Bianciardi a Milano

Tra il 1953 e il 1954 una serie di circostanze della vita di Luciano Bianciardi, in origine del tutto slegate tra loro, convergono e ne segnano il destino, tanto personale quanto artistico e lavorativo.
Il suo matrimonio con Adria Belardi si rivela presto un fallimento, e ciò contribuisce a rendergli soffocante l’aria della provincia; l’incontro con Maria Jatosti nel 1953, a margine della riunione annuale della Federazione dei circoli del cinema, pare dar luogo solo a una passione estemporanea, e i due non si sentiranno di nuovo finché l’esplosione nella miniera della Montecatini la farà tornare in mente, senza apparente motivo, a Bianciardi. La Jatosti rappresenta a quel punto la via di fuga ideale da quella quotidianità che gli è insopportabile, segnata da una famiglia che non vuole più e dal sangue di Ribolla; è per vedere lei che nella primavera del 1954 viaggia spesso verso Roma dove la donna, organica al Pci, lavora prima nella segreteria dei Circoli del cinema e poi nell’ufficio stampa della CGIL, ed è tramite lei e il suo ambiente di riferimento che spunta l’occasione di scrivere su «Il Contemporaneo» fin dal primo numero della rivista. Sono quindi due dei tre direttori del settimanale, Carlo Salinari e Antonello Trombadori, a segnalarlo al partito, al quale si è rivolto il giovane Giangiacomo Feltrinelli che, a Milano, vuole aprire una casa editrice dandole una più che marcata identità politica che ne rifletta il proprio orientamento. Un colloquio a Roma, e poi la chiamata nel capoluogo lombardo, destinazione via Fatebenefratelli, sede della «grande iniziativa» del ricchissimo milanese. Parrebbe, piovuta dal cielo, la soluzione a tutti i mali: un’occasione “ufficiale” e irrinunciabile per lasciare a Grosseto moglie e due figli e per vivere con meno ansie la relazione con la Jatosti; in aggiunta, sembrerebbe una nuova possibilità di combattere il nemico, la Montecatini, lì dove ha il suo vero centro, dopo che il lavoro da intellettuale, sul campo, non è servito a evitare il disastro in Toscana.
A conti fatti, niente come la collaborazione con «Il Contemporaneo» imprime una svolta così decisiva all’esistenza di Luciano Bianciardi: a uno sguardo distratto sono solo undici articoli, ma si rivelano per lui invece un secondo inizio e, al contempo, l’inizio della fine.
È proprio su questa testata che viene pubblicato “Lettera da Milano”, il 5 febbraio del 1955 <51. È uno dei bilanci che Bianciardi affronta periodicamente, uno di quei bilanci cui di volta in volta (almeno nelle intenzioni) dà l’impressione di aggrapparsi per mettere un punto fermo, chiudere un vecchio capitolo di vita e aprire il seguente: è successo con l’esperienza della guerra (“Ancora un bilancio”, che inaugura i “Diari di guerra”), poi con l’adesione al Partito d’azione (“Bilancio provvisorio”, apparso il 22 novembre del 1952 su «La Gazzetta»), succede ora con l’arrivo a Milano. E succederà ancora, ai tempi delle critica televisiva, e poi molto più avanti, nel 1970, con un pezzo dedicato ai figli, leggero in superficie quanto profondamente doloroso a rileggerlo oggi che se ne conoscono i retroscena.
“Lettera da Milano” comincia così:
“Carissimi,
dovevo proprio raccontarvi una volta o l’altra, quel che ho visto e quel che ho capito, in questi primi sei mesi milanesi, soprattutto sentivo e sento il bisogno di esporvi, di questo bilancio, la parte negativa, la più grossa, di dirvi insomma quel che non ho capito, o addirittura non visto. <52
Appena metà anno, e il saldo è già infelice: «In questi sei mesi la parola problema è quella che più di tutte ho sentita dire. Mi è capitato, dopo ore di discussione collettiva, di sentire un collega intervenire osservando: “Io penso che il problema sia un altro”. Esiste insomma persino il problema del problema. Cioè esiste, soprattutto, una notevole confusione.»”
Nel passo che segue, c’è già in nuce La vita agra: lo stare naturaliter dalla parte dei badilanti e dei minatori contro i latifondisti, e la scelta di trasferirsi al Nord pensando che «la lotta», lassù, si possa «condurre con mezzi migliori, più affinati, e a contatto diretto con il nemico.»
“Mi pareva anzi che quassù il nemico dovesse presentarsi più scoperto e visibile. A Niccioleta la Montecatini non ha altra faccia se non quella delle guardie giurate, povera vera gente che cerca di campare, o quella del direttore, un ragazzo della mia età, che potrebbe aver fatto con me il liceo, o giocato a pallone. A Milano invece la Montecatini è una realtà tangibile, ovvia, cioè si incontra per strada, la Montecatini è quei due palazzoni di marmo, vetro e alluminio, dieci, dodici piani, all’angolo fra via Turati e via della Moscova. A Milano la Montecatini ha il cervello, quindi dobbiamo anche noi spostare il nostro cervello quassù, e cercare di migliorarlo, di farlo funzionare nella maniera e nella direzione giusta. Così ragionavo, e per questo mi decisi”.
Non c’è traccia di operai, nella grande città: solo di quei ragionieri che ne fanno «il tono umano», con la borsa di pelle sotto il braccio e il bicchiere di grappa alle 9 del mattino. «[…] nessuno di loro, fra l’altro, è milanese»: tutti lì dalla provincia più o meno lontana alla ricerca di «grana», o «pan» che dir si voglia. Non ci sono neanche i preti, continua Bianciardi, ma soprattutto non ci sono
“gli intellettuali. Li ho visti, s’intende, e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L’unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata «scapigliatura» di via Brera. Gli altri fanno i funzionari d’industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice: c’è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta, come braccianti per le «faccende» stagionali.
Vi ho detto che persino quel che mi pareva chiaro, la posizione del nemico nei palazzoni di dieci piani, fra via Turati e via della Moscova, a Milano non mi è parso più tanto chiaro.
Perché qui le acque si mischiano e si confondono. L’intellettuale diventa un pezzo dell’apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere”.
È per evitare di trasformarsi anche lui in un intellettuale ragioniere che tre anni dopo Bianciardi si fa licenziare dalla Feltrinelli (per scarso rendimento) e diventa un traduttore free-lance. Ancora non può saperlo, ma nelle ultime due righe della precedente citazione c’è già scritto il suo futuro: pagine e pagine in inglese di narrativa, manuali e testi scientifici da tradurre in italiano, lo stesso numero ogni giorno per far tornare i conti e poter pagare bollette, sigarette e alcol. Un ragioniere a tutti gli effetti, lo si potrebbe definire. Nel 1962, da ultimo, con la pubblicazione da parte di Rizzoli del suo romanzo più venduto e famoso, l’anarchico arrabbiato si mischia e si confonde definitivamente nelle acque dell’industria, il nemico che in origine avrebbe dovuto contrastare. In quel febbraio del 1955 però gli ideali non risultano ancora del tutto sconfitti: compito degli intellettuali, sostiene Bianciardi in chiusura, è tentare la composizione tra chi ha il capitale, e comanda, e la piccola borghesia e la classe operaia, ovvero le parti che i comandi li prendono. Altrimenti, «se le cose continuano così, là dalle mie parti i badilanti continueranno a vivere di pane e cipolla, i minatori a morire di silicosi o di grisou»:
“Io vorrei proprio che voi, amici romani, mi spiegaste, più semplicemente che potete, come si deve fare. Vorrei che me lo spiegassero gli amici milanesi, soprattutto. E che non mi rispondessero, per carità, cominciando a dire che il «problema è un altro». No, il problema è proprio questo. Ogni volta che torno a Niccioleta mi convinco che è proprio così”.
[NOTE]
51 L’articolo era già uscito, con delle varianti, su «La Frusta».
52 Questa e le quattro citazioni che seguono sono tratte da: Luciano Bianciardi, L’antimeridiano – Opere complete Volume secondo, pp. 700-705.
Alessandro Salvatore Marongiu, La produzione giornalistica di Luciano Bianciardi e di Anthony Burgess: motivi, occasioni, stile, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, Anno accademico 2009/2010

Un angolo ancora caratteristico della vecchia Milano

A Milano con Luciano Bianciardi. Alla scoperta della città romantica è un volume agile dalla struttura compatta, che si propone di ripercorrere vicoli, strade e luoghi della Milano bohémienne degli anni Sessanta attraverso il passo dinoccolato e lo sguardo sconsolato dell’autore de “La vita agra” (1962). La scrittrice Gaia Manzini, originaria del capoluogo lombardo dove vive e lavora tuttora, già nel prologo rende partecipe il lettore della grande ammirazione provata fin da bambina nei riguardi di Bianciardi, il maestro tanto ambito ma mai avuto, studiato in modo più consapevole negli anni universitari, quando era un’impresa ardua relazionarsi con i propri coetanei nel tentativo di combattere un’incombente noia esistenziale. Senza voler attenuare le evidenti differenze tra l’autrice e l’intellettuale toscano, giunto a Milano in cerca di fortuna, un importante tratto comune può essere individuato nel senso di insofferenza e disagio nei confronti di una realtà respingente ma al contempo stimolante, che ha caratterizzato gli anni del boom economico, oggi rimasti solo in alcune fievoli tracce, «echi di un’atmosfera perduta» (p. 56). In proposito, significative sono le parole pronunciate dalla scrittrice, nelle pagine introduttive, per spiegare la rilevanza attribuita a tale figura letteraria: «è stato per me un esempio grandissimo contro la vacuità degli anni Novanta, quelli in cui sono stata giovane io. Un uomo senza leggerezza alcuna: era un’ancora» (p. 10).
Il volume consegna al lettore il vivido ritratto di un anticonformista, disilluso dal progresso e dedito solo al duro lavoro della scrittura: isola felice in cui trovare rifugio dal caos circostante. Manzini dedica una particolare attenzione alla «trilogia della rabbia» (Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra), con l’obiettivo di riscoprire non solo la topografia ma anche la storia che si cela dietro la città romantica, evocata nel sottotitolo del libro: i «torracchioni», la cui verticalità è simbolo del potere capitalista, la grappa gialla del bar Jamaica, denominato «bar delle Antille» ne La vita agra, il quartiere di Brera, punto di riferimento per gli artisti del secondo dopoguerra, la casa di Feltrinelli, soprannominato il Giaguaro per lo sguardo felino, la stanza viola in via Domenichino, nella quale Luciano scriveva, traduceva e amoreggiava con Maria Jatosti, la dimora a Rapallo e la sua ultima abitazione in via Boccaccio.
La scrittrice disegna il profilo di un letterato animato dalla rabbia impotente e dal sentimento di rivalsa che trovano conferma sia nei suoi romanzi dai toni più dissacranti, sia nell’interessante inchiesta scritta con Carlo Cassola sul tragico incidente del 1954: l’esplosione della miniera della Montecatini a Ribolla, che causò numerose vittime. Le realtà marginali, rappresentate dal lavoro in miniera e in generale dal lavoro impiegatizio, occupano un posto centrale nella produzione di Bianciardi, come dimostra La vita agra, «il suo libro migliore, il più furioso, il più vero» (p. 78), che ottenne un grande successo, conquistando il favore della critica e l’ammirazione di Indro Montanelli. Gaia Manzini sottolinea inoltre la complessità del linguaggio, volto a frammentare e intrecciare generi differenti, dal racconto finzionale alla testimonianza autobiografica, contribuendo alla realizzazione di quella visione parodistica e grottesca che ha da sempre costituito la cifra inconfondibile del suo stile.
A Milano con Luciano Bianciardi si presenta come un strumento critico valido e completo per analizzare abitudini e peculiarità degli intellettuali del tempo.
[…] In più di un’occasione, nel percorso tracciato, è possibile scorgere una vera e propria correlazione tra gli interni domestici e gli esterni urbani; con precisione chirurgica vengono descritte le camere ammobiliate delle pensioni a basso costo di Luciano e Maria, la latteria Pirovani consigliata da Vittorini per i pranzi a base di latte e uova, l’inconsistenza degli uffici editoriali con le interminabili riunioni sulla selezione dei caratteri tipografici, in una corsa assidua per adeguarsi ai ritmi del capitalismo. Come giustamente osserva Manzini, la condizione umana rappresentata nei «romanzi della rabbia» prelude a quella forma di resilienza e lotta nei confronti del consumismo omologante, tema declinato soprattutto nel Lavoro culturale, che costituirà, a distanza di qualche anno, il punto focale delle riflessioni pasoliniane. Bianciardi non riuscirà a uniformarsi al modo di lavorare della Feltrinelli, dalla quale infatti sarà licenziato per scarso rendimento, e non accetterà l’incarico presso il «Corriere della sera», per rimanere coerente ai propri ideali nonostante il successo de La vita agra e dell’omonimo film di Carlo Lizzani.
Il saggio mette in evidenza non solo le innumerevoli disillusioni ma anche il grande amore di Bianciardi per Henry Miller e per i suoi Tropici, la cui traduzione ha segnato una fase significativa e necessaria di un più ampio processo di scoperta e rivelazione del proprio sé da parte dello scrittore, trovando le giuste parole per dare voce a ciò che aveva sempre percepito ma mai espresso a pieno.
La medesima devozione è possibile inoltre ravvisarla nei cinque libri dedicati a Giuseppe Garibaldi e al Risorgimento italiano: nello specifico l’analisi si focalizza sul volume intitolato Da Quarto a Torino. Bianciardi narra con toni divulgativi e suggestivi la spedizione dei Mille raffigurando l’eroe dei due mondi tormentato e afflitto al pari dei personaggi della sua trilogia.
[…] Manzini elabora un’efficace ricognizione analitica di uno dei più autorevoli interpreti del connubio tra narrativa e industria, intrecciando il piano temporale dell’io autoriale con quello del soggetto preso in esame in un assiduo gioco di specchi tra percezioni e contraddizioni legate alla Milano del cambiamento. Seguendo pertanto una duplice linea di lettura, è possibile invertire la visuale e interpretare la narrativa in questione alla luce della topografia originaria della città, rintracciando analogie e differenze in una prosa la cui opacità si rivela indispensabile per conferire centralità al proprio abisso interiore. La scrittrice, nell’immaginare una passeggiata in compagnia del «Professore», offre le coordinate per poter osservare da una prospettiva inedita il «marciare a strappi» (p. 17) di un uomo alienato dai luoghi di passaggio e non di radicamento denigrati dallo stesso protagonista, e alter ego, del suo secondo romanzo L’integrazione. Allo stesso modo, Bianciardi, nonostante sia vittima di una solitudine invincibile, è al contempo mosso dal desiderio di compagnia, in cerca di amici con cui compiere il rito della bevuta serale, nelle poche ore trascorse lontano dalla scrittura. Sono solo però banali tentativi volti ad anestetizzare il profondo senso di dolore nei riguardi dell’esistenza: «lui che voleva la luna. Sì, la luna: non quella degli astronauti, ma sempre e solo quella di Leopardi» (p. 30).
Il volume è un interessante contributo teso a guidare il lettore, passo per passo, in un percorso letterario poliedrico dentro una panoramica chiara ed esaustiva della realtà industriale del secondo Novecento, seguendo gli ideali culturali che hanno contraddistinto, fin dagli esordi, la produzione di Bianciardi.
Giulia Marziali, Gaia Manzini, A Milano con Luciano Bianciardi. Alla scoperta della città romantica, Roma, Giulio Perrone Editore, 2021 in Oblio, XI, 44, 2021

“Il lavoro culturale”, “L’integrazione” e “La vita agra” formano, a detta della maggioranza dei critici, una trilogia; «la trilogia del lavoro» secondo l’interpretazione di Massimo Coppola e Alberto Piccinini, curatori degli Antimeridiani di Isbn. Di lavoro infatti si parla: ma non più di quello degli altri, il quale era stato protagonista ne “I minatori della Maremma” ma di quello che Luciano Bianciardi vive in prima persona; le attività di respiro culturale che svolge a Grosseto prima, la “grande impresa” milanese poi. Quando entra in Feltrinelli Bianciardi si aspetta di trovare intellettuali giovani e fecondi, come lui, ma non è così. La convivenza quotidiana con gente che passa le giornate a decidere quale colore assegnare alle schede dell’archivio dei testi sociologici e quale a quelle dell’archivio dei testi antropologici, lo annoia mortalmente. Si trova insomma in mezzo a uomini rassegnati e metodici che hanno capito da tempo come ci si deve comportare nel mondo della cultura industrializzata. Stenta a comprendere quale sia il nesso tra giornate passate a catalogare libri e un reale cambiamento in senso rivoluzionario della società, uno scopo finale insomma. Si rende conto dell’insensatezza dell’impresa, della “grossa iniziativa” e rimpiange il “lavoro sul campo”, i colloqui con i minatori; prova la nostalgia di quella provincia dalla quale era fuggito e che non esita a mettere alla berlina nel primo volume della trilogia. Quella stessa provincia immobile, popolata di tipi, divisa in compartimenti stagni tra nostalgici risorgimentali, nostalgici fascisti, nostalgici e basta, e i giovani, che si contrapponevano a tutti gli altri. Un’immobilità che denota comunque genuina aderenza a determinate idee, portate avanti in infinite discussioni ai tavolini dei bar; un’immobilità che l’intellettuale Luciano Bianciardi cerca di scalfire con le attività della Biblioteca Chelliana, che dirige e dei cineforum, che organizza. Se a Grosseto tutto è vissuto in prima persona (la politica si fa ogni giorno con le discussioni) a Milano tutto è delegato a funzionari “profeti” dell’idea unica, che cala dall’alto. Nella grande città, nonostante il gran ballare di piedi, tutto è fermo, tutto è immobile, le idee non si hanno ma si apprendono, i luoghi della cultura sono pieni di «minchioni» asserviti al concetto di produzione; dalla grande città partono anche i funzionari del Partito Comunista ad indottrinare la “plebe” dei paesi, carichi dei loro film cecoslovacchi, che non hanno mai visto e che nessuno vuol vedere, ma che il Partito considera fondamentali. Milano è «una giungla merdosa» dove si tira a campare, eppure nella sensazione diffusa di benessere. Bianciardi esce pertanto dalla casa editrice e si chiude in casa decidendo che il suo lavoro debba essere la manovalanza: il lavoro a cottimo delle traduzioni, la serialità delle collaborazioni giornalistiche, la routine delle presentazioni pubbliche. Lo “scopo finale” di Bianciardi è quello di non fingere di averne uno, di costringersi ad una pratica quotidiana, al conto della spesa, alla “pagnotta” da portare a casa.
Gianluca Ciucci, Luciano Bianciardi: lo sguardo, la malinconia, l’insofferenza, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Anno accademico 2007-2008

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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