Gli studi più recenti di storiografia filosofica dedicati alla figura di Eugenio Garin si sono spesso soffermati sugli anni della formazione e sulla forte influenza che ebbe su di lui la filosofia francese di matrice cristiana <1: lo scopo di questa premessa è, innanzitutto, cercare di precisare i motivi teorici profondi che hanno avvicinato Garin ad autori come Maurice Blonde, Louis Lavelle o René Le Senne e, in secondo luogo, esaminare in che modo questi motivi, nei medesimi anni, hanno agito nell’interpretazione e nella valutazione, da parte dello storico della filosofia italiano, dell’opera di alcuni tra i suoi interlocutori più prossimi come Benedetto Croce, Giovanni Gentile ma anche Ludovico Limentani. Su questa strada un punto di riferimento fondamentale è costituito dalla “Storia della filosofia” pubblicata nel 1945 per i tipi di Vallecchi <2, e in particolare dal capitolo dedicato alla filosofia della libertà <3. Lì, Garin non prende in considerazione soltanto il pensiero francese – e il tema della ‘filosofia della libertà’ non è presente solo in quei luoghi, ma connota l’intera opera -, tuttavia è in esso che «il problema della libertà, come problema della concreta vita spirituale, trovava, forse, la sua espressione più ricca» <4. «Tutta la filosofia francese dell’800 e del 900», ribadisce Garin a distanza di alcune pagine, «è impiantata su questa affermazione della libertà spirituale, della creatività dello spirito che sola può dare un senso all’esistenza nostra» <5. Il problema individuato nella filosofia francese coinvolge, da un lato, il senso stesso dell’esistenza, non intesa in maniera ‘generale’, ma come «esistenza nostra», particolare ed empirica, e, dall’altro, la libertà spirituale, la creatività dello spirito. Tra libertà dello spirito ed esistenza individuale non si dà, dunque, opposizione, ma «se lo spirito umano ha da significar qualcosa, ciò può avvenire solo se gli si dischiuda dinanzi la possibilità di agire realizzando, introducendo, cioè, tra le cose che sono quel che è degno di essere, rinnovando il mondo e se stesso, innalzando sulla propria determinata finitezza individuale, il significato infinito della propria persona»; ma affinché ciò sia possibile, e «abbia un senso l’atto spirituale, bisogna che sia possibile la libertà, ugualmente negata così dalla concezione di un ritmo dialettico secondo cui tutto procede verso un fine necessario, come pure dalla visione di una realtà rigidamente costretta da nessi causali» <6. […] Per Troilo il «rapporto o processo dalla necessità alla libertà» è la formula con cui il positivismo mantiene le due idealità – necessità dell’essere e libertà dello spirito e dell’uomo – conservando e compiendo i diritti di entrambe: «La necessità dell’essere che culmina nella libertà dello spirito, nella superiore autonomia umana, è la migliore formula e la maggiore attuazione possibile di ricchezza, di forza e di bellezza». E aggiunge, che se anche ci fosse contraddizione sarebbe una posizione da assumere ugualmente perché porta «verso così alta e luminosa culminazione» <114. Garin non ha difficoltà a sottolineare la «debolezza» della posizione di Troilo, che pure non era priva di ambizione giacché pretendeva «di integrare quelle del Bruno e dello Spinoza»; e, aggiunge, con ancor più sarcasmo che era «sempre pronto a considerare come soluzioni valide delle sistemazioni verbali» <115. Si tratta di una tipica obiezione gariniana, che rivolgerà a Marchesini, come abbiamo già ricordato, o anche a Croce e a Gentile; tuttavia con Troilo acquista un particolare valore spregiativo, giacché sembra indicare una tendenza volontaria, o comunque una costante mancanza di serietà, che in queste forme difficilmente si ritrova. Garin, infatti, sostiene che Marchesini arrivava a una «conclusione meramente verbale» circa il problema di conciliare le ‘idealità razionali’ con la «necessità dominante in quell’universo razionale di cui […] si dichiarava convinto assertore»; e aggiunge che tale conclusione «fu affermata, senza che l’autore si rendesse conto delle contraddittorietà dei termini in cui si muoveva» <116. Non è certo una critica di poco conto in ambito filosofico, giacché Marchesini, di fatto, veniva tacciato d’ingenuità, ma al contempo siamo lontani dalla severità etica che si esprime nei confronti di Troilo. Anche Croce, del resto, è oggetto di un commento simile nel parlare del distacco di Gobetti dal crocianesimo: il giovane torinese aveva compreso come «il liberalismo crociano fosse, allora, non partito, non forza politica in lotta, ma equivoca teorizzazione dell’arte di governo», cogliendo così «la differenza che passa fra la soluzione ideale di un problema e la sua soluzione reale»; e poco sotto Garin aggiunge che Gobetti «aveva capito come le osservazioni di Croce sul Partito come giudizio e come pregiudizio, o le critiche della lotta di classe possano esser valide su un piano astrattamente teoretico, ma abbiano contro la risposta della realtà» <117. Il consenso a Gobetti è pieno, ed è severa la critica a Croce; essa però è circoscritta da quell’«allora»; è riferita a un momento temporale determinato, magari ampio, che però avrebbe avuto uno sviluppo senza dubbio favorevole per il lavoro crociano negli anni del fascismo <118. Da questo punto di vista un discorso non così dissimile si può fare per Gentile, la cui filosofia fu «fascista […] non già nell’attualismo seriamente inteso, o nel nesso posto fra prassi e pensiero», bensì soltanto «nell’incoraggiamento che pur dette alla semplificazione “ideale” di ogni rapporto e di ogni problema, quasiché una soluzione “pensata” e soprattutto “parlata”, fosse con ciò stesso una soluzione reale» <119. La critica è molto forte, e riguarda l’aspetto più ‘oratorio’ dell’opera di Gentile che non può essere cancellato <120; tuttavia si riconosce e si valorizza la serietà di tanta parte del suo lavoro, ed è la parte che probabilmente Garin ritiene più importante. Colpisce così particolarmente la critica a Troilo, svolta già nella prima puntata dove i toni di Garin sono meno aspri rispetto alle successive. È dunque una soluzione meramente verbale, priva di reale sostanza, quella del positivismo di Troilo che non ammette «né antropocentrismo, né libero arbitrio», e «colloca l’uomo nella catena degli uomini e delle cose, e non lo fa eccezione», ma, al contempo, ritiene che l’uomo, «dal suo posto nell’universo», possa «ricostruire e ricostruisce un antropomorfismo soggettivo, morale, ideale». E questo non sarebbe dovuto a una sorta di eccezionalità umana nell’ordine naturale, ma a proprietà e funzioni già presenti in germe negli altri esseri, che trovano compimento nell’uomo <121. Garin ha buon gioco nel mostrare l’insufficienza delle affermazioni di Troilo, che non soltanto non risolvevano il problema del positivismo di Ardigò, ma sembravano non affrontarlo neppure; egli si concentra poi sulla vicinanza alle tesi di Bodrero su “I limiti della storia della filosofia”, un testo che, secondo quanto avrebbe scritto Garin non molti anni dopo, meritava le impietose critiche di Gentile <122. Parlando di Troilo, in effetti, Garin aveva subito osservato che le pagine che stava commentando erano dedicate «non a caso» a Bodrero: di là dei possibili accostamenti teorici, è probabile che Garin volesse sottolineare proprio la vicinanza di Troilo a un personaggio così connotato politicamente, prima nazionalista e poi convintamente fascista, come Bodrero. Per le puntate successive una lettura di questo tipo avrebbe pochi dubbi, ma a questa altezza ancora non è presente un così marcato collegamento con gli anni del ventennio; si può però ritenere che con Troilo Garin avesse iniziato uno stile di analisi e di scrittura in cui gli atteggiamenti degli intellettuali fino alla guerra libica e al primo conflitto mondiale sono letti anche alla luce degli eventi successivi – innanzitutto l’avvento del fascismo, la Conciliazione e il secondo conflitto mondiale – e delle scelte che poi avrebbero compiuto di fronte a fatti tanto drammatici. Come è stato già messo in evidenza, il discorso gariniano su Troilo nelle “Cronache” è sostanzialmente costante, sia nel tenore dei contenuti sia nel tono generale, a differenza, per esempio, di Tarozzi, che nella prima puntata viene connotato in un modo diverso (più favorevolmente) mentre nelle successive sarà descritto e trattato in maniera molto più simile a Troilo.
Il positivismo di Ardigò si è sviluppato però anche in altre direzioni, più vicine a quel «rovesciamento totale» indicato da Garin come unico possibile esito valido della sua sistemazione. Furono i positivisti «meno agguerriti» a denunciare quell’«equivoco connubio di una nascosta metafisica naturalistica con una forte spinta umanistica» – equivoco entro cui continuava a muoversi Troilo. Garin pensa in primo luogo a Limentani, che, nel suo saggio su “La morale dei positivisti” di Ardigò, riconosceva «chiaramente l’impossibilità di conciliare “l’asserita dipendenza del carattere individuale e della conforme condotta” dalla costituzione anatomica e fisiologica dell’uomo […], nonché della pressione sociale» <123. Quella di Limentani emergeva davvero come una ‘filosofia della libertà’, centrata sull’uomo e non sboccante in una metafisica, diversamente da quella di Tarozzi, per come è descritta nel quarto capitolo <124. Limentani – come anche Garin in queste pagine – non liquidava il pensiero ardigoiano, ma cercava piuttosto di spiegare quel «convincimento» ardigoiano con l’intenzione di tener lontana una concezione della «morale come liberata nella sfera iperurania delle idee pure e dell’Io puro», per immergerla nel flusso della vita e della natura, pur non nascondendo il «turbamento» suscitato nel lettore che ritenesse la moralità «una faticata conquista dello spirito sopra la materia» e considerasse il soggetto «capace di affermare la propria indipendenza da ogni forma di coazione esteriore» <125. Garin può, quindi, affermare che il positivismo ardigoiano, con la sua metafisica naturalistica, non veniva distrutto dalle «poco riverenti stroncature di giovani scapigliati, né dagli aspri dibattiti idealisti»; non furono né il «Leonardo» né «La Critica» a far tramontare quel positivismo, collassato invece su se stesso. Era stata opera innanzitutto di quei positivisti che, «voltisi ai problemi pedagogico-sociali, coglievano la fluida plasmabilità dell’uomo e delle formazioni umane, e vivendo nell’atto il problema educativo postulavano eo ipso, se ne accorgessero o meno, la libertà dell’uomo». Erano le indagini concrete dedicate all’uomo, attraverso un metodo realmente positivo, a far emergere le difficoltà di quella metafisica; difficoltà ed equivoci che restavano tutti nei ‘porfessori positivisti’ meno dediti alle ricerche particolari, mentre uno studioso come Mondolfo poteva leggere in Feuerbach e in Marx «una ben diversa lezione, questa volta davvero rigorosamente antiteologica, nella totale fedeltà al concreto vedendo inserirsi col “rovesciamento della praxis” l’uomo signore della sua storia» <126. In queste pagine, dunque, Garin attribuisce, da un lato, il tanto dannoso divorzio tra scienza e filosofia alle generiche illazioni di positivisti sprovveduti che s’incontravano con scienziati digiuni di filosofia, e, dall’altro, lega il disfacimento del positivismo – o, meglio sarebbe dire, del naturalismo positivista – alle indagini più concrete dei positivisti stessi, dediti allo studio del mondo dell’uomo. Viene messo in luce un percorso ‘verso le concretezza’ che in maniera quasi carsica tende a mettere ai margini le ‘metafisiche’ e i ‘dogmatismi’. Garin descrive un processo analogo anche per l’idealismo meridionale, i cui più validi esponenti si muovono in quella medesima direzione. Così De Sanctis «si rende ben conto dell’esaurirsi dell’“idealismo” del primo Ottocento, di fronte al quale riconosce la piena validità delle istanze “realistiche”, che battendo sulla concretezza del mondo umano ricordano che “l’ideale non vive se non col suo limite”» <127. A proposito di Spaventa, invece, Garin può parlare dell’idealismo che si rovescia «in una rigorosa fedeltà all’esperienza», per cui egli si proclamava «vero e schietto positivista, perché “il positivismo è la vera espressione dell’esigenza contenuta nel vero idealismo”» <128. Infine, concludendo la puntata, Garin sottolinea l’azione convergente che «l’hegelismo meridionale e il positivismo più serio vennero esercitando in profondità», in una sola polemica contro la tradizione in primo luogo dello spiritualismo. La grande differenza è che questo processo nei maggiori esponenti dell’hegelismo meridionale era vivo e attivo, per quanto la loro efficacia sarebbe stata soprattutto legata al recupero novecentesco di Croce e Gentile, mentre per quel che riguarda il positivismo poteva avere luogo solo a costo di un radicale rovesciamento che in Ardigò era lungi dal verificarsi <129 – Garin, infatti, oltre a Limentani, pensa a Mondolfo che si era nutrito di Feuerbach e Marx, ma anche dello stesso Gentile.
1 Si tratta, in effetti, di una linea di ricerca particolarmente feconda, che solo fino a pochi anni fa era del tutto inesplorata: sulla formazione di Garin e il suo legame con l’esistenzialismo religioso francese sono da vedere innanzitutto CLAUDIO CESA, Momenti della formazione di uno storico della filosofia (1929-1947), in Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, a cura di F. Audisio e A. Savorelli, Firenze 2003, pp. 12-34 e MICHELE CILIBERTO, Una meditazione sulla condizione umana. Eugenio Garin Interprete del Rinascimento, «Rivista di storia della filosofia», 65/4, 2008, pp. 653-692; a questi vanno aggiunti MICHELE CILIBERTO, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2011, che raccoglie anche il saggio precedente; MICHELE CILIBERTO, Introduzione a EUGENIO GARIN, Storia della filosofia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma-Firenze 2011, pp. V-XVII; RENZO RAGGHIANTI, Gilson e Garin: i tempi di un confronto, in Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo. Atti del convegno Firenze, 6-8 marzo 2009, a cura di O. Catanorchi e V. Lepri, premessa di M. Ciliberto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma-Firenze 2011, pp. 459-480; MASSIMO FERRARI, Esistenzialismo e kantismo in Eugenio Garin, in Il Novecento di Eugenio Garin. Atti del convegno di studi, a cura di G. Vacca e S. Ricci, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 2011, pp. 95-119; MAURIZIO TORRINI, Il Novecento come autobiografia, ivi, pp. 383-400; MICHELE CILIBERTO, 1942: Garin, Pico, l’Oratio, introduzione a GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, De hominis dignitate a cura di E. Garin, Pisa 2012, pp. V-XIX; SIMONETTA BASSI, Immagini del Rinascimento. Garin, Gentile, Papini, Roma 2013; MICHELE CILIBERTO, Eugenio Garin, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Storia e politica, direttore scientifico G. Galasso, Roma 2013, pp. 734-740. Sulla figura di Garin nel suo complesso vanno visti per intero i già menzionati Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento; Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo; Il Novecento di Eugenio Garin, e il fascicolo monografico Garin e il Novecento, «Giornale critico della filosofia italiana», 88/2, 2009. Riguardo ai primi anni di attività di Garin in una prospettiva più ampia vanno tenuti presenti anche MAURIZIO TORRINI, Dall’Illuminismo al Rinascimento. Gli esordi storiografici di Eugenio Garin (1937-1947), «Historia Philosophica. An International Journal», 4, 2006, pp. 121-126; GIUSEPPE CAMBIANO, Eugenio Garin e i filosofi antichi, «Belfagor», 66/1, 2011, pp. 1-27; ROCCO RUBINI, The Last Italian Philosopher: Eugenio Garin (with an Appendix of Documents), «Intellectual History Review, 21/2, 2011, pp. 209-230; ELISABETTA SCAPPARONE, Documentare, tradurre, interpretare. I filosofi italiani del Quattrocento di Eugenio Garin, introduzione a EUGENIO GARIN, Filosofi italiani del Quattrocento, Edizioni di storia e letteratura, Roma-Firenze 2012, pp. V-XXVII; ANNARITA ANGELINI, Garin interprete di Cassirer, Cassirer interprete del moderno, «Philosophia. Bollettino della Società Italiana di Storia della Filosofia», 6/1, 2012, pp. 63-102; ROMANO NANNI, Il concetto di Rinascimento e Leonardo: Febvre, Garin, Panofsky, in Leonardo ‘1952’ e la cultura dell’Europa nel dopoguerra, a cura di R. Nanni e M. Torrini, Olschki, Firenze 2013, pp. 3-76; MAURIZIO TORRINI, Garin e Pico, «Giornale critico della filosofia italiana», 93/1, 2014, pp. 26-45; STÉPHANE TOUSSAINT, Kristeller e Garin: polemiche umanistiche, «Historia Philosophica. An International Journal», 12, 2014, pp. 11-24; ROCCO RUBINI, The other Renaissance. Italian Humanism between Hegel and Heidegger, The University of Chicago press, Chicago 2014.
2 Cfr. la ristampa GARIN, Storia della filosofia cit. Per la storia e il significato di questo volume si rimanda all’introduzione di M. Ciliberto.
3 Ivi, pp. 531-563.
4 Ivi, p. 545. Il pensiero francese, continua Garin, «sulla chiarezza della meditazione cartesiana sapeva innescare la ricca potenza della riflessione di Pascal» (ivi, p. 546).
5 Ivi, p. 550.
6 Ivi, pp. 533-534.
114 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., p. 12; cfr. ERMINIO TROILO, Idee e ideali del positivismo, Enrico Voghera, Roma 1909, pp. 266-267.
115 Ibid.
116 Ivi, p. 111.
117 Ivi, pp. 363-364; cfr. PIERO GOBETTI, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, a cura di E. A, Perona, con un saggio di P. Flores d’Arcais, Einaudi, Torino 2008, pp. 46-51.
118 «Dietro l’impostazione crociana c’erano i presupposti del suo idealismo; e ne rimanevano tutte le difficoltà, da cui il Croce uscirà solo nella sua lotta contro il fascismo, quando la storia si farà davvero azione e propaganda» (ivi, p. 364).
119 Ivi, p. 414.
120 Si è in precedenza insistito più volte sul carattere ‘morale’ delle critiche di Garin, anche quando si rivolgevano a scritti dal carattere eccessivamente retorico, oratorio o edificante; tuttavia non è un’osservazione che, a giudizio di chi scrive, possa essere estesa a Gentile: per quanto Garin ne sottolinei con forza anche l’elemento oratorio o retorico, difficilmente avrebbe messo in dubbio la sincerità del suo operato.
121 Ivi, pp. 12-13. cfr. TROILO, Idee e ideali del positivismo cit., p. 263.
122 «La lettura di certi scritti (per esempio I limiti della storia della filosofia del Bodrero, uscito nel 1919 sulla «Rivista di filosofia, pp. 127-68) giustifica in pieno gli articoli impietosi degli idealisti» (GARIN, La filosofia come sapere storico cit., p. 89).
123 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., pp. 13-14.
124 Bisogna però ricordare che in questa prima puntata Tarozzi è menzionato subito dopo Limentani, e quindi si direbbe collocato nel gruppo dei «meno agguerriti» seguaci del positivismo.
125 «L’asserita dipendenza del carattere individuale e della conforme condotta, per un verso dalla costituzione anatomica e dalle peculiarità fisiologiche del soggetto, e però dalle eredità della specie, e per l’altro verso, dalla pressione e dalla suggestione dell’ambiente sociale, e però da esigenze imperative che i conviventi pongono e presidiano con un sistema efficacie di sanzioni, è sempre causa di turbamento al lettore che sia abituato a concepire la moralità come faticata conquista dello spirito sopra la materia, e a porre il suo regno nella coscienza del soggetto, capace di affermare la propria indipendenza da ogni forma si coazione esteriore […]. Ma nell’Ardigò quel convincimento […] è una cosa sola con la contrarietà a concepire la morale come liberata nella sfera iperurania delle idee pure e dell’Io puro, e con il proposito d’immergerla […] nel flusso incessante della vita, d’inserirla nell’ordine della natura […]» (LIMENTANI, Rileggendo la “Morale dei positivisti” cit., pp. 188-189).
126 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., p. 14.
127 Ivi, p. 17. Cfr. GIOVANNI GENTILE, Il torto e il diritto del positivismo [1914], in ID., Saggi critici. Serie seconda cit., p. 130.
128 Ivi, p. 19; cfr. BERTRANDO SPAVENTA, Logica e metafisica. Nuova edizione con l’aggiunta di parti inedite, Laterza, Bari 1911, p. 7.
129 Si veda SAVORELLI, L’eredità del positivismo cit., p. 256.
Floriano Martino, Intellettuali del XX secolo: Garin e le Cronache di filosofia italiana, Tesi di Perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, Anno accademico 2016-2017