Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature

[…] La più tipica, la più importante frontiera d’Europa – la cui portata storica è immane, insuperata – è il Mediterraneo. Biamonti non solo l’osserva e lo descrive, lo naviga, almeno virtualmente. Il protagonista dell’”Angelo” è un marinaio in attesa di un nuovo imbarco, nel finale del libro il Mistral spazza Marsiglia.
In “Attesa sul mare” il marinaio Edoardo lascia i suoi ulivi malati e s’imbarca, come s’è accennato, su una vecchia nave per le coste della ex-Jugoslavia con una partita di armi clandestina nella stiva, suo compagno di traversata è uno spagnolo, gli ordini arrivano – e poi si taceranno di colpo – da una misteriosa agenzia di Tolone via radio. Ma la navigazione è poco più che un pretesto, l’eventuale marinaio che è dentro l’autore, sempre visibile dietro lo schermo dell’attore principale, soffre sempre il «male del ferro», il dolore e l’angoscia rilasciati, come la ruggine, dalle lamiere dello scafo. Il tema della fuga porta sempre al medesimo punto di partenza, alla medesima terra: basta un ulivo per gemellarle tutte. Ulivi, piante e pietre sono i medesimi anche dall’altra parte del Mediterraneo: «Passarono un’erta di rosmarini agitati dal vento. Gli vennero in mente rosmarini e api di Pietrabruna, i cespi di lavanda che il cielo rendeva armoniosi ed infuocava». <24 La si potrebbe chiamare la sindrome dell’approdo.
6.
Chiamato a rispondere proprio sul tema del Mediterraneo, <25 in uno dei suoi ultimi scritti d’occasione – non narrativo: ma riflessione e narrazione in lui si intrecciano, epperò si limitano a vicenda – Biamonti assolve così al suo compito:
“A guardarlo dalle nostre colline, della Liguria occidentale, sale all’orizzonte come un immenso edificio di luce. Fa sognare partenze, voli supremi. A volte è bianco e fa l’effetto di una nuvola; più spesso è di un azzurro che sconfina; se il vento lo ghermisce, appare solcato di cammini, specie di sera. Ma in fondo che mare è? A un’apertura, a una libertà metafisica non corrisponde una realtà geografica: è quasi un lago e le sue rive sono state spesso insanguinate e lo sono anche adesso. Su coste di sabbia o di roccia si svolgono faide politiche e religiose, lotte d’intolleranza monoteista. Possibile che come dice Freud non si possa vivere senza un dio a contatto del deserto? Dio personificazione dell’eterno e del padre primordiale. Viene da dire con Camus: beati gli orfani. Aver perduto gli dei greci e il dio cristiano è un privilegio che rende liberi e soli con la propria coscienza. Rende beninteso anche tristi e responsabili. È un mare che il più delle volte risplende e il suo bordo lontano sembra versarsi altrove per rifrazione di orizzonte. Montale lo ha chiamato «antico» […] e avrebbe voluto carpirne la voce e tradurla in «balbo parlare». […] Camus ha sentito l’orgoglio, l’intima felicità di averlo guardato a lungo da ragazzo sulla costa algerina”.
E ancora, con rapida approssimazione al «vicino» e altrettanto rapido riconoscimento della barriera, del muro che esclude:
“Fra il mio paese e il mare si frappone una rupe, un agglomerato di ciottoli e conchiglie (o piuttosto di orme di conchiglie) dall’aspetto arcigno. La vegetazione di ginestre spinose, quelle che ha utilizzato Sutherland in «Capo di Spine» per dare un’idea della crudeltà del mondo, di cisti vellutati e fragili, di qualche ulivo superstite che vive a stento. Di lassù si gode, saltate le orrende costruzioni della nostra costa, di un vasto arco luminoso. La giornata era tersa, il mare mosso; l’acqua viaggiava e l’Esterel lontano prendeva il largo con le sue cime evanescenti; le due isole Sainte-Margherite e Saint-Honorat sembravano anch’esse velieri d’argento. Ma non riuscivo a trasognarmi, a comporre in pace quel paesaggio”.
Per terminare così:
“Ma, sogni a parte, non so veramente che dire, questo azzurro che scolpisce le cose che tocca e le corrode, che ha sovrastato un mondo di pastori, di pescatori, di ulivicoltori, è pieno di ombre segrete sempre più fonde per eccesso di storia e di luce”.
A parte la solita «apertura a destra» (orografica), dal suo lembo di terra non verso la costa italiana, ma verso il ponente francese, subito il mare, le due isole di Cannes e i monti (l’Esterel), il Mediterraneo non costituisce una autentica realtà geografica che assuma poi la configurazione simbolica di uno spazio dotato di valori in sé, componga insomma la figura di un ideale, sia pure quello sotteso al «passaggio» (il rito di ogni frontiera versus l’avvertenza del confine come barriera, impedimento: «Fra il mio paese e il mare si frappone una rupe […]»), non una realtà storica per eccesso di storia, non un partecipabile bacino sacrale – come potrebbe essere quello che contiene una frontiera di religioni affini e avverse intersecantesi – per deliberata esclusione degli déi greci e del dio cristiano, il Mediterraneo è per lui semplicemente ma coraggiosamente – il coraggio della via di togliere – l’abbacinante specchio d’acqua dirimpettaio, il contraltare laico della terra nascosta, dell’asylum contornato di ginestre spinose sutherlandiane e di ulivi stenti. <26
Staticità assoluta? No, in apparenza. L’”Hondurian star”, la nave di Edoardo in “Attesa”, addirittura risale il maestrale, vento che travalica i confini, ne raggiunge il supposto, fantasticato nido a Saint-Malo e poi scende a Tolone, in Provenza, così come dalla sua terra Biamonti fruga con lo sguardo e ascolta le balze che scendono in Francia. Il punto di vista è quello di un confinato in un «porto» di altura montana, e il quadro paesistico pare rielaborato sull’onda della condizione «trasognata» in studio con la luce rivissuta come un soffitto schiacciante, come un’epidermide. È il paesaggio del prigioniero nel villaggio sulle alture, il porto con un unico, finalmente autentico marinaio tra gli ulivi.
7.
Chi ha parlato di «pathos della frontiera» è Italo Calvino nella quarta di copertina, battesimale e ormai famosa, del primo romanzo:
“Ci sono romanzi-paesaggio così come ci sono romanzi-ritratto. Questo vive pagina per pagina, ora per ora, della luce del paesaggio aspro e scosceso dell’entroterra ligure, nell’estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia.
[…] Tra i casolari di pietre e i villaggi di bungalow, i due aspetti della Riviera sono qui presenti insieme: un’agricoltura faticosa e solitaria e il mondo facile del turismo, a cui s’aggiunge la nuova dimensione del vagabondaggio giovanile che segue il miraggio della droga. E poi il pathos della frontiera, con la sua drammaticità depositata in tante storie di guerra, di contrabbando, d’espatrii clandestini”.
Quando usa il termine «frontiera», Calvino, che vuole indicare? Un sinonimo di confine? Pare proprio di sì; visto che aggiunge le categorie di guerra, preoccupa di ciò che irretisce noi, e non solo leggendo Biamonti: la divaricazione antropologica sottesa ai due termini quando non li si voglia assumere banalmente come equivalenti. Tra una linea stabile che divide in modo sempre uguale e che può costituire, certo, un ottimo punto di osservazione e riflessione, e una fascia mobile che si sposta, avanza e indietreggia, ingloba e abbandona. Il confine, invece, ha in sé una carica, una forza ad escludendum. S’intende che le due categorie vengono qui assolutizzate a bella posta e con una precisa intenzione euristica. E che il confine di Biamonti non coincide certo con il confine doganale.
Ne parleremo in seguito: ma è chiaro che il termine «frontiera» va misurato anche sugli episodi storici che lo inverano. Non si dirà di quello oltreatlantico, di qualità antonomasica che ha generato, appunto, il mito o la leggenda della Frontiera, assolutamente inesportabile; ma, nell’ambito mediterraneo e italiano, restando circoscritti alla cultura letteraria, dell’area del Nord-Est, di cui si potrà cogliere il carattere di «Marca di frontiera» (Magris), ovvero della Trieste novecentesca e della regione che la circonda dove gli appartenenti a una etnia e a una lingua si scambiano idealità nazionali e linguistiche e mirano sempre a un «altrove». <27
Riprenderemo i raffronti tra non molto. Non che alcuni di questi caratteri socioculturali siano assenti in Biamonti, ma in lui sembra che il fermento e il perenne status agonistico della frontiera abbiano trovato una definitiva composizione, per cui, infine, ogni elemento ritorna al suo preciso luogo deputato. Uomini e cose tornano al loro suolo e camposanto.
Non è escluso, sia chiaro, che ci possa essere una qualche nostalgia di un paese, di una grande Provenza o della civiltà francese (però, intanto, non c’è opzione precisa e decisiva tra Provenza e Francia), ma le eventuali aspirazioni non sono che un elemento stabilizzato, oramai traguardato nella specola di chi sta piantato nel suo orto, diviso da una roccia, quasi leopardiana siepe, per accennare così ad un altro autore a lui carissimo.
8.
Se, come abbiamo visto, il Mediterraneo non costituisce «frontiera», e offre invece le coordinate esterne per la disposizione di scelte letterarie e culturali (Montale, Camus) e religiose (il fare a meno degli déi), e anche il lembo di Provenza putativa vive e alimenta nello scrittore la serie delle contrapposizioni fondamentali, si dirà allora che la geografia e i suoi nomi sono principalmente in funzione delle figure dell’opposizione e dell’esclusione, della separazione degli elementi primigenii. Propriamente non c’è navigazione. Allora, in modo conseguente, gli effetti di paesaggio e di luce incarnano il principio di divisione.
Basti qualche prelievo, a cominciare dal primo romanzo:
“Il crinale vibrò nel sole, come un maroso artigliato dal vento. Si ricordò che sul mare talvolta gli era parso di vedere il crepaccio del mondo – malinconie, oh solo malinconie senz’altro – il crepaccio entro cui il mondo
spariva. L’onda di roccia invece proteggeva: ferma lassù, piena di luce”.
Mare e terra sono due mondi separati, l’uno è l’abisso, l’altra è la nicchia. Nella introiezione dei due mondi, la coscienza di Gregorio il contadino-marinaio (o finto marinaio: tutti i marinai di Biamonti, diciamolo, sono un po’ improbabili) è dimidiata, patisce il «male del ferro» e lascia «il mare al suo abisso », il mare che ossessiona «proprio per il suo sciogliersi nell’eterno e nel nulla».
Anche figurativamente, in quella sorta di ekfrasis di un quadro virtuale che dà l’impressione di essere, – ma non è precisamente – la pagina di Biamonti, <28 si stagliano due regni opposti:
“Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature; anche al largo esso si alzava sino a cozzare contro il cielo. Un altro mare, d’ombra, scendeva dalle catene rocciose”.
Piuttosto che la spatola «costruttiva» (c’è chi lo ha definito un architetto del paesaggio) di Cézanne, Biamonti usa il bisturi della luce dimidiante, l’universo che lo circonda ne riemerge scisso, di netto. <29 È dessa, la luce, che costruisce il confine simbolico: tra luminosità della vita e non riscattabile opacità della morte.
Così come non c’è riscatto per i morti. Sogni pure la donna, Laurence in questo caso, un luogo di incontro:
“La sera, il tramonto solenne, sulla «Baia degli angeli», le fece di nuovo sognare la terra di nessuno dove i morti e i vivi si potevano incontrare, dove Jean-Pierre poteva comparire”. <30
Rimane intatta l’impossibilità di quello scambio escatologico che crea la frontiera tipicamente mediterranea della nekuia (da Omero a Virgilio a Pascoli a Montale: la zona sacra, invisibile e indeterminata del colloquio tra vivi e morti, e dello scambio delle parole, dei rimpianti, promesse, memorie, resipiscenze).
I segni che testimoniano gli ultimi istanti della vita di Jean-Pierre stanno fuori del cerchio della morte: «No, non dentro l’alone della morte, ma completamente fuori». Se il luogo è marchiato dal confine, questo può divenire il crisma che gli impedisce di degradarsi a non-luogo, ciò che può restituirgli almeno la dignità della «soglia» degli antichi, proprio nel momento in cui il passo sta per travalicarlo:
“Dal cielo laggiù si schiodava una luce severa. Cadeva sulle gobbe della rupe dove Jean-Pierre si era avvicinato al pauroso confine. E ancora una volta tentò di rivedere quel volto posato sul capezzale roccioso, che diffondeva sulla pietra funerea una gioia rude, come se avesse varcato le tristi soglie, il cuore liberato da un antico terrore”. <31
L’arte di Biamonti vive in fondo di questa qualità ossimorica, la sacralità del mondo, cui s’aggrappa con pervicacia, non perviene dall’oltre-confine, non riceve nessuna giustificazione o investitura dall’oltre, ma s’impone – quando riesca – proprio nel duro confronto con il crepaccio, l’abisso netto e vertiginoso che da ogni parte ci divide.
9.
A forza di marcare il pittoricismo di Biamonti insieme con i debiti, – da lui stesso con piacere confessati – , con Cézanne e i postimpressionisti, si è dimenticato che in letteratura tutto è «effetto di». Almeno in partenza, niente di più distante dalla pittura che la parola, ovvio. I prelievi dei maggiori passi «pittorici » forniscono dunque la verifica del processo di scarnificazione, disarticolazione del paesaggio, della sua frantumazione o decostruzione attraverso la luce.
Quasi mai, infatti, siamo di fronte a un vero, compiuto paesaggio quale quello cui i pittori di riferimento ci hanno abituati. Anche questo sarà da meditare sulla via del pittorico e del simbolico: la luce che fu l’unità del paesaggio ora ne è il bisturi. Non c’è quasi mai il momento di ricostruzione materica, sulla pagina, di un analogo della visione armonica e complessiva di colui che raffigurò in mille toni la Montagne-Sainte-Victoire. La luce, in Biamonti, mentre
lo accenna quasi lo distrugge, il paesaggio, e tende a surrogarlo. <32 […]
[NOTE]

  1. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p. 102.
  2. «Mare di luce e di sangue», in Sergio BUONADONNA (a cura di), Finestra sul Mediterraneo. A window over the Mediterranean Sea, Genova: il Melangolo, 2001, p. 67-68. Il testo appare deformato da refusi e, sospettabilmente, da altro (salti di riga?). Correggo ciò che posso, provvisoriamente, ope ingenii.
  3. Del resto le cognizioni e definizioni geografiche di Biamonti nelle grandi scale si deformano subito nel momento in cui vengono adibite a definire, simbolicamente, uno stato d’animo, dove il psicologico e il culturale si fondono: «Sia il golfo di Genova che il golfo di Marsiglia sono due lezioni di lucidità, di luminosità e di lucidità. Lo è anche il golfo di Orano, da dove è partito Camus: le prose nord-africane di Camus (Noces, L’été) sono bellissime. Questa
    lucidità mediterranea, di un pensiero che trova in sé la nascita e il compimento, che non rimanda a nessun aldilà, che fa meditare solo sull’aldiquà (“oh anima mia esaurisciti in un compito mortale!”), viene dalla Grecia. Mi è servito molto questo parametro per giudicare le cose e la vita.» («Intervista», in «Il paesaggio come compensazione» […], cit., p. 52). Chissà cosa intende Biamonti per «Golfo di Genova», climaticamente, meteorologicamente, luministicamente,
    antropologicamente diversissimo da quello di Marsiglia tanto quanto è distantissimo dall’acqua salata che sta tra Ventimiglia e Mentone. È che la geografia biamontiana inchioda alla toponomastica delle mappe cartigli culturali che fanno riferimento a un universo intimo, nella stessa misura in cui al privilegiato descrittivismo minuto, topografico, s’aggancia la vibrazione dello status, psicologico e simbolico, di un personaggio.
  4. V. più avanti note 38, 39.
  5. Dopotutto si tratta di scrittura, e qui lo stile surroga con un breve ma mirato arsenale di figure retoriche – regina la sinestesia – ciò che la pittura rende con i rapporti timbrici e con il «costruttivismo» generale del quadro.
  6. L’influsso della pittura di paesaggio è indubbiamente fortissimo nei libri di Biamonti, forse non occorre esagerarne la portata diretta, ovvero pensare che lui, scrivendo, abbia avuto sempre o quasi, necessariamente, un preciso dato artistico-figurativo in mente. Anche la pittura fa parte di un bagaglio culturale, mentale, percettivo a lungo ruminato, che poi si scioglie in una prosa tutta sua vicina al lirismo e fitta di sofisticate figure retoriche. Ebbe tra l’altro a dichiarare lo stesso interessato: «Inoltre non si scriva che il mio incontro con Morlotti o con altri pittori è stato determinante per me, come ha proposto nel suo schema per una possibile biografia. Quando ho conosciuto Morlotti avevo già le mie idee sulla pittura. Anzi, siamo diventati amici perché le nostre idee sulla pittura erano collimanti. È dall’età di diciott’anni che ammiro Cézanne.» («Intervista», in «Il paesaggio è una compensazione» […], cit. p. 50). Tuttavia è utilissima la ricognizione sul retroterra pittorico di Biamonti; non solo per ciò rinvio alla densa ricostruzione di Paolo ZUBLENA, «Lo sguardo malinconico sullo spazio-evento. Biamonti, Morlotti e il paesaggio dipinto», in Marcello CICCUTO (a cura di), I segni Incrociati II. Letteratura Italiana del ‘900 e Arte Figurativa, Viareggio-Lucca: Mauro Baroni editore, 2002, p. 427-457.
  7. Francesco BIAMONTI, L’angelo di Avrigue, cit., p. 87.
  8. Ibid., p. 71.
  9. Soprattutto nell’ultimo romanzo.
    Giorgio Bertone, Confine o frontiera? La Liguria di Francesco Biamonti, Quaderns d’Italià 7, 2002

L’opera narrativa di Francesco Biamonti (1928-2001), scrittore dell’estremo Ponente ligure, presenta un tessuto linguistico che accoglie al suo interno numerosi inserti ed espressioni in provenzale. Tale scelta contribuisce in modo sostanziale a dare corpo a un vero e proprio mito della Provenza, il quale, se aiuta a comprendere meglio la tensione percepibile nei romanzi verso l'”altrove” francese, si gioca, rispetto al mito della Francia, su un piano diverso, compenetrante, ma pur sempre distinto. Il mito provenzale non presuppone, infatti, una disparità storico-culturale tra l’entroterra ligure e il vicino territorio della Provenza, ma si basa su un’equivalenza tra le due realtà: nega l’esistenza di un confine attraverso il recupero di un’ancestrale origine comune dei mondi tradizionali delle due regioni. Questa antica comunanza, di cui ancora oggi per Biamonti si possono intrawedere i segni, e il punto di partenza per ribadire l’esistenza di un “uomo provenzale”, che ingloba anche l’uomo ligure dell’estremo Ponente. Ciò a cui Biamonti dà voce, dunque, è un mito di appartenenza, costruito partendo da dati storico-antropologici, non tutti scientificamente documentati, e poi sviluppato in direzione esistenziale, attraverso il filtro poetico e letterario.
L’affinità tra le popolazioni liguri e provenzali è, per l’autore sanbiagino, favorita dalla somiglianza territoriale delle due regioni ed è strettamente legata alle loro attività agricole, quali la viticoltura e soprattutto l’olivicoltura. Il mondo contadino ligure-provenzale è, in questa prospettiva, espressione regionale di quella che Biamonti amava definire, citando Jean Giono, la “civiltà dell’ulivo”.
Tuttavia, il mito della Provenza presenta alcune caratteristiche peculiari, che emergono dai contesti in cui l’autore utilizza proprio la lingua provenzale. Estremamente significativo è già il caso del primo romanzo, “L’angelo di Avrigue”, pubblicato nel 1983, in cui il protagonista del libro, Gregorio, incontra in due occasioni un pastore che parla in provenzale.
Matteo Grassano, “D’uno lengo vieio que se vol pas cala…”: Francesco Biamonti e il mito provenzale, Italica, vol. 94, n° 3, 2017

Biamonti sembra confidarsi un poco riguardo i suoi esordi solo coi francesi. In un articolo dedicato all’uscita in Francia di “Attesa sul mare”, Michel Grisolia riassume così la vita di Biamonti prima della pubblicazione del suo primo romanzo: “Singulier parcours: chez un bouquiniste de San Remo, il découvre à 15 ans Baudelaire et Valéry, et les lit en francais. Dix an plus tard, encouragé par son premier prix à un concours de nouvelles, il pond un roman somme juvénile, touffu, tout fou. Jugement du Malraux italien, Elio Vittorini: à retoucher. Blessé, Biamonti jette le manuscrit au tiroir. Pendant vingt-cinq ans, il se taira” <67.
[…] Negli anni ‘70 Morlotti, in una continua evoluzione della sua arte, che è propria solo dei grandi, giunge a nuove ricerche. Influenzato da Biamonti e influenzandolo (entrambi influenzati, come da un virus, dal cielo e dalla terra della Liguria), il pittore brianzolo arriva a scoprire le rocce e su di esse i mutamenti di tono della luce e del cielo.
Una delle Rocce composte in questi anni è oggi non a caso sulla copertina de “L’angelo di Avrigue”, un romanzo interamente minerale, nel quale Biamonti inserì anche un personaggio ispirato dallo stesso Morlotti, un pittore che “dipingeva pietrame” <123.
L’attenzione di Biamonti a certa pittura è ben testimoniata dalle copertine delle sue opere: nel 1991 esce “Vento Largo”, il secondo romanzo, sul quale campeggiano “I gabbiani” di Nicolas de Stäel, autore amatissimo da Morlotti, e un altro mare di de Stäel compare anche nell’edizione francese di “Attesa sul mare”.
Dentro a “Vento Largo”, i gabbiani della copertina offrono un esempio importante della tecnica di Biamonti, che scrive nelle ultime righe che gabbiani “intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace” <124. È facile notare che l’autore sta praticamente descrivendo l‘opera di de Stäel, o meglio la realtà che percepisce filtrata dalle spatolate bianche che nel quadro sono i gabbiani, e dal blocco grigio compatto del mare. Scrive bene Bertone che Biamonti utilizza “colori crudamente campati a colpi di spatola e distesi fino all’orizzonte” <125.
Si tornerà meglio sull’uso di questa tecnica nell’analisi de “L’Angelo di Avrigue”, ma qui si deve riconoscere subito l’importanza della frequentazione di Morlotti e di altri pittori.
L’ultimo omaggio a Morlotti, Biamonti lo firma su “Tutto libri” del 13 luglio 1991 <126, con un’intervista all’amico pittore, un anno prima della sua morte, che sembra scritta da una sola voce, quasi un’intervista immaginaria come quella fatta al pittore Del Bue <127.
[NOTE]
67 M. Grisolia, L’appel du large, in “L’Express” del 12 dicembre 1996.
123 F. Biamonti, L’Angelo di Avrigue, cit., p. 98.
124 F. Biamonti, Vento largo, Torino, Einaudi 1991, p. 107.
125 G. Bertone, Il “passeur” innamorato, in “Il Secolo XIX” del 28 marzo 1991.
126 F. Biamonti, Morlotti: amo solo il vero, ma ora il muro della natura è crollato, in “La Stampa”, 13 luglio 1991.
127 F. Biamonti, in Gianni Del Bue. Opere 1972-1996, catalogo della mostra personale a Palazzo Salmatoris di Cherasco, ivi, 1996.
Claudio Panella, Francesco Biamonti: la preistoria e l’esordio (1951-1983), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2001/2002

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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