Nella lunga e fruttuosa collaborazione tra Riccardo Gualino e Lionello Venturi per il decennale processo di costituzione della collezione, alla fine degli anni Venti quest’ultima sembra giungere ad una sua conclusiva maturazione. Nel 1928 infatti l’imprenditore biellese decide di portare a termine quel lungo e graduale percorso di apertura della raccolta ad un pubblico sempre più ampio, con un ultimo e decisivo progetto. Consolidando un legame con la Galleria Sabauda, Gualino propone quello stesso anno al suo direttore Guglielmo Pacchioni di esporre gran parte delle opere della collezione nelle sale della Pinacoteca e finanziare i lavori di restauro e adattamento dei vecchi ambienti <114. La mostra verrà inaugurata il primo maggio, sviluppandosi in cinque sale in cui trovano posto circa centotrentadue opere, dai maestri primitivi al Rinascimento italiano, passando per oggetti dell’antico Oriente asiatico fino a giungere all’arte moderna, con la Négresse a chiudere il percorso. L’evento riscuote un notevole successo, con oltre milleottocento visitatori e apprezzamenti dalla critica, che riconosce il valore delle opere e il loro allestimento essenziale ma accuratamente pensato per offrire le migliori condizioni di fruizione. Per l’occasione Lionello Venturi pubblica un secondo catalogo, intitolato Alcune opere della collezione Gualino <115, sottolineando dunque una presentazione solamente parziale della raccolta, selezionando i pezzi considerati più adatti a rappresentare l’immagine pubblica del collezionista. Con questo primo riconoscimento ottenuto al termine della mostra, l’avvocato torinese decide di commissionare a sue spese la costruzione di un edificio moderno – la villa-museo di San Vito – in cui si sarebbe garantita l’accessibilità della collezione a tutta la popolazione. Collocato in una zona collinare dominante la città, il complesso – affidato all’architetto Clemente Busiri Vici – viene ultimato velocemente, terminando i lavori nel 1930. Quell’anno però sancisce anche la fine della fortuna finanziaria dell’imprenditore che verrà investito dal crack della Banca Oustric, e la conseguente crisi della Snia e della Banca Agricola Italiana. Nelle innumerevoli disavventure, il nuovo museo verrà requisito dal Comune e convertito in una sede assistenziale scolastica – nota come colonia Tre gennaio – e ogni suo bene verrà sequestrato dalla Banca d’Italia, inclusa la collezione. A questo punto la Direzione Generale delle Belle Arti, preoccupata per una possibile dispersione delle opere, decide di intervenire e proporre a Gualino di consegnare allo Stato gli oggetti d’arte schedati nel catalogo di Venturi del 1926. Nel disastroso tracollo finanziario l’imprenditore si trova obbligato ad acconsentire alla cessione – per molti anni documentata come spontanea donazione – e le opere entrano a far parte della Galleria Sabauda. La parte restante della collezione viene lasciata in mano ai creditori che procedono alla sua liquidazione, mettendo all’asta i pezzi. Alcuni di questi verranno venduti – attraverso la mediazione dell’antiquario piemontese Pietro Accorsi, principale interlocutore dei liquidatori – anche al Museo Civico di Torino, il cui direttore Vittorio Viale si mostra subito particolarmente interessato al nucleo di arti applicate.
A questo primo smembramento della collezione ne seguirà più avanti un secondo, ancor più clamoroso. Con la nomina di Dino Grandi come ambasciatore a Londra nel 1932, la nuova sede dell’Ambasciata italiana – il settecentesco palazzo Fitzwillliam di Grosvenor Square – viene sontuosamente arredata da numerose opere d’arte, che assumono allo stesso tempo una funzione decorativa e politica, nell’ottica di una “italianizzazione” degli ambienti. Tra i capolavori esportati viene compresa un’ingente parte della “donazione” Gualino, direttamente prelevata dalla Galleria Sabauda. Nonostante le opposizioni – seppur deboli – di Guglielmo Pacchioni che tenta di escludere dall’esodo i pezzi di maggiore interesse storico -artistico, il trasferimento viene concordato e in due spedizioni, eseguite il 7 marzo e il 21 luglio del 1933, i più pregiati oggetti d’arte della raccolta Gualino approdano sul suolo britannico.
Bisognerà aspettare la fine del secondo conflitto mondiale per riscontrare una rinnovata preoccupazione circa le sorti delle opere torinesi. Il 16 ottobre 1945 Carlo Aru, nuovo Soprintendente alle Gallerie di Torino, chiede alla R. Ambasciata d’Italia a Londra una ricognizione dei pezzi depositati, affinché questi possano essere riconsegnati alla Galleria Sabauda. A seguito di alcune ricerche, il 6 settembre 1946 si rivolge alla Galleria Borghese in cui – aveva scoperto – alcune opere erano state trasferite da Londra per una mostra temporanea a Roma, dove poi sono rimaste a scopo di protezione antiaerea, richiedendone la restituzione che avverrà non senza difficoltà nel marzo dell’anno successivo. Il successo della missione romana risulta però solo parziale in quanto, dal fronte londinese, non sembra arrivare alcuna risposta. In questa complessa situazione l’intervento di Noemi Gabrielli che nel 1952 succede ad Aru nella direzione della Galleria Sabauda, si rivela determinante. Lamentando con forza l’inadempienza dell’ambasciata, decide di stabilire ancora una volta un contatto con Londra, scrivendo all’allora ambasciatore Zoppi. Non ricevendo risposta, la Gabrielli decide di contattare personalmente l’avvocato Gualino – ormai stabilitosi a Roma dove conosce una nuova ripresa nelle attività e negli affari – alla disperata ricerca di aiuto per smuovere la burocrazia ministeriale. In un primo tentativo l’imprenditore si rivolge al nipote Paolo Rossi, Ministro della Pubblica Istruzione, da cui però non ottiene alcun risultato concreto, nonostante la solidarietà mostrata. Ben più efficacie invece, l’amicizia di Gualino con il vicepresidente di “Famija Piemonteisa” di Roma Renzo Gandolfo, che farà da intermediario con Giuseppe Pella, suo superiore e Ministro degli Esteri, che a sua volta consente alla Gabrielli di essere direttamente ricevuta a Londra dall’ambasciatore. Dopo difficili trattative, Zoppi acconsente alla restituzione dei pezzi, a patto che le opere cedute siano adeguatamente sostituite da altre, selezionate dalla stessa Soprintendente e pagate dall’imprenditore. Nell’estate del ’58 finalmente il nucleo proveniente dalla collezione Gualino torna nella Sabauda, accolto in sette sale allestite appositamente al secondo piano, in occasione della ristrutturazione del museo a cura di Piero Sanpaolesi. La sistemazione museografica degli ambienti viene progettata dall’architetto Alessandro Protto, su suggerimento dello stesso donatore Riccardo Gualino e i capolavori da lui raccolti vengono – almeno in parte – nuovamente esposti al pubblico nel maggio del 1959, documentati da Noemi Gabrielli con un catalogo, pubblicato due anni dopo. <116
2.4 Le opere
Nella grandiosità di una collezione incredibilmente vasta ed eterogenea, vale la pena evidenziare alcuni dei pezzi più significativi della raccolta.
Le oreficerie costituiscono sicuramente uno dei nuclei più consistenti e pregiati della collezione, coprendo un arco di tempo estremamente ampio, con pezzi da ascrivere tra il VI secolo a.C. e il XIX secolo <117, provenienti da diverse aree geografiche, dall’Europa al Vicino Oriente. Gli oggetti, per la maggior parte appartenuti al conte Stroganoff, variano per tipologia – dove prevalgono ornamenti personali e complementi di vestiario – e tecnica, con l’utilizzo di oro, argento, bronzo, ferro, pietre dure e paste vitree <118. Tra le oreficerie antiche suscita particolare interesse il piatto in argento con Nereide (Figura 18.), del VI secolo, appartenente alla categoria dei missoria, vassoi cerimoniali decorati con soggetti mitologici – soprattutto divinità, satiri, nereidi e tritoni – legati ad un repertorio di matrice classica. Si tratta di una delle poche opere del nucleo a non provenire dalla collezione Stroganoff, acquistata da Riccardo Gualino al Cairo nel 1924 in occasione del suo viaggio in Egitto. Le più antiche notizie del piatto risalgono al 1923 quando viene documentata la sua presenza presso la bottega dell’antiquario Maurice Nahman, da Ugo Monneret de Villard in un libro sulla scultura copta di Ahnâs. La descrizione che viene data dallo studioso sarà presa come riferimento da Venturi, che inserisce il pezzo nel catalogo della collezione Gualino del 1926 indicandolo come esempio di «Arte dell’Impero Romano». La ricevuta d’acquisto del 1924 testimonia il passaggio diretto da Nahman alla collezione torinese e presenta un’accurata descrizione dell’oggetto, evidenziandone la preziosità. <119 Nonostante l’apprezzamento unanime a seguito del suo ingresso presso la raccolta privata, il piatto non compare nell’esposizione della Sabauda del 1928, come dimostra l’assenza nel catalogo venturiano compilato per l’occasione, ma verrà incluso tra le opere di rilievo confluite nella Galleria Sabauda dopo il tracollo finanziario di Gualino. L’apparato decorativo si sviluppa esclusivamente nella parte centrale del medaglione, dove è rappresentata a sbalzo una ninfa seduta su un leone marino, piccoli delfini sull’esergo e un Amorino nella parte superiore che assiste alla scena. La figura femminile, in nudità e riccamente abbigliata, porge con il braccio destro un’offerta all’animale che la trasporta, in un motivo tipicamente ellenistico, riproposto in senso revivalistico di un modello antico. A racchiudere la scena, una cornice circolare su cui è incisa un’iscrizione di natura religiosa. La coesistenza tra la scena con soggetto pagano e l’invocazione cristiana viene giustificata da Venturi nell’ipotesi di reimpiego del manufatto come ex voto per una chiesa, seguendo i precedenti studi di Monneret de Villard. Analisi più recenti <120 sembrano però confermare la contemporaneità tra la raffigurazione e l’epigrafe, testimoniando dunque la persistenza di un linguaggio formale classico nell’età tardoantica. La sua collocazione spazio-temporale viene avvalorata dalla presenza di quattro bolli di controllo sul verso del piatto, che riportano il nome di Giustiniano, il mese e l’anno di realizzazione – il dicembre del 451 d. C – e la provenienza cartaginese.
Il gusto per i primitivi nella collezione – promosso in primo luogo da Lionello Venturi – trova come suo maggiore rappresentante la Madonna col Bambino di Duccio di Boninsegna (1255 ca-1318/1319) (Figura 19.). Proveniente con ogni probabilità da un convento fiorentino, le prime notizie della tavola risalgono al 1910 quando compare nel mercato antiquario ricoperta da una ridipintura cinquecentesca, di scuola del Pontormo <121. Nel 1920 entra nella collezione di Egidio Paoletti che libera la tavola dalla pittura manierista, rivelando il dipinto originario. Quello stesso anno, l’opera viene venduta all’industriale milanese Giuseppe Verzocchi ma per sospetta provenienza illegale viene trattenuta presso la Pinacoteca di Brera. Rientrata nel mercato antiquario per l’inconsistenza dei sospetti, viene esportata a Vienna per poi essere acquistata nel 1925 da Riccardo Gualino, per interessamento del governo italiano. Come molti altri capolavori della collezione dell’imprenditore, nel 1930 verrà ceduta alla Galleria Sabauda, per poi essere trasferita nei locali dell’Ambasciata italiana a Londra, trornando quindi definitivamente a Torino. Nei cataloghi di Lionello Venturi, la tavola viene sempre attribuita a Cimabue, «della medesima mano della Madonna Rucellai […] considerata opera di Duccio o Cimabue […] Oggi prevale l’attribuzione a Cimabue che viene estesa al quadro esposto». <122 Noemi Gabrielli, descrive l’opera con la definizione più generica di «Arte toscana pregiottesca» come indicato nel catalogo del 1961. Il primo a dichiarare esplicitamente la paternità della tavola a Duccio fu Gustave Soulier, trovando il consenso unanime degli studiosi. Il dipinto viene nuovamente accostato alla Madonna Rucellai degli Uffizi, che viene però definitivamente riconosciuta di mano duccesca. La Madonna Gualino è ritenuta la più antica opera superstite del maestro, databile entro il 1285, antecedente alla Madonna fiorentina. Maria viene raffigurata seduta su un trono ligneo mentre volge lo sguardo allo spettatore e regge il figlio in piedi sulle sue ginocchia. L’impostazione e lo stile sono ancora legati alla lezione “bizantina” del maestro Cimabue, con soluzioni ancora arcaiche, mentre la cromia chiara e preziosa nei toni del rosso, blu e rosa tipicamente senese, resterà nella pittura del maestro.
Parallelamente al periodo di massimo successo finanziario dell’imprenditore, tra il 1922 e il 1925 si registrano gli acquisti delle più significative opere annesse nella collezione. È evidente, nella selezione dei pezzi, l’attenzione di Lionello Venturi nel garantire al collezionista testimonianze artistiche di grandi nomi, a costo di attribuzioni se non forzate, quantomeno precipitose. Non sorprende dunque ritrovare nella raccolta una Venere botticelliana (Figura 20.), dipinto tra i più rappresentativi del nucleo rinascimentale. La storia collezionistica del quadro lo vede a Londra nel 1844, acquistato a Firenze e trasferito presso la dimora del rev. Walter Davenport Bromley e viene immediatamente riferito alla scuola di Botticelli. La collezione verrà venduta nella sua interezza alla morte del proprietario presso Christie’s e la Venere viene comprata da Lord Ashburton per poi passare in data imprecisata allo scultore Carlo Marochetti. Dagli eredi dell’artista, l’opera passa a Riccardo Gualino, acquistata a Parigi nel 1923. Data la celebrità dell’autore e del soggetto, il dipinto viene naturalmente esposto per la mostra del 1928 presso la Galleria Sabauda, e viene annesso poi alle raccolte di quest’ultima. Nel 1933 rientra tra i capolavori trasferiti a Londra, diventando uno dei pezzi centrali nell’arredamento della sede dell’ambasciata italiana. Viene dunque spostato in Galleria Borghese a Roma, dove viene trattenuto in deposito fino al 1946 a seguito dei bombardamenti nella capitale inglese, rientrando a Torino l’anno successivo e custodito da allora presso la Galleria Sabauda. La tela – erroneamente indicata come tavola sia da Venturi che da Gabrielli – viene realizzata alla fine del XV secolo e ad oggi viene ritenuta una replica di bottega, contrariamente alle indicazioni di Lionello Venturi che vi riconosce la mano del maestro. La Venere si presenta nuda, in piedi su un gradino di marmo che si copre con pudore con le mani e i lunghi capelli. L’incarnato chiaro della pelle è esaltato dal fondo scuro della nicchia alle sue spalle. All’accostamento da molti proposto tra quest’opera e la Nascita di Venere degli Uffizi, prevale oggi una sua considerazione indipendente, una produzione di bottega destinata ad ornare ambienti domestici, ma si riconosce per entrambe le opere il riferimento alla tipologia della Venus Pudica come modello comune.
Come si è detto, l’interesse collezionistico di Gualino e Venturi non si limita all’arte occidentale, ma alle più notevoli rappresentazioni di quest’ultima si accostano importanti produzioni orientali. Gualino arriva a costruire una delle raccolte di arte cinese e giapponese di maggior prestigio in ambito europeo. Tra queste, la stele votiva Wei (Figura 21.) è stata una delle prime e più importanti opere ad entrare nella collezione, acquistata dall’imprenditore a Parigi nel 1923 e precedentemente appartenuta a Charles Vignier. Il pezzo viene esposto nel 1928 in occasione dell’ormai nota esposizione torinese e farà parte del nucleo ceduto successivamente alla Galleria Sabauda. Dopo essere stata annessa alla raccolta Gualino, la stele appare nel 1925 nel testo di Osvald Sirén dedicato allo studio dell’arte orientale, in cui si stava specializzando in quel periodo <123. Nei due cataloghi dedicati alla collezione Gualino, la descrizione dell’opera composta da Lionello Venturi si rifà in modo puntuale alla scheda pubblicata precedentemente dallo storico finlandese <124. La scultura in calcare grigio risale alla prima metà del VI secolo e viene considerata una delle più raffinate rappresentazioni dell’arte cinese della dinastia Wei del nord. Nel lato anteriore della stele figurano ad alto rilievo il Budda Sakiamuni in piedi, la mano destra in atto di rassicurare il fedele, la sinistra in atto di carità, e due Boddistava ai lati sopra basi di loto sostenute da atlanti. Tra le immagini rilevate la superficie è decorata da graffiti raffiguranti Budda seduti e motivi floreali, riprendendo l’ornato della parte posteriore. L’opera risulta danneggiata nella parte superiore centrale, che doveva terminare a foglia di loto, come per i due Boddistava laterali. Con l’affermazione dell’arte buddista in Cina il Venturi – e Sirén prima di lui – riconosce un’elaborazione delle tradizioni ellenistiche, «e per la prima volta l’immagine umana raggiungeva quella unità di stile che distingue l’arte colta e compiuta da quella barbara e popolare» <125, riscontrando in opere come questa una straordinaria vicinanza con l’arte romanica e gotica d’Occidente nonostante si tratti di un periodo molto anteriore allo sviluppo dell’arte medievale.
Il nucleo contemporaneo della collezione, nella cui composizione la scelta delle opere di evidente gusto venturiano appare particolarmente significativa, si dimostra un complesso di eccezionale valore. L’attenzione alle produzioni artistiche del suo tempo, permette inoltre a Riccardo Gualino di supportare direttamente i singoli artisti, contribuendo allo sviluppo delle loro ricerche anche nelle vesti di committente.
Così sarebbe stato per Armando Spadini (1883-1925), a cui Gualino commissiona una tela a soggetto libero dopo la Biennale del 1924, mai realizzata a causa della prematura scomparsa dell’artista l’anno successivo. Di lui, l’imprenditore colleziona diverse opere e tra queste figura Nudi (Maternità) (Figura 22.), realizzata nel 1918. Proveniente dalla collezione Giosi di Roma, viene esposta nel 1924 al Carnegie Institute di Pittsburgh con il titolo Sleeping Venus with Love, e ne viene data quindi una lettura in chiave rinascimentale. Il quadro viene successivamente acquistato dal Gualino e inserito da Venturi nel catalogo del 1928 come Nudi.
Nel 1934 viene comprato dalla Banca d’Italia e passa alla Galleria Civica d’Arte Moderna, dove compare con il titolo Maternità, legandolo quindi alla sfera degli affetti familiari. I due soggetti rappresentati sensuosamente distesi sul letto sono infatti la moglie del pittore e la loro piccola figlia, immerse in un confidente colloquio. La tela è considerata uno dei più alti esempi dell’impressionismo di Spadini, come viene riconosciuto dallo stesso Lionello Venturi. Nella scheda del catalogo del 1928, oltre a riportare per intero il felice giudizio del padre Adolfo che ne esalta le qualità di luce e colore <126, lo studioso vi individua un «equilibrio […] tra l’effetto decorativo e il suggerimento del reale» che – sottolinea – «è sempre raro, anche nello Spadini» <127 […]
[NOTE]
114 N. Gabrielli, Le fortunose vicende della donazione Gualino alla Sabauda, in “Studi Piemontesi”, vol. IV, n. 2, novembre, 1975, pp. 412-419
115 L. Venturi, Alcune opere della Collezione Gualino esposte nella R. Pinacoteca di Torino, catalogo, Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma, 1928
116 N. Gabrielli (a cura di), La collezione Gualino, catalogo, Genova, 1961
117 G. Careddu, “Le oreficerie”, in G. Careddu, et al. Arti suntuarie nella collezione Gualino della Galleria Sabauda: oreficerie e avori dall’antichità all’età moderna. L’artistica, Savigliano 2017
118 Ibidem
119 F. Crivello, “Il piatto Gualino”, in G. Careddu, et al. Arti suntuarie nella collezione Gualino della Galleria Sabauda: oreficerie e avori dall’antichità all’età moderna. L’artistica, Savigliano, 2017, p. 126
120 Ivi, pp. 128-132
121 N. Gabrielli (a cura di), La collezione Gualino, catalogo, Genova, 1961 già in L. Venturi, Alcune opere della Collezione Gualino esposte nella R. Pinacoteca di Torino, catalogo della mostra, Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma, 1928
122 L. Venturi, Alcune opere della Collezione Gualino esposte nella R. Pinacoteca di Torino, catalogo della mostra, Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma, 1928
123 O. Sirén, Chinese Sculptures from the Fifth to the Fourteenth Centruy, Ernest Benn Ltd, Londra, 1925
124 A. Perna, “Osvald Sirén, Lionello Venturi, Riccardo Gualino: un contributo al Formalismo e al collezionismo in Italia” in S. Valeri (a cura di), La Fucina di Vulcano. Studi sull’arte per Sergio Rossi, Lithos editrice, Roma, 2016
125 L. Venturi, La collezione Gualino, catalogo, Bestetti e Tumminelli, 1926
126 Dagli ori antichi agli anni Venti. Le collezioni di Riccardo Gualino, catalogo della mostra, (Torino, Palazzo Madama, Galleria Sabauda, dicembre-marzo), Electa, Milano, 1982, p. 186
127 L. Venturi, Alcune opere della Collezione Gualino esposte nella R. Pinacoteca di Torino, catalogo della mostra, Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma, 1928
Chiara Crucianelli, La collezione Gualino: una bibliografia ragionata, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2022/2023