Savona, ma un susseguirsi ininterrotto di casoni grigi e tristi”.
Guido Seborga

Lavorando al libro (Laura Hess, Massimo Novelli, Guido Seborga. Scritti, immagini, lettere, Spoon River 2009), ho ritrovato lettere cartoncini d’invito tessere moltissime foto che mi hanno riportato alla memoria episodi vissuti da me o raccontati da mio padre da cui emerge la sua vitalità e la sua forte carica umana. Il mio è il ricordo dell’uomo, ma nel corso degli anni e più che mai oggi mi è difficile separare il padre dal personaggio.
Padre impetuoso, affettuoso, sensibile, generoso che mi coccolava che era pieno di attenzioni nei miei confronti, mi portava sulle spalle a scoprire l’entroterra, mi insegnava ad aver confidenza col mare a non averne paura ma anche padre di umore imprevedibile, presente – assente (chiamava il Pennello il molo di Capo Ampelio [ndr: a Bordighera] e faceva lunghissime nuotate emergendo all’improvviso in fondo al lungomare dove io mi trovavo in spiaggia con la mamma).
Quando c’era, perchè in quegli anni spesso era a Parigi, Roma, Milano, mi raccontava di quei luoghi ma Parigi, da cui mi portava collanine fatte di perline colorate; per me bambina era diventato un luogo mitico che evocava attraverso le parole di mio padre, personaggi strani, africani e orientali, musiche film e canzoni su cui lavorava la mia fantasia.
Intanto io andavo regolarmente a scuola, scuola che lui mi ha sempre invitato a non prendere troppo sul serio, raccontavo di Parigi, di Sartre, Vercors, Artaud e Breton, il “Deux Magots”, Juliette Greco i bistrots: tutti nomi che stupivano i miei compagni e i miei insegnanti come li stupivano i nomi di Gramsci, Gobetti, Svevo, Alvaro, Sbarbaro, Jaier.
Appassionato di cinema e critico cinematografico, mandava me e la nonna al cinema a vedere film che regolarmente erano vietati ai bambini!
Questa mia vita di bambina e ragazzina era abbastanza diversa da quella di molte compagne ed amiche che vedevano il padre alla sera a cena. Il mio scriveva tutto il giorno e alla sera usciva.
A tavola si discuteva degli avvenimenti politici, del Fronte popolare, per il quale papà a Roma si era occupato della propaganda, dell’invasione dell’Ungheria, di Tambroni, di Togliatti e di Nenni, della vita sotto la dittatura fascista, del periodo partigiano nelle Valli di Lanzo o del mitico viaggio da Bordighera a Torino l’8 settembre attraverso la val Roya, prima che i tedeschi facessero saltare i ponti. Mi sembra di rivedere mio padre infervorato raccontare che, scesi a Trofarello, la mamma salì su di un tavolo e improvvisò un comizio ai soldati sbandati invitandoli alla resistenza.
E ogni 25 aprile si andava alla manifestazione in piazza Carlo Felice a Torino: i discorsi contro la guerra e un suo certo fastidio nel vedere sfilare carri armati e cannoni.
Esaltanti racconti sulle passeggiate notturne da una parte all’altra di Parigi con Mastroianni e Franchina (li chiamavano i tre cammelli), lo studio e la povertà di Severini, le lamentele di Savinio contro il fratello De Chirico, ma anche il silenzio in casa quando lavorava, il carattere ribelle, impetuoso poco incline alla cultura ufficiale hanno connotato la mia vita: ricordo scenate, discussioni piuttosto violente per strada sotto i portici di Torino o sui marciapiedi di Bordighera, quasi sempre con persone che non amava, ma a volte anche con amici, che mi creavano un certo imbarazzo.
Collerico ed istintivo era capace però di grandi e profonde amicizie. In quest’anno d’incontri e celebrazioni me lo sono sentita ripetere molte volte soprattutto da quelli che, come Elio Lanteri o Giorgio Loreti, erano i suoi giovani amici e allievi di cui ha condiviso con entusiasmo le esperienze culturali (l’Unione Culturale Democratica di Bordighera) e le incertezze, incoraggiandoli nell’andare avanti dando consigli libri, mettendo a disposizione i suoi scritti con attenzione e disponibilità.
Giorgio Loreti, intervistato nel video “Guido Seborga, ritratto d’artista” girato da Gabriele Nugara in occasione del centenario della nascita dice “era sempre entusiasta delle nostre iniziative; non era mai un pompiere; diceva sempre ‘bravi andate avanti’ “.
In casa passavano grandi personaggi, ma anche pescatori, camalli, operai, passeurs… gli stessi che erano i protagonisti dei suoi scritti.
Ricordo l’insistenza con cui aveva convinto il giovanissimo Biamonti a partecipare con un racconto al premio “Cinque Bettole”. Per molti anni a Bordighera il suono del campanello di sera tardi annunciava che Francesco veniva a discutere e a parlare dei suoi romanzi, a leggerne dei brani.
Papà si occupò a Bordighera delle “mostre di pittura americana”, di cui non ricordo molto, ma un periodi di grande agitazione in casa era quello dell’organizzazione del premio “Cinque Bettole” e ho un ricordo indelebile delle serate della premiazione nel paese vecchio di Bordighera nei cui vicoli, bambina, ho preso parte insieme a papà al documentario girato da Vladi Orengo.
In famiglia siamo stati tutti contagiati dal suo entusiasmo, non solo per le rappresentazioni del “Teatro della realtà” nelle strade di Vallebona e altri paesi dell’entroterra negli anni ‘50, ma anche per un’altra delle sue avventure, la mitica rappresentazione nel ‘46 del Woyzek nell’appena riaperto Teatro Gobetti con Raf Vallone giovane giornalista de “L’Unità”: “Subito dopo la guerra a Torino nel teatrino Gobetti non ancora riscaldato e freddissimo Raf Vallone provava per ore, vicino a lui una bellissima ragazza fuggita di casa per recitare. Era un inverno gelido e si provava in cappotto e non riuscivamo a scaldare i nostri corpi ancora denutriti dagli anni di guerra; c’erano Ciaffi e Menzio animatori, quel piccolo teatro, che diede come primo testo il Woyzek di Büchner, fu una manifestazione di ripresa di vita dopo anni di silenzio” (dal diario, Occhio folle, occhio lucido, Ceschina 1968).
Romanzi, racconti, poesia, teatro, cinema, giornalismo, organizzazione di mostre e attività culturali, tante passioni che però non gli bastavano e verso la metà degli anni 60 , complice anche il “non essersi genuflesso” al mondo editoriale, una nuova avventura: la pittura.
Rivedo ancora, in un viaggio in macchina attraverso la Val Roya tra una curva e l’altra, la sua mano tracciare su una vecchia busta dei segni, che noi non avevamo preso molto sul serio, e che sono poi diventati i primi ideogrammi, le prime tempere […]
Le molte mostre in Italia e all’estero riempirono gli ultimi anni della sua vita prima della malattia e di una difficile vecchiaia la sua mano vissuta con il continuo sostegno di mia madre di pochi grandi fedeli amici e giovani a cui era ancora in grado di comunicare entusiasmi ed interessi e con l’ultima preoccupazione e gioia: il tenero rapporto con il nipotino, la cui maturazione umana è stata l’impegno dei suoi ultimi anni.
Laura Hess [ndr: figlia di Guido Hess Seborga], 13 febbraio 2010

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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