Il fenomeno dell’engagement era passato per l’esperienza del fascismo, della guerra e, per alcuni in prima persona, della Resistenza. L’esigenza sentita di un rinnovamento culturale da parte di molti intellettuali, inteso sia come distanziamento dal fascismo, sia come precisa area d’intervento e strumento di trasformazione democratica dell’Italia, aveva portato alcuni di essi nell’orbita di attrazione del Pci, il quale si presentava come il paladino della patria contro il fascismo, nonché come primo perseguitato dalla repressione mussoliniana. Alla fine della guerra il Pci poteva vantare l’appoggio di importanti personalità del mondo culturale e accademico – come Galvano Della Volpe, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Cesare Luporini, Delio Cantimori, Renato Guttuso, Salvatore Quasimodo, Natalino Sapegno, Concetto Marchesi, Italo Calvino, Sibilla Aleramo, Mario Mafai, Ludovico Geymonat, Antonio Banfi ed Elio Vittorini – che svolsero funzioni importanti in termini di prestigio e di influenza nel mondo della cultura italiana. Inizialmente, quindi, l’adesione degli intellettuali al Pci avvenne su base individuale e programmatica, piuttosto che di massa e ideologica.
Il lavoro fra gli intellettuali, i cui responsabili furono inizialmente Calandra e Salinari, era stato al centro del dibattito di una riunione che si era tenuta il 15 giugno 1945 presso la sede dell’Agit-prop, il cui Programma, stilato da Giolitti, fu presentato alla riunione di Segreteria del 23 giugno 1945. Il Programma si articolava in tre linee di azione: una al centro, una alla base del partito, e una diretta agli intellettuali non comunisti. La prima, al centro: il Centro di studi marxisti, pensato dalla Segreteria alla fine del 1944, la cui vita finora era stata «grama e fittizia», mancando ancora di una sede e di una biblioteca, doveva diventare lo strumento di coordinamento centrale del partito per il lavoro in direzione degli intellettuali, insieme ai Gruppi Rinascita. Il Centro di studi marxisti, gestito da un Comitato direttivo stabile, avrebbe dovuto impostare il lavoro tra gli intellettuali e individuare i responsabili politici per ogni questione, organizzare corsi di cultura marxista d’impostazione “universitaria”, destinati alla formazione di quadri intellettuali, «che spesso – rilevava Giolitti – hanno soltanto una infarinatura di marxismo», e iniziare una «critica approfondita di tutta la produzione culturale del ventennio fascista». Il comitato direttivo, inoltre, si sarebbe dovuto occupare dell’organizzazione di riunioni periodiche con i responsabili della stampa comunista, dei Gruppi Rinascita e delle associazioni intellettuali, in modo che «tutti questi compagni si sentano diretti, incoraggiati e controllati dal centro». Il lavoro alla base del partito si rivolgeva a «tutti gli intellettuali in senso lato, cioè a tutte quelle categorie la cui attività professionale comporta, sia pure marginalmente, un interesse ideologico e culturale». Il Programma prevedeva per loro l’organizzazione di iniziative culturali presso le organizzazioni sindacali e, coadiuvate dall’aiuto delle sezioni agraria ed economica del Pci.
Elisa Rogante, «Un libro per ogni compagno». Case editrici e politiche per la lettura del partito comunista italiano (1944-1956), Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2015
Sebbene non fosse ancora delineata una direttiva univoca in materia culturale e il controllo del partito si facesse più serrato solo a partire dal 1946, anno in cui fu avviato un importante dibattito sui margini di autonomia intellettuale, conclusosi definitivamente solo nel 1951 con l’uscita di Vittorini dal partito, in via generale, la cultura e l’arte avrebbero dovuto muoversi verso il recupero di una tradizione popolare e nazionale, abbandonando ogni evasione di tipo intimistico e ogni forma di manierismo, ermetismo, virtuosismo, astrattismo <185. Aveva spiegato Renato Guttuso su “Vie nuove” del luglio 1949: «Dateci innanzitutto opere chiare, perché nelle vostre opere noi non possiamo riconoscerci in quanto non le comprendiamo. […] Siete voi, compagni artisti, che dovete sapere se ci sono delle conquiste o dei valori positivi in questo mare di ricerche dalle quali noi popolo, noi uomini semplici, siamo stati esclusi, e in tal caso salvate questi valori e metteteli al servizio degli obiettivi che vi abbiamo dato» <186.
[NOTE]
185 Renato Guttuso, “Che cosa vogliamo dalla pittura?”, Vie nuove, IV, 30 (24 luglio 1949).
186 Renato Guttuso, “Che cosa vogliamo dalla pittura?”, Vie nuove, IV, 30 (24 luglio 1949).
Giulia Bassi, Parole che mobilitano. Il concetto di ‘popolo’ tra storia politica e semantica storica nel partito comunista italiano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2015/2016
Soffermiamoci ora su tre disegni satirici di Renato Guttuso. Il rapporto tra il pittore e il PCI si situava nell’ambito del progetto comunista di radicare il partito nelle tradizioni storiche e culturali italiane, di imprimere la propria impronta sulla cultura italiana e di controbattere la diffusione della cultura americana nella letteratura e nel cinema. <497 Per realizzare questo obiettivo il PCI dal 1947 aveva predisposto degli organi appositi, come una sezione per gli intellettuali all’interno degli organi dirigenti del partito, e dal VI congresso una commissione culturale diretta da Emilio Sereni. Per Sereni bisognava difendere il carattere nazionale della cultura, che era minacciato dal cosmopolitismo culturale americano. Inoltre il PCI recependo pedissequamente le direttive ždanoviane contrastava l’arte e la letteratura considerata borghese e decadente e premeva perché gli artisti vicini al mondo comunista si dedicassero ad un’estetica realistica, figurativa, che celebrasse le lotte contadine e operaie. <498
Il realismo era peraltro un indirizzo che già molti artisti avevano percorso sin dagli ultimi anni della guerra: dal 1947 infatti, il critico d’arte nonché membro della Commissione Centrale di organizzazione Antonello Trombadori coniò il concetto di «realismo nuovo» presentandone Renato Guttuso come uno dei maggiori esponenti, <499 per quanto lo sviluppo successivo dell’opera del pittore fosse difficilmente catalogabile sotto questa definizione.
I disegni che stiamo per vedere fanno parte di un ciclo di vignette satiriche in cui Guttuso si scaglia contro l’oscurantismo, che per lui era rappresentato dalla DC e da De Gasperi in particolare. La stampa comunista in generale, non solo «l’Unità» si dedicava spesso alla derisione caricaturale dell’avversario politico, nel corso delle prime campagne elettorali del dopoguerra e durante gli anni Cinquanta. <500
I primi due disegni sono stati pubblicati su «l’Unità» del 3 giugno e del 23 aprile; il terzo si trova nell’archivio fotografico digitale de «l’Unità». Il primo di essi celebra il secondo anniversario della proclamazione della Repubblica e si chiama per l’appunto “Due giugno 1948”: <501 (fig. 2) in esso appare ben in vista una donna, probabilmente personificazione dell’Italia. La donna è minacciata da due cobra recanti sulla testa lo scudo crociato, simbolo della Democrazia Cristiana e si appoggia su un grande martello che incrociandosi con una grossa falce forma il simbolo del PCI e fa da sfondo a tutto il disegno. La donna indossa una veste lunga leggermente aperta sulla spalle, che ne mette in risalto le forme. L’iconografia rimanda alla classica personificazione della nazione, tipica del nazional-patriottismo dei vari paesi europei. <502 Il suo atteggiamento sembra difensivo ma non impaurito: lo sguardo è puntato con decisione sui due serpenti: l’uno striscia a terra, l’altro si erge contro di lei. Dalle sue movenze non traspare terrore ma consapevolezza del pericolo. Il suo timore è controllato probabilmente per la presenza di tre figure che sono poste in secondo piano, ma ben in vista sulla destra del riquadro: uno con un martello, un altro con una vanga e un terzo nell’atto di compilare un grosso quaderno: i primi due potrebbero rappresentare i lavoratori, mentre il terzo i ceti medi, o gli intellettuali o i dirigenti del partito. I cobra con lo scudo crociato sulla testa simboleggiano la DC; la donna potrebbe essere la personificazione della nazione e più che alla mater dolorosa o all’Italia piangente, può ricordare il dipinto di Eugène Delacroix “La Grecia sulle rovine di Missolungi” del 1826: l’immagine femminile è, in entrambi i casi «esposta e desiderabile» <503, però mentre nel caso del dipinto del pittore francese la donna/allegoria è ormai sul punto di essere denudata, esposta all’aggressione del guerriero moro, nel nostro caso la donna è sì esposta alle serpi, ma ben difesa dalle tre salde figure maschili, simboleggianti i lavoratori e i ceti medi: questi ultimi, uniti, votando per la Repubblica, hanno salvato l’Italia dalla minaccia delle forze reazionarie e dal pericolo di guerra civile.
Il secondo disegno (fig. 3) s’intitola “Alcide a cavallo, sepoltura aperta”. <504 Un De Gasperi vestito in abito talare cavalca un destriero il cui busto e le cui zampe sono fasci littori; la testa è una corona; il posteriore è il simbolo del PSLI; la coda è fatta di spighe di grano penzolanti da un barattolo rovesciato; infine ben in evidenza c’è anche l’edera, simbolo del PRI. De Gasperi con un frustino sta conducendo una donna entro un sepolcro aperto. La donna cammina con un tono dimesso e abbattuto e sulle spalle reca la scritta R.I., per esplicitare la personificazione. Sullo sfondo un ambiente di rovine, simboleggiante forse la condizione in cui la DC sta lasciando l’Italia. Per un lettore coevo la lettura è probabilmente immediata: sullo sfondo di un’Italia ridotta in macerie dalla guerra De Gasperi e il suo governo, portato a cavallo dai fascisti, dai monarchici, dai repubblicani e dai socialdemocratici, sta conducendo la Repubblica Italiana alla morte.
Proviamo a confrontare questi disegni con un altro dello stesso Guttuso (Fig. 4) che celebra la vittoria dell’opzione repubblicana al referendum del 1946: <505 al centro una donna in piedi trionfante, con i capelli e la veste sventolante, personificazione della Repubblica: ai suoi piedi un trono con lo stemma sabaudo e una corona riversati a terra. La donna tiene per mano una bambina e alle sue spalle sono raffigurati tre personaggi festanti: un uomo vestito presumibilmente da operaio sventola una bandiera recante la scritta «Repubblica italiana»; una donna giubilante che innalza un neonato, forse simboleggiante il futuro della Repubblica. Il nesso intertestuale più immediato è di nuovo ad un dipinto di Delacroix, il celebre “La libertà che guida il popolo”, del 1830. <506
[NOTE]
497 S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, cit., pp. 117-124; Cfr. anche G. Gozzini, R. Martinelli, Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, cit., pp. 481-483.
498 Cfr. M. Flores, Il PCI, il PCF e gli intellettuali. 1953-1960, cit., p. 115.
499 Cfr. N. Miesler, La via italiana al realismo. La politica culturale artistica del P.C.I. Dal 1944 al 1956, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1976, p. 31. Guttuso e Leoncillo facevano entrambi parte del «Fronte Nuovo delle Arti». Cfr. Ibid., pp. 151-152.
500 Cfr. L. Goretti, Truman’s bombs and De Gasperi hooked-nose: images of the enemy in the Communist press for young people after 18 april 1948, in «Modern Italy», 2011, 16, 2.
501 In «l’Unità», 3 giugno 1948. Cfr. anche F.C. Guttuso, D.F. Lo Cascio (a cura di), Renato Guttuso. Dal Fronte Nuovo all’Autobiografia 1946-1966, Eugenio Maria Falcone Editore, Roma 2003: in questo testo all’opera si attribuisce un titolo diverso: Il voto del 18 aprile 1948.
502 A. M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo ala Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005, pp. 3-32.
503 Ibid, p. 263.
504 In «l’Unità», 23 aprile 1948.
505 http://archiviofoto.unita.it/index.php?valorernd=2&pagina=53&codset=CUL&cod=395&pg=4#foto_33
506 I riferimenti a Delacroix non sono nuovi nell’opera di Guttuso. Cfr. L. Pucci, “Terra Italia”: The Peasant Subject as Site of National and Socialist Identities. The Work of Renato Guttuso and Giuseppe De Santis, «Jorunal of the Warburg and Courtauld Institutes», 2008, 71, pp. 218-219.
Luca Ciampi, Il Partito Comunista Italiano, la patria, la nazione. Studio de “l’Unità” del 1948, Tesi di laurea, Università di Pisa, 2014
Corpora a corredo del suo articolo pubblica una delle opere esposte in mostra, il “Nudo” di Maurice Gruber, un giovane artista “neorealista”.
La pittura espressiva e l’uso di toni molto accesi, deve avere influenzato anche un altro pittore romano d’adozione, il suo compagno di studio Renato Guttuso <263. Il nudo femminile di Gruber è vicinissimo agli stessi esempi di Guttuso dei primi anni Cinquanta.
263 Antonio Corpora nel 1945 è profugo a Roma e Guttuso gli offre il suo studio, lavorando fianco a fianco. Corpora, a cura di Augusta Monferini, Mondadori-De Luca, Roma 1987, p. 132.
Vittorio Pajusco, Archivi per la storia dell’arte contemporanea: il caso di Silvio Branzi, Tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari Venezia, 2017
Nella piana di Ponte dell’Ammiraglio, in Sicilia, nei pressi di Palermo (il cui ampio golfo fa da sfondo al dipinto), ecco irrompere in tutta la sua fierezza, camicia rossa, poncho al collo e spada sguainata, a cavallo di un nero destriero, Giuseppe Garibaldi, al comando di uno scelto drappello di impavidi soldati.
L’episodio di storia risorgimentale è programmaticamente scelto da Guttuso quale paradigmatico esempio di quegli ideali di lotta e di libertà che, durante la Seconda Guerra Mondiale, avevano guidato la Resistenza partigiana e condotto infine alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista. L’attualità della battaglia risorgimentale è enfatizzata dai volti di alcuni dei soldati, ritratti da Guttuso con le fattezze di compagni di vita e di lotta partigiana. Inoltre l’artista si autoritrae sia nel contadino riverso in primo piano, in basso a sinistra, che nel garibaldino con sciabola sguainata in piedi sulla destra del dipinto. “Pensai di riproporre il quadro storico attraverso un legame con la contemporaneità. Alla Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio aveva partecipato mio nonno e io avevo udito i racconti di mio padre” dichiara il pittore nel 1982. Studi puntuali della pittura del Rinascimento si fondono con il più alto Romanticismo francese (da Delacroix a Géricault), senza dimenticare, ovviamente, l’alto riferimento alla recente Guernica picassiana; il risultato è un capolavoro nel quale autobiografia e piena partecipazione a un momento storico che impone difficili scelte politiche si coniugano in uno stile enfatico e diretto, quello del Realismo sociale.
Preparata da un ricco gruppo di disegni, studi preparatori e bozzetti, l’opera è infine presentata alla Biennale di Venezia del 1952, dove suscita polemiche e critiche feroci da più parti. Ne seguirà una seconda versione, realizzata nel 1955 per l’Istituto Studi Comunisti Palmiro Togliatti, oggi in collezione della Galleria Nazionale di Roma. La prima versione è acquistata nel 2004 dalle Gallerie degli Uffizi, quale “vero e proprio pendant espressivo e ideologico, oltre che dimensionale, della Battaglia di Cagli” (Natali 2005). Le due Battaglie sono esposte, in scenografico e significativo confronto, negli ambienti di San Pier Scheraggio all’interno degli Uffizi.
Redazione, Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, Renato Guttuso, Le Gallerie degli Uffizi
Uscito nel 1942 in ben 3.600 copie, al prezzo di 200 lire, con le sue 150 tavole interamente a colori il volume “Pittori italiani contemporanei” di Giani <232 – ambizioso tentativo di definire un canone degli svolgimenti figurativi attuali, come diremo – può essere considerato una sorta di incunabolo di un nuovo corso dell’editoria d’arte. La stessa elevata tiratura si riscontra, solo molti anni dopo, in una monografia d’artista come quella di Renato Guttuso presentato da Elio Vittorini, pubblicata nel 1960 nell’omonima collana “Pittori italiani contemporanei” delle Edizioni del Milione <233.
[…] Va infine citata in questa sede la vicenda dei “Quaderni Rossi”, sotto cui risulta pubblicato un piccolo volumetto sui disegni di Guido Fiume uscito nel 1943 “per conto di Ernesto Treccani” <317, numero uno di una collezione mai avviata in cui l’impegno per l’arte si innesta su quello per la politica. Basterà citare, a questo proposito, la testimonianza dello stesso Treccani, che in “Arte per amore” afferma: “Nel marzo 1943 ho conosciuto Vedova a Milano. Le nostre idee si sono subito incontrate. Abbiamo passato dei giorni di belle discussioni con Morlotti, Morosini, De Grada e De Micheli. Abbiamo telegrafato a Guttuso e a Cassinari perché ci raggiungessero. Alla fine abbiamo raccolto le nostre idee in un manifesto [“Manifesto di pittori e scrittori 1943”] da pubblicarsi nei ‘Quaderni rossi’ (già pronti: disegni di Guido Fiume – disegni di Emilio Vedova) come premessa a un piano di vita in comune (fondi in comune, impegno a un controllo reciproco, mostre e pubblicazioni stabilite all’unanimità eccetera). L’arresto di Raf [Raffaele De Grada] e le difficoltà materiali del momento hanno rimandato i nostri progetti” <318.
[…] Il primo progetto consacrato a una raccolta privata di cui si ha traccia nella mappatura è però l’edizione fuori commercio “Otto Pittori Contemporanei”, pubblicata nel 1940 a cura di Giampiero Giani <538. Gli otto pittori del titolo sono Campigli, Carrà, Cesetti, De Chirico, Morandi, Soffici, Tomea e Tosi: artisti della collezione Marmont di cui sono riprodotte le opere, presentati per l’occasione dalla prosa visionaria di Raffaele Carrieri. La materia artistica si suddivide nella parte di testo e in quella delle tavole, queste ultime stampate a colori su carta patinata, con cliché Alfieri & Lacroix e inchiostri della Ditta Huber <539, e applicate alle grandi pagine formato in folio raccolte in una sofisticata cartella portefeuille, su modello francese <540. Ad un confronto comparativo, il riferimento diretto sembra essere costituito dai volumi della collana Skira “Les trésors de la peinture française”, non solo per l’impiego delle quadricromie a vignette collée o per il formato ma in relazione all’intera veste grafica del libro che appare identica <541.
Renato Guttuso recensisce con acribia l’edizione su “Primato” apprezzandone la “grande eleganza tipografica” e rilevando “l’assoluto progresso in senso tecnico” delle riproduzioni a colori – “quasi tutte ottime” – “sulle altre poche che s’eran viste fin’ora” <542. Se del criterio di scelta dei dipinti scrive: “mi sembra riguardo ai nomi più certi […] tanto giusto da essere persino ovvio; la pubblicazione dunque documenta ottimamente oltre a esser valido atto di amore del collezionista milanese per i suoi pittori”, provocatorio e non meno interessante è il giudizio sul testo firmato da Carrieri: “Alle favolette che accompagnano le tavole a colori e introducono con la creazione di un’atmosfera analoga, al mondo dei pittori presentati, Carrieri ha voluto e saputo dare un tono mitico che procede per allusioni, immagini e traslati fantastici, in una concezione della critica d’arte in sé, come poesia dedicata a un pittore, occasionata da quel pittore. Tuttavia spesso Carrieri se ne va per conto suo quasi trascurando il movente. […] Più precisamente diremo che codesta simbologia pecca di contenuto, della volontà anzi di sostituire un contenuto ad un altro. Il che d’altronde è difetto di molta critica surrealista (espressione quest’ultima piuttosto contraddittoria)” <543.
[…] I titoli registrati nella mappatura sono “12 opere di Raffaele De Grada” (1942), “12 opere di Piero Marussig” (1942) e “12 tempere di Mario Sironi” (1943) <715, ma la collezione continua con fortuna, come accennato, sino al 1960, quando viene inaugurata una seconda serie, la cui prima uscita è “Storia di Renato Guttuso. Nota compiuta sulla pittura contemporanea”, a cura di Elio Vittorini <716. Estranea alle ambizioni dei cantieri editoriali contestualmente promossi dalla Conchiglia e da Garzanti, e tuttavia attenta alla raffinatezza del prodotto stampato e alla qualità delle fotoriproduzioni, quella dei “Pittori italiani contemporanei” si presenta come la collana più prossima al concetto di divulgazione dell’arte contemporanea già esemplarmente incarnato, all’inizio del decennio, dall’attività di Giovanni Scheiwiller, ora inseguita dal Milione all’insegna del colore e di rinnovate forme editoriali aderenti alla nuova sensibilità del tempo.
[NOTE]
232 Pittori italiani contemporanei, a c. di G. Giani, Milano, Edizioni della Conchiglia, 1942.
233 E. Vittorini, Storia di Renato Guttuso. Nota compiuta sulla pittura contemporanea, “Pittori Italiani Contemporanei”, serie II, n. 1, Milano, Edizioni del Milione, 1960. Questa monografia inaugura la seconda serie della fortunata collana del Milione avviata nel 1942, su cui torneremo nel prossimo capitolo.
317 Cfr. il colophon in Disegni di Guido Fiume, presentazione di E. Treccani, “Quaderni rossi”, n. 1, Milano, Quaderni rossi, 1943, cfr. la scheda della pubblicazione in appendice. I Quaderni rossi non sono menzionati nel più volte citato repertorio Editori a Milano (1900-1945).
318 E. Treccani, Arte per amore. Scritti e pagine di diario, prefazione di V. Sereni, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 33. È stato censito solo il citato volume dei Disegni di Guido Fiume.
538 Otto pittori italiani contemporanei, testo di R. Carrieri, Milano, (Stabilimento Grafico SA), 1940. Cfr. la scheda della pubblicazione in appendice.
539 Ivi, colophon.
540 Questo formato, che contraddistingue le edizioni di pregio, è peculiare dell’editoria d’arte di area francese. Si pensi, su tutte, alla produzione di Kahnweiler, di Jeanne Bucher o di Albert Morancé, guardato anche dall’italiano a Parigi Gualtieri di San Lazzaro, e più tardi di Albert Skira. Un esauriente repertorio sull’editoria d’arte francese coeva è C. Schvalberg, La critique d’art a Paris, 1890-1969. Chronologie/bibliographie, cit.
541 La tecnica della vignette collée ovvero della tavola rimontata è una delle cifre della produzione editoriale di Skira. Cfr. Skira 1928-2008. Storie e immagini di una casa editrice, a c. di A. Kerbaker, Milano, Skira, 2008.
542 R.G. [Renato Guttuso], Otto pittori contemporanei, “Primato”, I (14), 15 settembre 1940, p. 21.
543 Ibidem.
715 12 opere di Raffaele De Grada, presentazione di G.B. Angioletti, “Pittori italiani contemporanei”, Milano, Edizioni del Milione, 1942; 12 opere di Piero Marussig, presentazione di R. Carrieri, “Pittori italiani contemporanei”, Milano, Edizioni del Milione, 1942; e 12 tempere di Mario Sironi, presentazione di M. Bontempelli, “Pittori italiani contemporanei”, Milano, Edizioni del Milione, 1943. Cfr. le schede delle pubblicazioni e l’elenco dei titoli della collana in appendice.
716 E. Vittorini, Storia di Renato Guttuso. Nota compiuta sulla pittura contemporanea, “Pittori Italiani Contemporanei”, serie II, n. 1, Milano, Edizioni del Milione, 1960.
Viviana Pozzoli, Il sistema dell’editoria d’arte contemporanea nella Milano degli anni trenta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2015/2016
Negli anni Cinquanta il realismo di Renato Guttuso raggiunge il momento di maggiore maturità, attraverso un intenso e fruttuoso percorso di crescita che porta il pittore anche a diversi ripensamenti su avvenimenti passati e ad aperture su possibilità future. Chiaramente la peculiarità di tale pittura rimane sempre invariata: la ricerca di dialogo, di comunicazione con il popolo resta l’obiettivo primario della poetica realista guttusiana e quindi come tale non sarà sottoposta a mutamenti di alcun genere. Cambierà invece, di pari passo con la consapevolezza e con la meditazione artistica del pittore, la modalità espressiva e anche, parzialmente, l’iconografia privilegiata nello studio della realtà. Inizialmente si è ritenuto fosse utile inquadrare l’operato dell’artista siciliano all’interno del contesto sociale, politico e culturale del nostro Paese alla metà del secolo, caratterizzato da un notevole dinamismo. Infatti l’arte di Guttuso, essendo profondamente legata e radicata a tale cornice storica, può essere considerata una pittura a carattere “sociale” e per questa ragione non è ipotizzabile un’analisi attenta dell’opera, e conseguentemente della critica a cui essa è sottoposta, astraendola dalla realtà da cui trae direttamente ispirazione.
La metà del secolo, infatti, ha una sua precisa identità all’interno della storia italiana, un’identità di rigenerazione e di rinascita. Sono gli anni che seguono la fine della seconda Guerra Mondiale, con le sciagure da essa portate; è il periodo in cui l’Italia decide di concedersi un nuovo inizio nelle vesti di repubblica, e in cui si cominciano ad intravedere i primi bagliori di quel benessere dovuto ad una prima effettiva industrializzazione del Paese, il cosiddetto “boom economico”. È anche un momento di violente lotte sociali, sintomo dell’emancipazione delle classi popolari più disagiate nei confronti di una classe dirigente conservatrice e disinteressata, che muove i primi passi con l’introduzione degli ideali marxisti-comunisti in Italia.
In seguito alla sua esperienza di vita e alle posizioni politiche assunte, Guttuso abbraccia sia sentimentalmente che attivamente la causa del nascente revanscismo popolare. Proprio per questa volontà di avvicinamento culturale al popolo, si è rilevato come l’artista siciliano sia stato riconosciuto dalla critica, quasi all’unanimità, come un eccellente esempio di artista nazional-popolare, secondo la connotazione che tale concezione assume all’interno della riflessione gramsciana sulla posizione e l’estrazione dell’intellettuale in relazione alla società italiana.
Guttuso viene quindi individuato da gran parte degli studiosi come esempio di artista nostrano il quale, contrariamente alla generale tendenza della nostra cultura nazionale distaccata dal sapere popolare, riesce a coniugare la qualità contenutistica con la facile accessibilità ed immediatezza per fruitori di ogni estrazione. La critica non è apparsa, però, concordemente favorevole rispetto a tale possibilità: se da un lato gli studiosi più scettici si annoverano tra i redattori di riviste come «Immagine», dall’altro c’è una gran parte di critica, composta, chiaramente, anche da intellettuali militanti, che sostiene fortemente la prospettiva di una cultura nazional-popolare.
[…] Se l’iconografia di questo momento pittorico riguarda quelle che sono le tematiche scottanti della realtà italiana, e quindi i temi principali sono legati al mondo dei lavoratori, in seguito l’attenzione di Guttuso si trasferisce su dinamiche sociali di più recente formazione.
In quella che si è considerata come la seconda fase della poetica realista guttusiana (1953-1957), si passa dalla rappresentazione del disagio contadino all’accettazione dello scenario urbano come luogo del nostro presente, con un cambiamento dei soggetti, ma sempre in un rapporto di interazione con il popolo. Dunque gli intenti e gli scopi della pittura di Guttuso rimangono immutati, ma cambia evidentemente il mezzo con cui vengono perseguiti. Per la prima volta si avverte nella poetica dell’artista un reale interesse per nuovi aspetti della contemporaneità, relativi al loisir e al piacere di massa di una società profondamente cambiata dal dopoguerra in poi, mostrando tutta la sua versatilità ed elasticità tematica.
La valutazione di tale condizione tipica del nostro tempo si apprezza completamente nelle opere concepite dal 1953 in poi (in particolare in “Boogiewoogie” e ne “La spiaggia”), quando Guttuso inizia a porsi nuovi interrogativi, si apre a
interessi più complessi, che vanno al di là dell’immediatezza polemica degli anni passati, all’interno di una prospettiva che adesso pone al centro l’uomo e la sua esistenza. Questi caratteri saranno ancora più evidenti in un momento successivo della pittura di Guttuso, quello che percorre gli ultimi anni Cinquanta e i primissimi Sessanta, denominato da Crispolti “realismo esistenziale” proprio per la sua attitudine nell’indagare i vari momenti dell’esistenza umana. Si è individuato quest’ultima forma di realismo come terza ed ultima fase della poetica degli anni Cinquanta (1957-1960) in cui la totale apertura guttusiana a nuove possibilità artistiche e un generale ripensamento riguardo alle scelte fatte precedentemente, portano l’artista ad una condizione di solitudine meditativa. La nuova posizione di Guttuso nei confronti delle diverse soluzioni formali, è una posizione completamente possibilista, nel senso che non vuole escludere a priori nessun elemento formale, purché questo possa contribuire alla resa della realtà. Una posizione di questo genere risulta assolutamente innovativa nella ricerca dell’artista, da sempre avverso a certe espressioni formali, ma si pone nell’ottica della necessità di un ammodernamento della cultura realista italiana, a cui l’artista contribuisce profondamente.
In questo nuovo periodo, dunque, l’attenzione si sposta su altre tensioni, su altre “lotte”, che sono quelle dell’individuo che combatte per il mantenimento del proprio ruolo, della propria personalità nel tentativo di contrastare una società che tende invece ad omologarlo. La standardizzazione che l’uomo è tenuto ad affrontare in questi anni, con la necessaria solitudine che ne consegue e che Guttuso ben conosce, è la nuova, scottante questione emergente dall’osservazione della realtà.
Anche in questo caso, in relazione ai cambiamenti pittorici, si sono evidenziati i vari giudizi espressi e si è rilevato che quella critica maggiormente attenta ai valori formali, di cui fa parte Brandi ad esempio, si mostra piacevolmente sorpresa ed apprezza l’apertura intervenuta nelle tematiche dell’artista siciliano. Invece, quegli studiosi che sostengono l’opera realista di Guttuso dei primi anni Cinquanta, di fronte a questa svolta si sforzano di smorzare o addirittura di negare la portata del cambiamento avvenuto, nonostante questo appaia abbastanza lampante: questa è di fatto la reazione di critici come Del Guercio, Trombadori e Venturoli, che temono un ripudio delle battaglie precedentemente condotte, mentre lo stesso Guttuso spiega che non si tratta affatto di un retrocedere, un abbandonare le posizioni di lotta sempre tenute, ma è al contrario solo un’apertura in grado di migliorare e rivitalizzare quelle
conquiste ormai appurate.
Lisa Fiaschi, La critica sulla “poetica realista” di Renato Guttuso negli anni Cinquanta, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, 2005
Fra gli artisti provenienti dal movimento «Corrente», La Cava sceglie di soffermarsi sugli esiti più arditi e polemici del realismo sociale di Migneco e di Guttuso, quest’ultimo ‘letto’ al lume dell’influsso esercitato sull’artista siciliano dalla tensione drammatica dell’arte di Goya. Le tele di Guttuso permettono a La Cava di riflettere su una variante significativa del realismo figurativo della seconda metà del Novecento, volta alla rappresentazione degli orrori della guerra. Di Marini, fra i più acclamati artisti espositori dell’edizione della Biennale del 1952, lo scrittore individua i tre soggetti principali che nel corso della sua lunga carriera saranno rivisitati dall’artista toscano in numerosissime varianti: le Pomone «dall’enorme ventre cascante» <273, i ritratti, «profondi e suggestivi» come i bronzi di Strawinski e di Ignoto, e il monumento equestre che lo scultore libera dalle tradizionali implicazioni celebrative, trasformandolo in una riflessione sulla storia dell’umanità e sul rapporto, ora armonioso, ora tragico e violento, dell’uomo con la natura.
273 M. La Cava, Lettere da Venezia III-IV cit., p. 47.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l’opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013
“Il quadro è una sintesi di elementi oggettivi, definibili, di cose e persone: una grande natura morta con in mezzo un cunicolo entro cui la gente scorre e si incontra. E vuole essere soprattutto, un segno di gratitudine, a livello delle mie forze, per il grande debito che ho nei confronti della mia città.” Renato Guttuso
Renato Guttuso dipinge La Vucciria tra il primo ottobre e il 6 novembre 1974. All’epoca Guttuso ha 63 anni, vive a Velate e ha bisogno di tener viva la memoria di quel ben di Dio esposto al mercato. Ma gran parte della merce non poteva essere reperita nei mercati lombardi: veniva così incaricato il fido custode Isidoro di caricare la “robba” sul primo aereo per Milano e da Malpensa, viene poi fatta giungere subito in studio. Storie, ricordi di Fabio Carapezza Guttuso: “ma La Vucciria sembra veramente nata tra vicoli e cassette grondanti, su un particolare fondo nero da cui balzano fuori le immagini”.
È una grande tela quadrata, 3metri x 3metri, la cui visuale si sviluppa in verticale e alterna l’attenzione dei diversi punti focali ora sui personaggi, ora sulla merce ordinatissima, ora su particolari messi in evidenza. Nella parte alta predominano i rossi e gli arancioni della carne, degli insaccati e della frutta esposta all’interno delle cassette. Nella parte centrale e in quella inferiore, i colori divengono più chiari; a sinistra dominano bianchi, grigi e azzurri del pesce pescato, a destra il verde chiaro e il giallo degli ortaggi, mentre il bianco delle uova richiama l’abito della donna.
La Vucciria è di certo la tela di Palermo, adottata dalla città sin dalla sua nascita, scatenando una guerra tra istituzioni per il suo acquisto, con lettere infuocate tra il Comune e la Regione. Ma fu lo stesso Renato Guttuso a decidere che sarebbe andata all’Università ed esposta allo Steri.
Redazione, “Vucciria” di Renato Guttuso, Università degli Studi di Palermo
«Ho conosciuto benissimo Renato Guttuso: e posso dirlo non solo per i frequenti incontri, la lunga confidenza, la simpatia e l’affetto che avevo per lui, ma anche – e soprattutto – perché il nostro essere d’accordo nel giudicare persone, fatti e libri nella loro immediata verità, se appena tentavamo di risalire ai principi, diventava fondamentale e profonda discordia».
Più che mai simili in moltissimi contenuti, come l’attaccamento alla loro terra, l’interesse per una giustizia sociale, il rinnovamento di istituzioni superate. Personalmente non potevano essere più diversi: Sciascia illuminista, costante seguace del filo della ragione, uomo riservato; Guttuso esuberante, di temperamento passionale a volte volubile, perennemente in crisi, in cerca di compagnia, amici, amiche, movimento.
Sciascia non amava distaccarsi per periodi molto lunghi dalla Sicilia, mentre Guttuso trascorreva lunghi periodi lontano dalla sua terra, ma non se ne distacca mai emotivamente: quasi tutta la sua pittura ritorna alle vedute marine, ai ritratti, alle nature morte che sono radicati in Sicilia. Non a caso amava ripetere «Anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia».
I rapporti di intensa e comprovata amicizia tra Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, come noto, furono segnati nel 1979, da una rottura prettamente di carattere politico – definita dal comune amico Bruno Caruso il «fattaccio» -, che tuttavia portò a un distacco molto sofferto tra i due.
[…] Per quanto riguarda i ritratti degli scrittori del passato da lui raccolti, e ora conservati alla Fondazione Sciascia a Racalmuto, si possono citare qui almeno le due chine di Guttuso donate allo scrittore per la sua collezione: si tratta di due ritratti di Voltaire, scrittore amatissimo da Sciascia, di cui uno di profilo, dove l’artista appose una significativa dedica: «A Leonardo, a Voltaire e alla Dea Ragione», a dimostrazione del sodalizio culturale tra i due; e l’altro che rappresenta una sorta di studio “divertito” del volto dello scrittore francese visto nelle varie espressioni, anche qui con una scritta di Guttuso: «pour Voltaire».
[…] Si ricordi, inoltre, l’attività, poco nota, di Sciascia, come fondatore e direttore della rivista “Galleria: rassegna bimestrale di cultura”, fondata nel 1949 assieme a Mario Petrucciani e Jole Tornelli ed edita da Salvatore Sciascia a Caltanissetta, che annoverava tra i suoi collaboratori Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Mario Praz, Emilio Cecchi, Ferruccio Ulivi, Enrico Falqui; e storici e critici d’arte, tra cui Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Roberto Salvini, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan e Federico Zeri. Nomi che testimoniano la sensibilità del periodico per le arti visive, a dimostrazione dei legami esistenti nella seconda metà del Novecento tra critica letteraria e critica d’arte. Sciascia coinvolgeva spesso i suoi amici pittori per illustrare il periodico nisseno, come nel caso del numero del 1955 dedicato a Nino Savarese, per il quale aveva chiesto a Guttuso e Maccari una serie di disegni con i ritratti del grande scrittore ennese.
[…] Tra gli artisti siciliani del Novecento, infatti, la figura di Guttuso è stata forse quella che più ha suscitato l’interesse, accanto a quello della critica ufficiale, di letterati e poeti, in varia misura adusi alla critica d’arte. Come emerge dalla vasta bibliografia su Guttuso, numerosi risultano gli scritti di letterati – in genere presentazioni e testi introduttivi a cataloghi di mostre – quali Alberto Moravia, Elio Vittorini, Giuseppe Ungaretti, Alfonso Gatto, Pier Paolo Pasolini, Fernandez, Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia.
Dagli scritti di Elio Vittorini e Duilio Morosini nel catalogo della mostra milanese del 1942, a quello di Pablo Neruda del 1954, alla celebre monografia di Vittorini del 1960, per non tacere poi di quelli di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Ungaretti, Elsa Morante e di altri scrittori. Inutile, forse, aggiungere qui quanto le ragioni di questa diffusa attenzione siano da ricondurre alle comuni radici culturali dell’antifascismo, sulle quali si fonda gran parte della cultura italiana del secondo Novecento, e a cui si deve, peraltro, quel clima culturale che vide un legame stringente e ideologico tra arte e letteratura, del quale risulta emblematico il sodalizio tra Sciascia e Guttuso.
Nell’acceso dibattito post-bellico tra realisti e astrattisti, dove la figura del pittore bagherese occupa un posto rilevante , Sciascia si schiera apertamente con i sostenitori del figurativismo, mantenendo tuttavia alcune riserve sulle posizioni estremiste di matrice marxista dell’amico.
E difatti, tempo dopo, in un’intervista dove gli veniva chiesto se condivideva l’estetica del “realismo socialista” della pittura di Guttuso, lo scrittore fermamente rispondeva: “……………un rigo di spazio No, e del resto, per un artista vero – qual è per esempio Guttuso – il “realismo socialista” non esiste. Guttuso è un grande pittore più quando fa “I tetti di Sicilia” che quando dipinge i “Funerali di Togliatti”. Le etichette esistono in senso deteriore, e per la parte deteriore”.
Non è un caso, forse, che Sciascia scelga proprio un dipinto come “Paese del latifondo siciliano” del 1956, come illustrazione della copertina di uno dei suoi romanzi più celebri, “Il giorno della Civetta”, pubblicato da Einaudi nel 1961.
[…] Con l’inizio degli anni Sessanta si affievolisce in parte per Guttuso l’impegno politico a favore della riflessione, con un linguaggio alto, non più inquadrabile in categorie, che trova le proprie ragioni nel ricordo, testimoniato nel ciclo pittorico autobiografico.
Sono gli anni che Crispolti definisce di “realismo esistenziale”, al quale Sciascia guarda con maggiore simpatia, come dimostra la sua attenzione per i dipinti del ciclo autobiografico dedicati ai “mostri” di Villa Palagonia, sulla quale anni dopo lo scrittore scriverà una nota introduttiva di particolare spessore storiografico.
I rapporti tra i due si intensificano negli anni Sessanta, con frequenti incontri a Roma, nello studio di Bruno Caruso, frequentato da altri artisti dell’entourage sciasciano: Fabrizio Clerici, Tono Zancanaro, Mino Maccari, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Carlo Levi e altri. E proprio in uno di questi incontri nasce l’idea della pubblicazione della cartella Vietnam-Libertà, apparsa poi nel 1968, alla quale aderirono con le loro incisioni Attardi, Guttuso, Levi e Vespignani, introdotte dal testo di Sciascia. Sempre negli stessi anni i due si ritrovano spesso nelle gallerie d’arte palermitane, prima fra tutte “Arte al Borgo” di Eustachio, e poi del figlio Maurilio Catalano.
[…] Nel 1971, in concomitanza con la mostra antologica di Guttuso realizzata dal Comune di Palermo al Palazzo dei Normanni – nel cui catalogo figuravano scritti di Sciascia stesso, Franco Grasso e Franco Russoli – lo scrittore racalmutese decide di dedicare interamente al pittore un numero di “Galleria”, affidandone la cura editoriale a Natale Tedesco.
Il numero monografico, articolato in tre sezioni, comprendeva una prima parte dedicata all’antologia della critica, con scritti di illustri letterati e critici, tra cui quelli di Roberto Longhi (Lettera per la mostra di Guttuso a New York), Giovanni Testori, Elio Vittorini (Storia di Renato Guttuso), Cesare Brandi (La mostra di Guttuso a Parma), Carlo Ludovico Ragghianti (Guttuso pittore e scultore) e Antonello Trombadori; una successiva sezione costituita dagli omaggi, scritti e poesie, di letterati italiani e stranieri, tra cui Pier Paolo Pasolini, Mario Soldati, Leonardo Sciascia, Rafael Alberti, John Berger e Pablo Neruda; e infine, chiudeva il numero una antologia degli scritti di Guttuso sulle arti figurative.
Appare significativo che Sciascia decida di dedicare un intero numero di “Galleria” a Guttuso, a una data in cui già l’artista bagherese rappresentava uno dei più importanti autori della pittura del Novecento.
Importanza che il periodico nisseno voleva consacrare attraverso le testimonianze sia dei letterati che dei critici, e infine con gli scritti di Guttuso stesso sulle arti, quasi a voler considerare l’artista nella totalità del suo apporto alla cultura del tempo, a volerne quindi sottolineare la portata universale, attraverso però una rigorosa attenzione alla fortuna critica.
É qui che compare il primo scritto di Sciascia sull’amico ritornato a Palermo per la grande mostra del Palazzo dei Normanni. Guttuso a Palermo è però una acuta nota biografica, nel senso più strettamente esistenziale, dove lo scrittore guarda all’uomo Guttuso, all’uomo di successo che suo malgrado si trova a lottare contro sé stesso, aspetto che porta Sciascia a una singolare rievocazione dei personaggi verghiani:
“Ci sono, sì, i suoi quadri: nelle case, nelle gallerie pubbliche, riprodotti a milioni di esemplari, sotto gli occhi di tutti, ad arricchire e ad abbellire la vita, a riscoprirla; ma sono come le terre al sole di don Gesualdo. «Ma egli è siciliano», dice ancora Lawrence di Gesualdo, «e qui salta fuori la difficoltà». La difficoltà, per Guttuso, per noi, per ogni uomo che è nato in quest’isola, di vivere dopo aver fatto, dopo avere accumulato quadri o libri o denaro; la difficoltà a resistere, a non soccombere «sotto il gruzzolo» della ricchezza o della gloria o soltanto e semplicemente delle cose fatte, delle cose in cui abbiamo messo e mettiamo la nostra passione”.
Con questo accostamento, Sciascia non fa altro che inserire l’artista nel più ampio concetto di “sicilitudine”, neologismo sciasciano per eccellenza che fa eco a un’altra concezione dello scrittore, quella della “Sicilia come metafora del mondo”, vere e proprie chiavi di lettura della storia culturale siciliana secondo cui «scrittori e artisti, poeti e pittori, attraverso la particolarità e le particolarità della Sicilia, hanno raggiunto l’universalità».
Del resto i “travagli esistenziali” di Guttuso, in rapporto anche con la sua attività pittorica, che Sciascia conosceva bene visti i profondi legami di amicizia che li legò dagli anni Cinquanta in poi, emergono già a partire dalla fine degli anni Trenta, come attesta ad esempio il carteggio con un altro suo grande sodale, Cesare Brandi – che sarà poi anche amico di Sciascia nel periodo palermitano. Nel 1939, così infatti scrive Guttuso al critico senese riguardo al suo rapporto problematico con la pittura: «Non posso dirti come vada il lavoro, perchè non ne so nulla, e poi ho avuto il mal di denti, e poi è un momento che di lavorare non ho voglia. La campagna mi ha eccitato qualche momento – così bella e così inaspettatamente ricca di colore… Ma certe volte io vedo, sento penso e non mi piace dipingerlo. Mi pare di guastarmi un piacere privato. Non so che deduzione trarre da siffatti sentimenti ma preferisco guardare persino senza pensare ..». Il trovarsi “perennemente in crisi”, componente quasi sartriana della poetica guttusiana, tuttavia, viene vista anni dopo da Sciascia non tanto come una défaillance, quanto come il più autentico punto di forza del pittore: «nessuna crisi può segnare il punto del cedimento per un uomo, per un artista, il cui elemento di vita è appunto la crisi. Guttuso è sempre in crisi: sicchè nessuna crisi può coglierlo con insidia o alla sprovvista. Il suo essere pittore è una passione, una febbre – cioè, propriamente, una crisi».
Un aspetto nodale e comune a una parte della critica letteraria e artistica su Guttuso, e che in questi scritti emerge dichiaratamente, è, quindi, l’inscindibilità tra l’uomo Guttuso e la sua opera, e tra la sua opera e la Sicilia. Assunto questo, tanto apparentemente semplicistico quanto legato a una problematicità di carattere critico-letterario fortemente presente non solo negli scritti di Sciascia.
Quando Sciascia scrive di Guttuso avverte di trovarsi di fronte ad un grande artista, totalmente immerso nella vita, per il quale arte e vita coincidono a tal punto da non lasciare spazio all’ironia e al gusto, due strumenti che servono a prendere le distanze. La personalità di Guttuso lo porta ad una considerazione di carattere generale, in certo qual modo paradossale per lo scrittore, attratto dall’ironia: «A pensarci bene, sono poi questi strumenti (l’ironia e il gusto) che impediscono lo scatto verso la grandezza. Un grande artista, un grande scrittore, non ha ironia e non ha gusto; e così anche i grandi momenti della letteratura, dell’arte, sono quelli che mancano di gusto e non sono governati dall’ironia».
La percezione del paesaggio siciliano negli anni ’50 e ’60 era stata condizionata molto dalla pittura di Guttuso, dai violenti contrasti cromatici, e Sciascia non ne è immune. Recensendo, nel 1971, una mostra dell’amico lombardo Giancarlo Cazzaniga, avverte, però, che in Sicilia si può trovare anche un’altra luce, diversa da quella dipinta da Guttuso, un altro paesaggio in grigio-argento-viola, una Sicilia dai toni spenti, come l’aveva vista Cazzaniga nei suoi paesaggi siciliani.
Esigenza primaria di questi scritti di Sciascia su Guttuso è quella di porsi non già come testi analitici sulle opere dell’artista, in chiave descrittiva o ekfrastica, quanto quella di illuminarne sinteticamente alcuni significativi aspetti della poetica, enucleandone le più profonde radici culturali.
Tale operazione e i conseguenti giudizi critici, tuttavia, risultano mediati da profonde conoscenze della storiografia artistica, e in particolare di quella relativa alla fortuna critica dell’artista siciliano.
[…] Del resto, la forte componente geografica dell’opera di Guttuso e l’accostamento a Verga, sono due aspetti che riprenderà a pieno anche Calvesi nel saggio Guttuso e la Sicilia del 1985, dove, a proposito di questi due punti, afferma che «pochi artisti, come Guttuso, sono così profondamente segnati dalla loro origine, e non soltanto nella natura dei temi, ma nelle stesse scelte linguistiche», e più avanti, riferendosi alla “vocazione al racconto” del pittore, precisa come «il romanzo di Verga può essere il riferimento più spontaneo e diretto» . Vocazione al racconto che Calvesi mette in relazione alla venatura popolare insita nella migliore tradizione realistica della pittura siciliana, a partire dal realismo di fondo di Antonello, e in particolare di quell’«aria di famiglia» di cui aveva parlato Sciascia a proposito delle ambientazioni delle annuciazioni del pittore messinese. Si viene a delineare qui, come in altri frangenti, un proficuo scambio di idee , spesso bilaterale, tra lo scrittore e il critico, a dimostrazione di influenze reciproche .
Influenze che ritroviamo anche con Brandi, con il quale Sciascia concorda, ad esempio, nel ritenere la Fuga dall’Etna – sotto l’influenza velata di Picasso – il vero snodo della pittura guttusiana:«la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato “la Guernica siciliana” ,però siciliana è un po’ anche la Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato lo schema compositivo del Trionfo della morte di Palermo più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l’impressione della Guernica che Cesare Brandi gli aveva allora mandato in cartolina»; e gli influssi di Picasso nella Fuga dall’Etna Brandi li aveva individuati in un suo scritto apparso nel 1964, in occasione della presentazione della mostra di Palazzo della Pilotta a Parma – testo riproposto nel numero già citato di “Galleria” dedicato al pittore -, dove lo storico sottolineava l’importanza cruciale del celebre dipinto, conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma: «è di lì che nasce Guttuso, o meglio è lì l’impennata per cui salì sulla cresta dell’onda ed è riuscito a non scendere».
Nel 1972 esce a Napoli, per le Edizioni Scientifiche Italiane, una monografia di Sciascia dedicata ai disegni di Guttuso, dal periodo dei primi studi grafici della Crocifissione (1942) sino alle celebri serie del Gott mit uns (1944), delle illustrazioni della Divina Commedia (1962), per finire con la Serie autobiografica (1966).
[NOTE]
1 L. SCIASCIA, Io lo conoscevo bene, “L’Espresso”, 11 ottobre, 1987, infra.
2 G. JACKSON, Nel labirinto di Sciascia, Edizioni La Vita Felice, Milano 2004, p. 202.
3 B. CARUSO, Le giornate romane di Leonardo Sciascia, La Vita Felice, Milano 1997, p. 63.
4 Su questo punto cfr. L. SCIASCIA, Io lo conoscevo…, 1987.
Giuseppe Cipolla, “Io lo conoscevo bene…”. Renato Guttuso visto da –in “Tecla. Temi di Critica e Letteratura Artistica”, a cura di Simonetta La Barbera, Università degli Studi di Palermo, Palermo 2010
Guttuso era il maggiore esponente della Corrente realista in Italia e l’artista più vicino al Pci; collaboratore di Rinascita e amico di Togliatti, fu anche un politico militante: nel 1948 venne eletto membro del Consiglio mondiale della pace a Varsavia e nel 1951 entrò a far parte del Comitato centrale del Pci.
Buona parte della produzione artistica di Guttuso rispecchia questo aspetto della sua personalità: basti pensare al quadro “Il comizio”, del 1962, dedicato a Di Vittorio, e al “Giornale murale: Maggio 1968”, dipinto in quello stesso anno <192.
Sicuramente “I funerali di Togliatti” è l’opera di ispirazione politica più importante dell’artista siciliano; un quadro celebrativo, è evidente, ma anche una testimonianza documentaria e stilistica di valore. Lo scenario è grandioso (sullo sfondo si vede il Colosseo e il tramonto), il colore è calcolato per agire da lontano, a cominciare dal rosso delle bandiere; l’idea più interessante è senza dubbio quella di trasformare la folla che si assiepa intorno al feretro in una galleria di personaggi: è possibile distinguere, fra gli altri, dirigenti comunisti come Gramsci, Stalin, Dimitrov e personalità del mondo della cultura come Luchino Visconti e Carlo Levi.
Fu lo stesso Guttuso, nel 1974, a narrare la genesi dell’opera e a fornire la sua chiave di interpretazione: “(…) Cominciai col disegnare, più volte, il profilo di Togliatti (…). Circondai il profilo con un collage di fiori ritagliati da alcune riviste di floricoltura. Poi cominciai a mettere, attorno a quel punto focale, i ritratti dei suoi compagni, quelli con i quali aveva avuto i rapporti più stretti di lavoro, nell’esilio, in Spagna, in Unione Sovietica. Tenendo conto dei rapporti con Togliatti e non della loro presenza effettiva ai funerali. Ci sono per esempio Di Vittorio, Dimitrov, Stalin, che sono morti prima di Togliatti. E poi il popolo con le bandiere, le donne che piangono, gli uomini coi bambini in braccio; i giovani (…) amici come Luchino Visconti, Carlo Levi, Eduardo, amici interlocutori come Vittorini o Sartre… Volevo anche nominare la città di Roma, la sua storia (…) e il suo presente. Così, nella sera di Roma, sotto un cielo acceso dal tramonto, come qualche volta accade, in assurdi colori, ho dipinto il Colosseo, visto dall’alto, come una carcassa o un cranio scoperchiato, e un’impalcatura di tubi Innocenti da cui si protendono operai, fanciulli e bandiere rosse”. <193
[NOTE]
192 Per una visione generale delle opere di Guttuso, cfr. ad es. Vittorio Rubiu Le “grandi opere” di Guttuso: una biografia pittorica in: Vittorio Rubiu ( a cura di ) Guttuso grandi opere. Palazzo Reale 12 dicembre 1984-24 febbraio
1985 Milano, Mazzotta, 1984, pp.13-47.
193 Testimonianza del 1974 di Guttuso raccolta in: Vittorio Rubiu, ibid. p.105.
Selene Bertolini, Il culto di Togliatti. I linguaggi e le immagini del capo nel Partito Comunista Italiano, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2007