Franco Monteverde nel suo illuminante saggio, fondamentale per ogni studio rigoroso, Le dinamiche demografiche (pp.513-544) del volume miscellaneo dedicato dalla Einaudi di Torino alla LIGURIA giustamente precisa che i riferimenti sulla demografia ligure sono limitati e che qualche dato globale si ottiene solo dal XVI secolo in relazione sia alla caratata del 1531 che alla Descrizione del Giustiniani.
Dopo di ciò l’autore menziona la Relazione Senarega (verso la fine del ‘500) ed ancora i censimenti del 1607 e del 1777.
A riguardo delle sparse documentazioni cui allude il Monteverde, a proposito dell’estremo Ponente ligustico, si può citare un censimento provenzale o meglio un FOCATICO del XIV secolo [in qualche modo ancora più interessante se confrontato, per quanto concerne sempre l’ESTREMO PONENTE (in pratica il vasto CAPITANATO DI VENTIMIGLIA), con i dati di un PUBBLICO PARLAMENTO DEGLI UOMINI DI VENTIMIGLIA E VILLE].
Si tratta di uno fra i primi documenti in cui, scientificamente, la popolazione analizzata risulta distinta per FUOCHI.
Col termine FUOCO si indica il corrispondente numerico e statistico di FAMIGLIA (NUCLEO DI FAMIGLIA) vale a dire l'”unità di misura” di ogni computo demografico e lo stesso autore tiene a precisare che mediamente in LIGURIA si tratta di FUOCHI di modeste dimensioni e, ad integrazione del suo assunto, elenca tra le ragioni che contribuiscono a limitare la consistenza dei fuochi “…aborti, alta mortalità infantile, emigrazione, formazione di nuovi nuclei familiari, abbandono dei piccoli, molto frequenti come pratica sostitutiva dell’infanticidio” [comunque praticato seppur relegato nella sfera della magia nera] “scoraggiano la formazione di fuochi estesi”].
Monteverde (p. 519 sgg.) rammenta che all’ispirazione sostanzialmente NATALISTA dell’aristocrazia genovese nel medioevo succede dal XVI secolo una globale postulazione MALTHUSIANA quindi incentrata sul teorema del CONTROLLO DELLE NASCITE.
In epoca medievale DONNE NOBILI risultavano meglio nutrite, contraevano matrimonio abbastanza presto, raggiungevano prima la pubertà e, entrando dopo in menopausa, in forza di una superiore appetibilità sessuale, risultavano più fertili e prolifiche delle popolane.
Secondo l’autore, alla radice di una superiore salvaguardia della loro femminilità, le donne liguri e soprattutto genovesi di ambito aristocratico sin dall’epoca medievale potevano vantare l’affidamento (comunque non esente da storiche opposizioni e sospetti) della prole all’opera di balie e nutrici sì da godere di una invidiata libertà sessuale.
Il Monteverde (p. 520), trattando della SESSUALITA’ DELLA DONNA LIGURE DELL’ETA’ INTERMEDIA indugia quindi sull’argomento mai semplice della CONTRACCEZIONE nel Medioevo e nell’età intermedia: pratica di cui non nega l’esistenza pur ritenendola principalmente esercitata nell’ambito del mondo, assolutamente irregolare, di cortigiane e prostitute.
L’autore giustamente sostiene che all’epoca la base principale della CONTRACCEZIONE si doveva identificare nell’esercizio di presunte PRATICHE DI MAGIA.
La sostanziale ma non ufficiale condanna della Chiesa cattolica romana avverso l’usanza, già in antico non ignota, di CONTRACCETTIVI MECCANICI (PROFILATTICI – PRESERVATIVI) non ne vanificò però del tutto la fruizione, per quanto empirica, e a dire il vero proprio un medico italiano ne ripropose l’USO quale fondamentale barriera contro l’insorgenza di malattie epidemiche e veneree.
Il Monteverde (p.520) nel vagliare l’essenza in qualche modo sociologica e filosofica del CONTROLLO DELLE NASCITE sembra urtare con un puritanesimo di fondo e quasi per non inficiare la nitidezza delle sue postulazioni si destreggia, peraltro abilmente, in riflessioni però inutilmente “auliche”: giudica, con giustezza, difficilmente utili le PROCEDURE CONTRACCETTIVE affidate a qualche TECNICA ERBORISTICA od all'”abilità” di qualche MAMMANA ma si guarda dal fissare gli estremi del problema.
Ha ragione il Monteverde (p.522, nota 41) laddove afferma che proprio un detto ligure ben sintetizza la propensione malthusiana della gente ligure: “Chi n’ha un n’ha nisciun, chi n’ha dui n’ha un, chi n’ha trei g’ha un diau pè in davvei” (cioè: “Chi ha un figlio non ne ha nessuno, chi ne ha due ne ha uno, chi ne ha tre ha un diavolo per davvero”).
Il proverbio tramanda nel vissuto una visione esistenziale ispirata al controllo delle nascite che si scontra con quella NATALISTA propra di ambito toscano e veneto, peraltro ribadita dall’elaborazione del citato proverbio: “Chi n’ha due n’ha uno e chi n’ha uno n’ha punti” – “Chi n’ha do ghe n’ha un, chi ghe n’ha un, n’ha nissun”).
A. Greppi al proposito scrive:”Al contrario di quanto appare nello studio della popolazione di Ginevra, dove il fenomeno della limitazione delle nascite comincia a verificarsi a partire nelle generazioni successive al 1650, nelle famiglie di Genova questo fenomeno appare già nelle generazioni anteriori al 1600, ed è del tutto simile a quanto avviene nelle popolazioni recenti” (Indagine demografica nell’aristocrazia genovese nei secoli XVII e XVIII, tesi di laurea, Genova, a. a. 1990, p. 131).
J. Favier, l’oro e le spezie, Milano, 1990, p. annota quindi: “La borghesia di affari che ricorre meno frequentemente dell’aristocrazia feudale a quelle due risorse del cadetto che sono la Chiesa e il servizio come soldato stipendiato, pratica comunque il malthusianesimo di chi non intende dividere né il patrimonio né i vantaggi professionali”.
Genova costituisce certo l’iperfenomeno ligure ed al proposito scrive il Monteverde (p.522):”…mentre in popolazioni a scarsa densità il sistema parentale guida la scelta del coniuge e il numero dei figli, in quelle ad alta densità prevale l’autonomia delle coppie. Sicché nei sestieri di una città che soffre una densità abitativa senza eguali nell’area mediterraneo esistono le condizioni che sollecitano le coppie dei ceti popolari de maìnna, ossia della costa a non aggravare ulteriormente una situazione già così drammatica”.
Per quanto concerne il PONENTE LIGURE, il Capitanato di Ventimiglia testimonia quel consolidamento di un’interpretazione malthusiana della vita propria della Liguria marittima: anche nel contesto di questo capitanato di costa finisce per assistersi al sempre minor numero di seconde nozze soprattutto di vedove aristocratiche (avvenivano invece più frequentemente le seconde nozze di vedovi seppur obbligati a pagare la folklorica tassa del chiarivari), l’incitamento dei figli, sia maschi che femmine, a prendere il celibato religioso (monacazione forzata o non), ed ancora la tarda emancipazione dei figli maschi specie di contesto nobiliare e tenendo conto comunque sia del trattamento dei figli cadetti ritardato conseguimento, in confronto alla situazione odierna, della maggiore età.
Nella sua trattazione ancora il Monteverde (p. 524) analizza quindi la graduale affermazione nel DOMINIO GENOVESE la linea comportamentistica della doppia morale.
In particolare nell’ambito dell’alta aristocrazia viene sanzionata dall’usanza sociale (ma risulta altresì sancita negli stessi contratti notarili) la figura del cicisbeo che comporta, con tutti i mascheramenti del caso, un consequenziale, superiore dispiegamento di libertà sessuale e comportamentale, di cui in qualche modo si hanno relazioni moralistiche (non prive di predicatoria condanna) come a proposito di quanto lasciò scritto Angelico Aprosio nel contesto del suo Scudo di Rinaldo II in merito al tema sempre pruriginoso di BALLI E VEGLIE.
Scrive in merito a tutto ciò il citato Greppi: “La crisi della nuzialità si manifesta con un maggior numero di donne e di uomini votati al celibato, con una minore frequenza di seconde nozze; i matrimoni sono sempre più tardivi, nelle famiglie dell’aristocrazia genovese il celibato definitivo aumenta per gli uomini di circa il 28 per cento nelle generazioni anteriori al 1600, a più del 40% nelle generazioni tra il 1650-74”.
P.L. Levati (I dogi di Genova, Genova, 1914, p.133) al riguardo (recuperando un giudizio a suo dire espresso nel 1747 da Francesco Doria) scrisse: “Prive di eredi molte casate si estinguono. Tra le molte disavventure della Repubblica, massima al certo è quella di tante famiglie patrizie che si vanno tutto dì estinguendo”.
Ancora il Monteverde (p. 524) ha puntualizzato: “Per quasi tre secoli, dalla metà del Cinquecento alla prima metà dell’Ottocento, la popolazione a Genova si stabilizza tra le 50.000 e le 70.000 anime, o le 90.000 se si aggiungono le parrocchie comprese nella nuova cinta muraria della metà del Seicento. Si tratta di circa un quinto della popolazione ligure al censimento del 1607, che risulta di circa 314.000 anime”.
Non v’è motivo di dissentire dal Monteverde laddove accusa questo calo demografico ed il susseguente ristagno all’emarginazione commerciale di Genova, priva del resto di un adeguato retroterra: non è un caso che mentre la capitale ligure registra siffatto immobilismo l’olandese Amsterdam che nel XVI secolo contava appena 15.000 residenti, in forza dei commerci atlantici, sia diventata un popoloso centro portuale, ricco ai primi dell’Ottocento di ben 210.000 anime.
Ancora il Monteverde elenca, prendendo a campione alcuni significativi centri del Dominio, lo stagnamento demografico ligustico: in funzione dei dati censiti nel 1799 mentre Genova conta 90.835 residenti Savona (che raggiunse i 15.000 abitanti nel 1608) risulta popolata al 1798 da sole 7.444 persone.
Albenga nel 1809 ha appena 2100 cittadini (cifra realmente irrisoria se si calcola che la località nel 1376 era stata censita per 3300 abitanti).
Parimenti un calo demografico si constata a La Spezia che, coi casali e quindi con Lerici e Portovenere) giunse a contare 12.000 cittadini (solo 3.000 entro la cinta delle mura) che nel 1806 risultano esser scesi a 10.600.
Le tracce di una ripresa demografica datano comunque proprio dalla fine del XVIII secolo, epoca in cui si raccolgono dati demografici davvero sconsolanti: il recupero dipende da diversi fattori secondo il Monteverde e tra questi, oltre a migliorate dotazioni terapeutico-profilattiche, lo studioso elenca certi progressi agronomici tra cui la coltura del MAIS e l’impianto, in vero non tanto facile, della coltura dei POMI DI TERRA (PATATE)
di Bartolomeo Durante in Cultura-Barocca