Zanzotto è un poeta che non lascia niente al caso

Andrea Zanzotto – Fonte: Reti Dedalus cit. infra

Pur apparendo come il poeta con maggiori contatti con il macrotesto delle opere di Lacan, il lacanismo di Zanzotto può essere considerato come totalmente personale, proprio a causa della dichiarata volontà di subordinare le intuizioni della sfera psicologiche a quelle della poesia: esso viene a caratterizzarsi, a partire dalle raccolte di questo periodo, come un esperimento in atto in cui la poesia risulta essere il luogo privilegiato in cui testare la teoria.
Ciononostante, il campo psicologico rimane un “retroterra”, poco più che una necessaria premessa alle sue raccolte. Bisogna infatti tenere sempre ben presente che, proprio in quanto codice altamente specializzato, la poesia emerge ad un livello ulteriore rispetto a quello del referto analitico.
Due sembrano essere le intuizioni strutturanti il pensiero dello psicoanalista francese che colpiscono quasi con la violenza di un trauma la sensibilità del poeta a livello della pubblicazione degli “Écrits”: – Da un lato, il principio saussuriano di arbitrarietà del segno e, di conseguenza, dell’intera architettura del linguaggio, che produce la propria autonomia necessaria e sufficiente alla propria struttura. – Dall’altro, la complicazione ed il ribaltamento attuato da Lacan rispetto al triangolo saussuriano, per mezzo del quale la gerarchia di rapporti fra significante e significato viene riorientata gerarchicamente in favore del primo: in Zanzotto, con ricadute pratiche più evidenti rispetto a Lacan, il rapporto significatosignificante si rompe portando ad un’apparente assenza di collegamento fra il primo ed il secondo. Ed è solo grazie a questa liquidazione del significato che al significante è permesso di diventare un nuovo collettore di senso.
Il collegamento attuato fra discorso psicoanalitico e discorso poetico risulta essere detonante soprattutto se ad essi viene applicato il filtro dello strutturalismo: la riduzione di ogni discorso a catena di significanti puri, dietro la quale sembra nascondersi una posizione immaginaria e per questo motivo falsata del Soggetto, viene giudicato come il paradosso distruttivo su cui fondare l’architettura teorica della raccolta del ’68, “La Beltà”.
È tuttavia rilevabile anche un elemento fascinatorio nei confronti di questo movimento in grado di rivelare la vera natura del linguaggio umano. In questo senso, se il macro-testo degli “Écrits” lacaniani, la parte apollinea del suo pensiero, può essere considerata come la più dannosa nei confronti di qualsiasi processo sublimatorio di produzione di senso, proprio a causa della sua natura di pars destruens, Zanzotto sembra stemperare questa componente disgregatoria attraverso la propria pratica poetica e la tensione simbolica che da essa può essere riprodotta.
Ad un evidente fascino per l’abisso reale, all’interno del quale ogni possibilità di dire è fortemente compromessa, viene contrapposta da Zanzotto una pratica di emersione del senso proprio a partire dall’apparente impossibilità della sua ricostruzione. Il suo è, alla luce di queste considerazioni, da considerare come un lacanismo contenuto dalle proprie stesse realizzazioni poetiche, portato a coincidere come una base e quindi una premessa sulla quale poter impostare il proprio personalissimo
discorso intorno alla natura del Soggetto. Più che sovrastrutturale, il discorso psicoanalitico di Zanzotto, si pone quindi a livello strutturante alcune delle intuizioni che stanno alla base della propria poetica.
Durante l’intervista rilasciata a Camon nel ’65, Zanzotto prova a prendere le distanze da una dichiarazione di Paul Valéry in cui consigliava al vero poeta di ritirarsi nella propria isteria e di coltivare sé stesso così come si coltiverebbe un giardino: l’eccentricità della poesia aperta sul vuoto caratterizzante il registro reale è uno degli estremi presi in considerazione all’interno di un’operazione di svelamento della vera natura Soggetto.
Il vuoto reale, come già sottolineato, cerca di essere riempito attraverso la verifica e la simbolizzazione di un discorso che per Zanzotto adotta la forma necessaria della poesia.
Questo tentativo assume i contorni di un imperativo etico e costituirà una sicura premessa ad una messa in comunicazione della poesia con il contesto storico.
Appare allora evidente la totale distanza che separa questa poesia dalle coeve realizzazioni neoavanguardistiche che si proponevano di rispecchiare e di riprodurre la natura schizomorfa della società contemporanea. Il problema del linguaggio c’è ed è percepito come fondamentale sia da Sanguineti che da Zanzotto, all’interno di una società che è stata attraversata da profondi cambiamenti nel giro di poco più di un decennio. Ma mentre nel primo la critica tende ad abitare e a nutrirsi del labirinto della società contemporanea, nel secondo è invece ben presente un elemento di verticalità e di redenzione che viene sviluppato attraverso il proprio strumento linguistico. Ed è a questo livello che la poesia zanzottiana si trova a collocarsi e si impone come discorso sul linguaggio nello spazio prodotto dall’escursione fra registro simbolico e reale.
Lo spazio riservato alla Storia nella poesia di Zanzotto è lo spazio linguistico dove il significante si sedimenta come un detrito, come sarà esplicitato in modo evidente all’interno de “Il galateo in bosco”, e dove l’assenza di significato, o per meglio dire, la sua subordinazione al significante, acquista un senso storicizzabile. Il significante, il detrito linguistico, il sedimento storico sono il luogo sia dell’origine personale del Soggetto, relativa alla vita inconscia, sia di quella collettiva, e quindi storica. L’ascolto dei resti
del significante obbedisce ad un’operazione drammatica di ascolto del linguaggio che deve essere riattivato al fine di non rimanere fossile, residuo di un’epoca nella quale la poesia si manifesta come forma di resistenza alla spersonalizzazione delle forme di comunicazione operata dai mass media e dalla società dei consumi.
Per questo motivo, la difesa della poesia non è da considerare alla stregua di una residuale ambizione intellettuale o di un’utopia umanistica, ma si tramuta in uno strumento di indagine del tempo in cui il Soggetto si trova inevitabilmente ad essere immerso.
Roberto Binetti, Geografie del Soggetto. Per una teoria poetica degli anni Settanta. Andrea Zanzotto e Franco Fortini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2018

Andrea Zanzotto nella sua casa di Pieve di Soligo – Fonte: Reti Dedalus
Un ritratto a specchio di Andrea Zanzotto – Fonte: Reti Dedalus

[…] Le opere zanzottiane ci lasciano comprendere che, se dietro il saggista rispunta l’ombra di Michaux, dietro il poeta aleggia certamente il fantasma del significante di Lacan e l’arbitrarietà di Saussure, in modo che ogni sistema linguistico fondi e organizzi l’esperienza della parola arbitrariamente rispetto alla realtà: reagisce, tra traumatizzato e ironico, cercando di assorbire nel contesto idillico della sua poesia le forme linguistiche di una realtà autre [9] ; ma l’idillico Zanzotto sa che il linguaggio è (tutto sommato) un continuo sperimentare gli abissi umani, e non può accedervi se non con la psicanalisi, che emerge anche nell’uso allitterato di unire o raddoppiare parole: puropura; serachiusascura; movimento-mancamento; sketch-idea; bambucci-ucci; cose-cause; io-tuquesti-quaggiù; cicala ciàcola; cieli-meli-steli; poemi-pomi; lingua-rubino; idee-mostri-astri; molteplice-plice; sublime-blime; pappa-pappo; già-glorie, etc. Egli crede che un linguaggio “vivo” viva rinnovando continuamente se stesso, superando il limite dell’assurdo, costituendo coi termini lacaniani un punto sinestetico per il lettore. “… non si tratta infatti di una restituzione delle dimensioni dell’inconscio o del sogno, sull’esempio di illustri precedenti ottocenteschi e novecenteschi […], quanto invece di affrontare dimensioni di profondità originaria da un massimo di vigilanza e tensione mentale, e all’interno d’un contesto storico-culturale che non viene mai accantonato” [10].
Non si sa mai dov’è che parlano le cose e dove l’uomo con Zanzotto; ma l’abilità del poeta, e l’idea di restituirci alla reale dimensione dell’essere, riescono a stabilire il vero equilibrio dei rapporti esistenti fra le parti, dimostrando (ancora una volta) una eccezionale pratica d’intento e pluralità di discorso. La rappresentazione si appropria della retorica unicamente per poterla rimuovere: una retorica la sua, già funzionante sotto l’aspetto informale, un senso convertibile in velocissimo sdoppiamento. Una poesia affascinante d’un linguaggio tout court, suggestiva nel suo spostarsi da un punto all’altro del poetare con padronanza, capace di lasciarti vivere per intero la sensazione palpabile d’una lingua pura ma assottigliata, uno specchio deciso a riflettere ciò che vuole. Zanzotto è un poeta che non lascia niente al caso, anche quando sembra lasciarsi andare dall’attrazione misticheggiante del linguaggio, accennata poc’anzi; è un poeta che lavora e bene sul tempo d’una lingua psichica di corpi vaganti, un lavorio pagato a caro prezzo: un poeta che andrebbe compreso, studiato, analizzato (sì, analizzato), viene beatificato e quindi “messo da parte”, pur essendo per molti versanti un autore accessibile al grande pubblico. “L’io poetante di Zanzotto è sostanzialmente un fanciullino che riscopre il mondo, ricomincia da capo, e si stupisce, s’affanna, ha paura. Un fanciullino culturalmente aggiornato, psicologicamente precisato e linguisticamente addottrinato, che ripropone la vita a partire dal punto in cui il sonnambulo di Sbarbaro l’aveva vista dissolversi” [11] .
A volte dissacrazione dei contenuti, altre volte estrapolazione d’ironia da un linguaggio originario come lo è quello dell’infanzia (Che si dice lassù nella vita, / là da quelle parti là in parte; / che si cova si sbuccia si spampana / in quel poco in quel fioco / dentro la nocciolina dentro la mandorletta? / E i mille dentini che la minano? / E il pino. E i pini-ini-ini per profili / e profili mai scissi mai cuciti / ini-ini a fianco davanti / dietro l’eterno l’esterno l’interno (il paesaggio) / dietro davanti da tutti i lati, / i pini come stanno, stanno bene?…) [12] , dove il mondo inizia a parlare, a sciogliere la lingua, a divenire adulto e a proporsi dal profondo d’una periferia fortemente influenzata da una tradizione neoclassicheggiante di elementi assunti come simboli assoluti […]
[NOTE]
9 Cfr. F. Curi, Ordine e disordine, Feltrinelli, 1965, p. 94.
10 Ivi.
11 S. Antonielli, “La beltà” di Andrea Zanzotto, in “Belfagor”, Anno XXIV, 5 settembre 1969, p. 627.
12 Sì, ancora la neve, da La Beltà, op. cit., vv. 94-104).
Giorgio Moio, Breve viaggio critico nella poesia di Andrea Zanzotto, Reti Dedalus, marzo 2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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