Fonte principale delle informazioni sulla Resistenza è il testimone chiave dell’inchiesta di Felicita

A quattordici anni di distanza dall’ultimo dei suoi tre lavori dedicati alla Resistenza in Liguria – Partigiani e comunisti (2001), Cara Marietta, Caro professore (2003) e La sega di Hitler (2004) – Manlio Calegari è tornato sull’argomento con Behind the Lines, La partita impossibile (1990-91) (2018). <1 Nella produzione di Calegari, che di mestiere è storico, Behind the Lines rappresenta un’evidente novità dal punto di vista tanto del narrato quanto del genere narrativo. Materia di Behind the lines, infatti, più che la guerra partigiana è lo sforzo di trasmetterne la memoria e il significato. I fatti d’armi e i sommovimenti politici della guerra civile combattuta fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 ormai si sanno: il problema diventa semmai come identificare un nucleo vitale nella pratica della Resistenza, un agglomerato di senso che abbia retto al trascorrere del tempo e mantenuto ancor oggi una sua capacità di incidere sul reale. E visto che la questione sarà di come riuscire a trasmetterlo attraverso le generazioni questo nocciolo dell’esperienza partigiana, allora non si tratterrà più di scrivere un racconto storico, ovvero una
narrazione ragionata di fatti del passato documentati in archivio, ma un romanzo. È questo il genere letterario più adatto a rappresentare il tentativo di comunicare materie riottose al passaggio fra soggettività lontane, nel nostro caso per distanza di situazione storica.
Da quanto detto consegue quasi per necessità che protagonista del romanzo non sarà una figura resistenziale ma un personaggio appartenente ad una generazione più giovane, priva di esperienza diretta della guerra partigiana. L’eroina e narratrice di Behind the Lines, Felicita Pessina, nasce appunto nel 1969, in seguito a concepimento accaduto nove mesi prima durante una sessantottesca occupazione dell’università. Quando inizia il romanzo, nel 2010, Felicita è una donna d’affari di successo, una dirigente, per quel che si intuisce dal racconto, di una multinazionale attiva sul mercato globale. Entra in crisi all’improvviso durante la visita a un ospedale per bambini, “vittime di guerre negate, inferni dai nomi esotici ma non lontani dalle nostre case” (5). Lei è parte in causa: è lì a rappresentare l’azienda per cui lavora, che appunto produce lo speciale tessuto antiaderente con cui si fabbricano le lenzuola per grandi ustionati, in altre parole una compagnia che i suoi profitti li trae dalla guerra. Sconvolta dal dolore letto negli occhi di quei bambini, la sera stessa Felicita riapre un diario scritto quasi vent’anni prima. È in realtà il giornale di bordo della sua ricerca per una tesi di laurea in Storia Contemporanea, redatta secondo il metodo della storia orale. In quel contesto tenere un diario era uno dei compiti assegnati ai laureandi da parte dell’Istituto di Storia. Ma la scrittura del giornale si era interrotta dopo un anno di lavoro, quando Felicita aveva cambiato di colpo progetto di tesi, con ciò ponendo fine anche alla componente diaristica della ricerca. Lo scritto di Felicita non è una semplice cronaca dei giorni di una studentessa, ma un contenitore di considerazioni sul passato e il presente, discussioni metodologiche e, soprattutto, riflessioni sui fatti e le ragioni della guerra di Liberazione.
Fonte principale delle informazioni sulla Resistenza è il testimone chiave dell’inchiesta di Felicita, il prozio Alba, partigiano sull’Appennino ligure dall’aprile del 1944 fino alla fine del conflitto. Alba è in realtà un nome di battaglia (quello anagrafico è Ignazio), preso al momento di unirsi ai ribelli ma mantenuto anche nel dopoguerra. Dal punto di vista narratologico il diario di Felicita funziona da struttura portante del testo: è la scrittura diaristica dell’eroina che organizza il racconto, secondo modalità che, vedi Defoe (History of the Plague Year) o Svevo (La coscienza di Zeno), si rifanno a un’illustre tradizione romanzesca. Infine, poiché nella progressione del narrato i fatti registrati nel diario, accaduti o nel biennio 1944-45 o in quello 1990-91, seguono l’episodio iniziale situato nel 2010, il romanzo equivale ad una grande, ancipite, analessi.
La rinuncia alla tesi di argomento resistenziale, ci racconta Felicita, è in realtà il primo movimento di una radicale svolta di vita: l’abbandono definitivo, nel giro di pochi mesi, degli studi universitari per una carriera nel mondo degli affari “e dopo qualche anno, anche i soldi: tanti, improbabili” (5). Nella sua corsa da studentessa non particolarmente agiata e coinvolta nei movimenti di contestazione universitaria a ricca dirigente d’azienda, Felicita abbraccia, direbbe Bell Hooks, “l’ideologia dell’individualismo competitivo, tomistico e liberista:” la visione del mondo che caratterizza le donne che affidano la propria emancipazione al successo in azienda o in politica (Cap. 1). <2 Ma come si è appena visto, davanti alla visione della sofferenza che la macchina da guerra del capitale, di cui lei è parte consapevole, esporta nel mondo, l’esistenza di Felicita deraglia vent’anni dopo. <3 In quel momento riaprire il giornale di bordo della tesi equivale a riattivare la comunicazione con l’esperienza resistenziale, operazione che di necessità comprende la pubblicazione – solo inferita da chi ne legge il risultato ultimo, il romanzo, e mai esplicitamente narrata – del diario. Lo choc subito nell’ospedale per bambini, insomma, riporta Felicita vent’anni indietro, al tempo in cui ricostruire il senso della guerra di Liberazione era per lei compito primario. Charire il rapporto tra i due episodi in simmetrica opposizione nel testo, l’abbandono della ricerca nel 1991 e la riapertura del diario nel 2010, permetterà allora di capire, non solo come lo spirito della Resistenza possa comunicarsi attraverso le generazioni, ma soprattutto quale messaggio venga trasmesso in questo passaggio, cosa contenga insomma la pratica resistenziale di tanto significativo da reggere sia lo scorrere del tempo sia l’avversa disposizione, come nel caso di Felicita dalla rottura del 1991 in poi, dei potenziali destinatari della comunicazione.
Alla ricerca di tali spiegazioni si dedica questo saggio. L’indagine si focalizzerà sulla distanza, in termini di rapporti col territorio per un verso e di esperienza del genere per l’altro, che separa Alba e gli amici che a lui fanno capo da Felicita e il circolo dei suoi coetanei. Nella parte conclusiva questo studio si concentrerà invece sulla svolta di Felicita, l’arcano che ridà vita al suo rapporto con la Resistenza e le porta in dono una più ricca soggettività.
Come ho appena anticipato, la Resistenza con cui Felicita entra in contatto è quella che hanno praticato il prozio Alba e alcuni suoi amici di una vita, nati e cresciuti nella Riviera ligure di levante, fra Santa Margherita e S. [Sestri Levante nella realtà]. Li accomuna la militanza nelle Brigate Garibaldi, le formazioni partigiane organizzate dal Partito Comunista Italiano che giocarono un ruolo primario in Liguria durante la lotta di Liberazione. In Behind the Lines il filo che permette di ricostruire i fatti della guerra civile e leggere le ragioni che sottendono all’esperienza resistenziale è costituito dalla memoria di Alba: è lui la guida all’interno del territorio partigiano. Territorio è in verità la parola chiave. Il prozio di Felicita non parla mai di combattimenti, nemmeno di modesta entità come furono in genere quelli occorsi nel Genovesato fra il ’44 e il ’45. Quel che descrive, più che un’attività militare è un’esperienza dell’insediamento. La Resistenza praticata dall’unità partigiana di cui fa parte Alba consiste nel radicare una comunità di ribelli in un territorio di elezione, vale a dire uno spazio geografico che non per sue qualità intrinseche, ma proprio grazie alla presenza dei resistenti, alla loro attività cartografica, al controllo esercitato sui confini e ai rapporti allacciati con i residenti storici (non si davano, negli anni Quaranta del secolo scorso, zone della montagna ligure prive di presenza contadina) acquista una dimensione territoriale. Dimensione che, a sua volta, si riverbera sui ribelli stessi, la cui soggettività riceve l’impronta del territorio di insediamento, cosicché, alla fine, uno è partigiano perché è radicato in una certa area, mentre uno spazio altrimenti indeterminato acquista identità e diventa un posto dall’inconfondibile fisionomia perché è lì che si sono stanziati i combattenti. Questo scambio di senso fra luoghi e soggettività assume una valenza iconica nell’esperienza storica raccontata da Alba: la costruzione e il consolidamento del primo nucleo della Brigata (poi Divisione) Cichero, la banda partigiana comandata da Bisagno (Aldo Gastaldi) che prese il nome dal borgo dell’entroterra chiavarese, Cichero (Roveta in Behind the Lines), dove i primi resistenti si insediarono all’inizio dell’inverno ’43-’44 (Calegari, Partigiani 220). Mentre un paese fra i tanti dell’Appennino divenne “il posto dei partigiani” e dopo la Liberazione un luogo simbolo della Resistenza, i giovani che lì si concentrarono, all’inizio spinti soprattutto dalla renitenza alla leva nella Repubblica Sociale Italiana, diventarono, per tutta la vita e non solo durante la guerra, “quelli di Cichero.” <4 […]
[NOTE]
1 L’uso dell’inglese nel sottotitolo del romanzo segnala un legame intertestuale con il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, romanzo di riferimento per tutta la narrativa resistenziale, scritto, com’è noto, in un’originale mescola di italiano e inglese. Calegari, tuttavia, non segue le soluzioni linguistiche di Fenoglio e mantiene il bilinguismo solo nel titolo. L’espressione “Behind the lines” è però anche parte del titolo di un testo fondamentale nella storiografia del contributo femminile allo sforzo bellico durante le due guerre mondiali, Behind the Lines: Gender and the Two World Wars (1987), di Margaret Randolph Higonnet, Jane Jenson, Sonya Michel, e Margaret Collins Weitz. Le linee a cui allude il titolo del romanzo, allora, non sarebbero più quelle lungo le quali si schierano due eserciti contrapposti, situazione in realtà mai rappresentata nel racconto di Calegari, ma quelle di genere, lungo e attraverso le quali si snoda la vicenda di Felicita.
2 In questo saggio, quando non è altrimenti indicato, mia è la responsabilità delle traduzioni in italiano.
3 Pensato in origine da Gilles Deleuze e Félix Guattari, il concetto di macchina da guerra ha conosciuto il meritorio aggiornamento di Maurizio Lazzarato: “’macchina da guerra’ significa…che la società è divisa, che le forze si oppongono le une alle altre, che questa divisione e queste forze si esprimono attraverso delle strategie di scontro che comprendono anche la tecnologia” (98).
4 Sulla renitenza alla leva come ragione iniziale della scelta partigiana si veda Behind the Lines: “La quasi totalità [dei partigiani insediati a Roveta/Cichero] era salita in montagna perché apparteneva ad una classe ‘richiamata,’ per sfuggire al militare dalla parte di Salò o perché qualche parente gli aveva detto ‘ti mando io in un posto sicuro’” (24).
Marco Codebo, Resistenza, territorialità, e genere in “Behind the Lines. La partita impossibile (1990-91)” di Manlio Calegari, Italian Quarterly, 2020

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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