Nell’autunno del 1943 ricevetti la cartolina di arruolamento nell’esercito della RSI. Proprio non mi andava di fare una guerra che si rivelava sempre più sbagliata.
Mi nascosi in una casa di amici di famiglia a Rocchetta Nervina dove incontrai il figlio del maestro Garibaldi, ufficiale dell’esercito con il quale andai a Carmo Langan ad arruolarmi nei partigiani.
Partecipai alla occupazione di Perinaldo dove sequestrai un … toro! La fame nel paese era tanta e di cavoli e rape ne avevo fin sopra ai capelli. Un fascista di Perinaldo possedeva un toro: glielo requisii. Fu macellato e diviso con la popolazione. Finalmente un po’ di carne per tutti!
La fame è il ricordo indelebile di quel periodo.
Un giorno stavamo cuocendo qualcosa, quando si sentì urlare: “Allarme! Allarme! I tedeschi!”.
Tutti scapparono e Gireu (n.d.r.: Pietro Girolamo Marcenaro, detto anche Girò) ordinò di salvare le armi; io salvai la pignatta che cuoceva sul fuoco!
Un giorno mi fu ordinato di sorvegliare la strada per Pigna perché dovevano scendere dei partigiani, forse perché accompagnavano ufficiali alleati. Mi lasciarono sul ponte del Nervia al bivio per Rocchetta Nervina con due pecore e due capre per fingermi pastore al pascolo (n.d.r.: dovrebbe trattarsi della fase finale di una missione alleata, definita Flap nel rapporto – all’epoca! – segreto del capitano Long; altri ufficiali – e ex-prigionieri – alleati rientrarono nelle linee attraverso le montagne; quelli che vide Bregliano via mare da Ventimiglia – sin lì accompagnati da Pierino Loi – condotti da Giulio “Corsaro” Pedretti; tutti gli alleati in questione videro – e rimasero ammirati per le gesta dei partigiani – la battaglia di Pigna – settembre 1944 – a difesa della neo-costituita repubblica partigiana, dalla breve – purtroppo! – durata, ma fulgida pagina di eroismo democratico e patriottico). Tutto andò bene, solo che alla sera le bestie non volevano saperne di ritornare al paese. Anche altre volte usai lo stesso stratagemma del pastore per visionare luoghi e sentieri e tracciare così percorsi alternativi per eludere i tanti posti di controllo fascisti.
Dopo quella avventura, Gireu mi disse che occorreva mandare partigiani dagli alleati nella Francia liberata per stabilire rapporti e trasportare armi per i garibaldini. Come? Di notte, con un gozzo, remando da Vallecrosia a Monaco.
I Lilò (n.d.r.: i fratelli Biancheri di Bordighera, vittime della furia nazi-fascista alla vigilia della Liberazione) avevano “agganciato” i bersaglieri (n.d.r.: vedere le vicende del sergente Bertelli), che erano passati dalla nostra parte. Fregammo una barca dal deposito sottostrada vicino alla Casa Valdese e la portammo al mare. Con molta circospezione e furtivamente mettemmo in acqua la barca che … affondò.
In attesa di poter fare qualcosa, la ancorammo sul fondo riempiendola di pietre per non farla portar via dalla corrente.
Intanto stava albeggiando e non potevo ritornare né in montagna né a casa, perché era in corso un vasto rastrellamento dei fascisti. Con Renzo “u Longu” (n.d.r.: Renzo Biancheri di Bordighera) ci nascondemmo nel macello a fianco della … caserma dei bersaglieri.
Passammo due giorni appollaiati e nascosti sulle travi del tetto tra le catene, le carrucole e i ganci.
Poi finalmente Girò e gli amici prepararono la barca e partimmo. Era dicembre (n.d.r.: del 1944) e tra i compagni di viaggio ricordo sicuramente Luciano Mannini (n.d.r.: nome di battaglia “Rosina”).
Remammo a turno e sbarcammo a Monaco Principato bagnati fradici, perché durante il viaggio aveva cominciato a piovere a dirotto. Appena arrivati fummo … arrestati dai francesi e portati al posto di polizia di fronte al porto. Ci aspettavano, era tutto pronto. Poco dopo arrivarono gli ufficiali inglesi, gentilissimi, che ci portarono a Nizza dove ci vestirono con divise inglesi e ci rifocillarono. Successivamente il maggiore Lamb (parlava italiano meglio di me e fumava come un turco) ci accompagnò al Petit Rocher, la villa sul mare nella baia di Villafranca.
Tre o quattro volte alla settimana ci conducevano oltre Nizza, a Gattières, per addestrarci all’uso degli esplosivi al plastico e alla esecuzione di sabotaggi. In mezzo agli ulivi avevano anche costruito un breve tratto di ferrovia per insegnarci a far saltare i binari.
Alla fine del corso ci avvisarono che alla prossima lezione avremmo dovuto presentare una sintesi, un rapporto di quello che avevamo imparato.
Avevo imparato, ma scrivere non è mai stato il mio forte. Con un panetto di plastico modellai un bel portacenere che colorai di bianco con della farina. La mattina dell’esame lo posi sul tavolo in bella mostra con cenere e 4 o 5 mozziconi di sigarette.
Fumando una sigaretta dietro l’altra Lamb cominciò a esaminare i lavori dei miei compagni, poi mi chiese dove era il mio lavoro. “L’ho già consegnato “. Il maggiore sfogliò i fogli alla ricerca del mio scritto. Si inalberò e mi chiese duramente dove era. Indicando il portacenere ormai colmo delle sue cicche, risposi che ce lo aveva proprio davanti.
“Ma questo è un portacenere!”
“Si! Però è fatto con esplosivo al plastico!”
Il self-control tipico degli inglesi non lo soccorse, scattò dalla sedia balzando all’indietro.
“My God! Potevamo esplodere tutti!”
“In questo caso, signor maggiore sarebbe stata colpa sua, perché lei ci ha insegnato che il plastico esplode solo se innescato con un detonatore e non per contatto con la semplice fiamma. “. Promosso a pieni voti!
Vicino a Le Petit Rocher c’era un’altra villa disabitata, Villa Iberia. Dalle finestre vedevamo il salone spoglio di ogni mobilio con solo un grande pianoforte a coda al centro.
Quasi tutti i giorni veniva un signore, secondo me era il Principe Ranieri di Monaco, se non era lui era ‘il suo sosia! Suonava per ore il pianoforte.
Il giardino era pieno di alberi di mandarino colmi di frutti. Un giorno gli chiesi se potevo prenderne un po’. Faceva finta di non capire. Glielo ripetei in dialetto “Te cunvegne dameli, senunca ti i fregu!” Capì e acconsentì.
Chiamai Girò e gli proposi di raccogliere qualche borsa di mandarini e andare a venderli al mercato di Nizza con la jeep che lui aveva a disposizione. Subito rifiutò in nome degli ideali, poi si convinse.
Guadagnammo dei bei soldi, che spendemmo nei bistrot di Villafranca.
Gli ufficiali inglesi erano divertiti della cosa, però non riuscivano a capire come gli alberi fossero spogli dei mandarini e le mine disseminate nella piantagione non fossero esplose.
Insieme agli altri miei compagni disinnescavamo le mine, lasciando i contenitori senza l’esplosivo, con il quale confezionavamo qualche piccola bomba che usavamo per… pescare.
Feci parecchi viaggi avanti ed indietro portando armi, radio, medicinali e altro materiale bellico.
Il motoscafo sul quale erano imbarcati due soldati inglesi si fermava a qualche centinaio di metri dalla riva, trasbordavamo il carico su canotti o piccole bettoline di legno, (queste ultime erano collegate al motoscafo con una lunga fune), raggiungevamo pagaiando la riva e scaricavamo sulla costa di Vallecrosia. Dopodiché dalla barca recuperavano le bettoline con la fune.
Imbarcammo anche soldati alleati scappati dai campi di prigionia che ci venivano affidati dai partigiani piemontesi. Ricordo un francese di colore che patì il mare in maniera incredibile. Pensai: “‘sto qui non l’ha ammazzato la guerra e muore dal mal di mare”.
Una volta che c’era da trasportare un carico di un cospicuo numero di casse, ci imbarcammo su un motoscafo più grosso, quasi un panfilo. Era più rumoroso dei soliti usati prima di allora; gli vennero adattati ai tubi di scarico due silenziatori grandi come angurie rendendo lo abbastanza silenzioso. Era però più lento e non sarebbe riuscito a sfuggire se fosse stato intercettato dalla flottiglia che pattugliava la costa italiana, come invece riuscivano a fare gli altri motoscafi che solitamente erano pilotati da Pedretti (n.d.r.: Giulio Pedretti di Ventimiglia, “Corsaro”).
Per fronteggiare l’eventualità di una intercettazione, fu sistemata a poppa una mitragliera pesante piazzata sul piedestallo sostenuto da due gambe di forza fissate al battello. Evidentemente il lavoro non fu collaudato, perché, appena preso il largo con i motori adeguatamente silenziati, la mitragliera cominciò a vibrare e sbattere sulla coperta del battello. Blan-Blen!Blen-Blan! I motori erano silenziosi, ma noi sembravamo un campanile che suonava le campane a festa accompagnato da un’orchestra di tamburi! C’era una sola cosa da fare; esaminai la mitragliera (l’addestramento a Gattières era servito a qualcosa!) e poi con fare concitato segnalai a Girò e ai due inglesi un punto della costa indicandolo con un dito.
“Laggiù! Guarda!”
Mentre loro scrutavano attentamente nel buio staccai la mitragliera dal piedistallo e la cacciai in mare.
Il concerto cessò. Uno dei soldati inglesi si arrabbiò non poco, minacciandomi di tutto.
Girò cercò di calmarlo. Di ritorno dalla missione, i soldati inglesi fecero rapporto e fui anche processato a Nizza davanti a una specie di corte marziale, composta da ufficiali inglesi e americani.
Quando descrissi loro l’accaduto scoppiarono quasi a ridere e mi assolsero.
Arrivammo salvi alla costa di Vallecrosia, dove sbarcammo tutte le casse che nelle notti successive, un po’ alla volta, portammo a Negi. Anche a me toccò il compito di fare la staffetta con Negi a portare e prendere; avanti e indietro.
Una delle ultime volte che fregammo una barca dal deposito vicino al ponte di Vallecrosia me la vidi proprio brutta.
Con Achille a altri, che adesso non ricordo, caricammo su un carretto la barca per portarla al solito posto nella villa di via S. Vincenzo. La spingemmo su per la salitella che si innesta sulla via Aurelia e svoltammo a destra. Dopo pochi metri, scorgemmo al di là del ponte tre soldati tedeschi, all’altezza del “carruggio” di via Maonaira.
Chi era con me fece in tempo a dileguarsi, io rimasi con le stanghe del carretto in mano.
Non potevo scappare e lasciare il carretto perché sarebbe scivolato all’indietro e avremmo combinato un disastro. Con il cuore in gola proseguii.
Avvicinandomi mi accorsi che i tedeschi stavano mangiando, anzi si stavano abbuffando di salame e formaggio. Erano anche un po’ bevuti, un po’ tanto. Intuii che avevano rubato tutto quel ben di Dio dal vicino magazzino del salumiere Giraudo.
Quando mi intimarono l’alt! chiedendomi spiegazioni per la barca, un po’ in dialetto, un po’ in italiano e tanto con le mani, con fare severo, li accusai di aver rubato salame e formaggio mentre per i civili non c’era niente, neanche la legna per accendere una stufa e che per scaldarci dovevamo usare il legname della barca.
I crucchi accusarono il colpo, come bambini sorpresi con le dita nella marmellata.
“Kamarade! Kamarade!” e mi lasciarono proseguire.
Belin! Avevo messo paura ai tedeschi!
Mi nascosi in una casa di amici di famiglia a Rocchetta Nervina dove incontrai il figlio del maestro Garibaldi, ufficiale dell’esercito con il quale andai a Carmo Langan ad arruolarmi nei partigiani.
Partecipai alla occupazione di Perinaldo dove sequestrai un … toro! La fame nel paese era tanta e di cavoli e rape ne avevo fin sopra ai capelli. Un fascista di Perinaldo possedeva un toro: glielo requisii. Fu macellato e diviso con la popolazione. Finalmente un po’ di carne per tutti!
La fame è il ricordo indelebile di quel periodo.
Un giorno stavamo cuocendo qualcosa, quando si sentì urlare: “Allarme! Allarme! I tedeschi!”.
Tutti scapparono e Gireu (n.d.r.: Pietro Girolamo Marcenaro, detto anche Girò) ordinò di salvare le armi; io salvai la pignatta che cuoceva sul fuoco!
Un giorno mi fu ordinato di sorvegliare la strada per Pigna perché dovevano scendere dei partigiani, forse perché accompagnavano ufficiali alleati. Mi lasciarono sul ponte del Nervia al bivio per Rocchetta Nervina con due pecore e due capre per fingermi pastore al pascolo (n.d.r.: dovrebbe trattarsi della fase finale di una missione alleata, definita Flap nel rapporto – all’epoca! – segreto del capitano Long; altri ufficiali – e ex-prigionieri – alleati rientrarono nelle linee attraverso le montagne; quelli che vide Bregliano via mare da Ventimiglia – sin lì accompagnati da Pierino Loi – condotti da Giulio “Corsaro” Pedretti; tutti gli alleati in questione videro – e rimasero ammirati per le gesta dei partigiani – la battaglia di Pigna – settembre 1944 – a difesa della neo-costituita repubblica partigiana, dalla breve – purtroppo! – durata, ma fulgida pagina di eroismo democratico e patriottico). Tutto andò bene, solo che alla sera le bestie non volevano saperne di ritornare al paese. Anche altre volte usai lo stesso stratagemma del pastore per visionare luoghi e sentieri e tracciare così percorsi alternativi per eludere i tanti posti di controllo fascisti.
Dopo quella avventura, Gireu mi disse che occorreva mandare partigiani dagli alleati nella Francia liberata per stabilire rapporti e trasportare armi per i garibaldini. Come? Di notte, con un gozzo, remando da Vallecrosia a Monaco.
I Lilò (n.d.r.: i fratelli Biancheri di Bordighera, vittime della furia nazi-fascista alla vigilia della Liberazione) avevano “agganciato” i bersaglieri (n.d.r.: vedere le vicende del sergente Bertelli), che erano passati dalla nostra parte. Fregammo una barca dal deposito sottostrada vicino alla Casa Valdese e la portammo al mare. Con molta circospezione e furtivamente mettemmo in acqua la barca che … affondò.
In attesa di poter fare qualcosa, la ancorammo sul fondo riempiendola di pietre per non farla portar via dalla corrente.
Intanto stava albeggiando e non potevo ritornare né in montagna né a casa, perché era in corso un vasto rastrellamento dei fascisti. Con Renzo “u Longu” (n.d.r.: Renzo Biancheri di Bordighera) ci nascondemmo nel macello a fianco della … caserma dei bersaglieri.
Passammo due giorni appollaiati e nascosti sulle travi del tetto tra le catene, le carrucole e i ganci.
Poi finalmente Girò e gli amici prepararono la barca e partimmo. Era dicembre (n.d.r.: del 1944) e tra i compagni di viaggio ricordo sicuramente Luciano Mannini (n.d.r.: nome di battaglia “Rosina”).
Remammo a turno e sbarcammo a Monaco Principato bagnati fradici, perché durante il viaggio aveva cominciato a piovere a dirotto. Appena arrivati fummo … arrestati dai francesi e portati al posto di polizia di fronte al porto. Ci aspettavano, era tutto pronto. Poco dopo arrivarono gli ufficiali inglesi, gentilissimi, che ci portarono a Nizza dove ci vestirono con divise inglesi e ci rifocillarono. Successivamente il maggiore Lamb (parlava italiano meglio di me e fumava come un turco) ci accompagnò al Petit Rocher, la villa sul mare nella baia di Villafranca.
Tre o quattro volte alla settimana ci conducevano oltre Nizza, a Gattières, per addestrarci all’uso degli esplosivi al plastico e alla esecuzione di sabotaggi. In mezzo agli ulivi avevano anche costruito un breve tratto di ferrovia per insegnarci a far saltare i binari.
Alla fine del corso ci avvisarono che alla prossima lezione avremmo dovuto presentare una sintesi, un rapporto di quello che avevamo imparato.
Avevo imparato, ma scrivere non è mai stato il mio forte. Con un panetto di plastico modellai un bel portacenere che colorai di bianco con della farina. La mattina dell’esame lo posi sul tavolo in bella mostra con cenere e 4 o 5 mozziconi di sigarette.
Fumando una sigaretta dietro l’altra Lamb cominciò a esaminare i lavori dei miei compagni, poi mi chiese dove era il mio lavoro. “L’ho già consegnato “. Il maggiore sfogliò i fogli alla ricerca del mio scritto. Si inalberò e mi chiese duramente dove era. Indicando il portacenere ormai colmo delle sue cicche, risposi che ce lo aveva proprio davanti.
“Ma questo è un portacenere!”
“Si! Però è fatto con esplosivo al plastico!”
Il self-control tipico degli inglesi non lo soccorse, scattò dalla sedia balzando all’indietro.
“My God! Potevamo esplodere tutti!”
“In questo caso, signor maggiore sarebbe stata colpa sua, perché lei ci ha insegnato che il plastico esplode solo se innescato con un detonatore e non per contatto con la semplice fiamma. “. Promosso a pieni voti!
Vicino a Le Petit Rocher c’era un’altra villa disabitata, Villa Iberia. Dalle finestre vedevamo il salone spoglio di ogni mobilio con solo un grande pianoforte a coda al centro.
Quasi tutti i giorni veniva un signore, secondo me era il Principe Ranieri di Monaco, se non era lui era ‘il suo sosia! Suonava per ore il pianoforte.
Il giardino era pieno di alberi di mandarino colmi di frutti. Un giorno gli chiesi se potevo prenderne un po’. Faceva finta di non capire. Glielo ripetei in dialetto “Te cunvegne dameli, senunca ti i fregu!” Capì e acconsentì.
Chiamai Girò e gli proposi di raccogliere qualche borsa di mandarini e andare a venderli al mercato di Nizza con la jeep che lui aveva a disposizione. Subito rifiutò in nome degli ideali, poi si convinse.
Guadagnammo dei bei soldi, che spendemmo nei bistrot di Villafranca.
Gli ufficiali inglesi erano divertiti della cosa, però non riuscivano a capire come gli alberi fossero spogli dei mandarini e le mine disseminate nella piantagione non fossero esplose.
Insieme agli altri miei compagni disinnescavamo le mine, lasciando i contenitori senza l’esplosivo, con il quale confezionavamo qualche piccola bomba che usavamo per… pescare.
Feci parecchi viaggi avanti ed indietro portando armi, radio, medicinali e altro materiale bellico.
Il motoscafo sul quale erano imbarcati due soldati inglesi si fermava a qualche centinaio di metri dalla riva, trasbordavamo il carico su canotti o piccole bettoline di legno, (queste ultime erano collegate al motoscafo con una lunga fune), raggiungevamo pagaiando la riva e scaricavamo sulla costa di Vallecrosia. Dopodiché dalla barca recuperavano le bettoline con la fune.
Imbarcammo anche soldati alleati scappati dai campi di prigionia che ci venivano affidati dai partigiani piemontesi. Ricordo un francese di colore che patì il mare in maniera incredibile. Pensai: “‘sto qui non l’ha ammazzato la guerra e muore dal mal di mare”.
Una volta che c’era da trasportare un carico di un cospicuo numero di casse, ci imbarcammo su un motoscafo più grosso, quasi un panfilo. Era più rumoroso dei soliti usati prima di allora; gli vennero adattati ai tubi di scarico due silenziatori grandi come angurie rendendo lo abbastanza silenzioso. Era però più lento e non sarebbe riuscito a sfuggire se fosse stato intercettato dalla flottiglia che pattugliava la costa italiana, come invece riuscivano a fare gli altri motoscafi che solitamente erano pilotati da Pedretti (n.d.r.: Giulio Pedretti di Ventimiglia, “Corsaro”).
Per fronteggiare l’eventualità di una intercettazione, fu sistemata a poppa una mitragliera pesante piazzata sul piedestallo sostenuto da due gambe di forza fissate al battello. Evidentemente il lavoro non fu collaudato, perché, appena preso il largo con i motori adeguatamente silenziati, la mitragliera cominciò a vibrare e sbattere sulla coperta del battello. Blan-Blen!Blen-Blan! I motori erano silenziosi, ma noi sembravamo un campanile che suonava le campane a festa accompagnato da un’orchestra di tamburi! C’era una sola cosa da fare; esaminai la mitragliera (l’addestramento a Gattières era servito a qualcosa!) e poi con fare concitato segnalai a Girò e ai due inglesi un punto della costa indicandolo con un dito.
“Laggiù! Guarda!”
Mentre loro scrutavano attentamente nel buio staccai la mitragliera dal piedistallo e la cacciai in mare.
Il concerto cessò. Uno dei soldati inglesi si arrabbiò non poco, minacciandomi di tutto.
Girò cercò di calmarlo. Di ritorno dalla missione, i soldati inglesi fecero rapporto e fui anche processato a Nizza davanti a una specie di corte marziale, composta da ufficiali inglesi e americani.
Quando descrissi loro l’accaduto scoppiarono quasi a ridere e mi assolsero.
Arrivammo salvi alla costa di Vallecrosia, dove sbarcammo tutte le casse che nelle notti successive, un po’ alla volta, portammo a Negi. Anche a me toccò il compito di fare la staffetta con Negi a portare e prendere; avanti e indietro.
Una delle ultime volte che fregammo una barca dal deposito vicino al ponte di Vallecrosia me la vidi proprio brutta.
Con Achille a altri, che adesso non ricordo, caricammo su un carretto la barca per portarla al solito posto nella villa di via S. Vincenzo. La spingemmo su per la salitella che si innesta sulla via Aurelia e svoltammo a destra. Dopo pochi metri, scorgemmo al di là del ponte tre soldati tedeschi, all’altezza del “carruggio” di via Maonaira.
Chi era con me fece in tempo a dileguarsi, io rimasi con le stanghe del carretto in mano.
Non potevo scappare e lasciare il carretto perché sarebbe scivolato all’indietro e avremmo combinato un disastro. Con il cuore in gola proseguii.
Avvicinandomi mi accorsi che i tedeschi stavano mangiando, anzi si stavano abbuffando di salame e formaggio. Erano anche un po’ bevuti, un po’ tanto. Intuii che avevano rubato tutto quel ben di Dio dal vicino magazzino del salumiere Giraudo.
Quando mi intimarono l’alt! chiedendomi spiegazioni per la barca, un po’ in dialetto, un po’ in italiano e tanto con le mani, con fare severo, li accusai di aver rubato salame e formaggio mentre per i civili non c’era niente, neanche la legna per accendere una stufa e che per scaldarci dovevamo usare il legname della barca.
I crucchi accusarono il colpo, come bambini sorpresi con le dita nella marmellata.
“Kamarade! Kamarade!” e mi lasciarono proseguire.
Belin! Avevo messo paura ai tedeschi!
racconto di Ampeglio “Elio” Bregliano, da “Gruppo Sbarchi Vallecrosia” di Giuseppe “Mac” Fiorucci