Italo Svevo

Italo Svevo nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 da Francesco, commerciante in vetrami appartenente all’agiata borghesia triestina, e da Allegra Moravia; entrambi i genitori sono di origine ebrea.
Italo Svevo è il nome d’arte, Aron Hector Schmitz il suo vero nome. La scelta di questo pseudonimo è stata interpretata da alcuni come un omaggio all’origine tedesca del nonno paterno, funzionario dell’Impero asburgico; in realtà, come spiega la figlia Letizia, si tratta della dichiarata e consapevole esplicitazione, da parte dell’autore, della sua duplice anima: italiana e tedesca.
Seppure Trieste, città natale di Ettore Schmitz, era politicamente appartenente all’Impero asburgico, dal punto di vista delle tradizioni storiche, e per ragioni etniche, era italiana. Ciò spiega perché lo scrittore volle chiamarsi Italo: si sentiva preminentemente italiano; il cognome testimonia, invece, la sua formazione tedesca, che avviene nel collegio bavarese di Segnitz, in Germania; qui il giovane viene indirizzato agli studi commerciali per avviarsi a una carriera in tale campo, sulla scia del padre che, come già detto, commerciava vetrami. Ma Svevo non amava quegli studi e, sin da giovanissimo, comincia a scrivere di nascosto pagine nelle quali la sua fantasia è libera di sprigionarsi.
Tornato a Trieste nel 1878 frequenta per due anni l’istituto superiore di commercio “Pasquale Rivoltella” e lì consegue il diploma; intanto, però, il suo amore per la letteratura cresce.
Sopraggiunte talune difficoltà economiche, a causa del fallimento dell’attività paterna, Svevo è costretto a trovare un impiego. Ottiene un posto nella succursale della banca Union di Vienna, un lavoro arido per un uomo che intimamente alimentava sogni letterari. Sono anni difficili anche per la morte sia del fratello Elio (1886), cui l’autore era particolarmente legato, sia del padre (1892).
Più Svevo si sentiva infelice per i recenti lutti familiari e insoddisfatto per un lavoro che non amava, più si avvicinava alla letteratura, per cui nutriva, invece, un interesse profondo e in cui trovava consolazione da una realtà lavorativa alienante e da una situazione familiare difficile. Comincia, così, a frequentare la biblioteca civica e a leggere classici italiani e non.
Sotto questo aspetto Trieste, crocevia di traffici commerciali, città di frontiera in cui convergevano razze, religioni e culture diverse, offre stimoli profondi allo scrittore, manifestando la sua duplice vocazione: italiana e mitteleuropea. Pertanto, Svevo, lontano dal rinchiudersi in un tetro provincialismo, si apre al mondo d’oltralpe. Accanto ai classici italiani, tra i quali predilige Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio, De Sanctis, legge quelli tedeschi, francesi e russi. Si apre, poi, alla cultura contemporanea: da un lato è attratto dai realisti e naturalisti francesi come Balzac, Flaubert e Zola, dall’altro da autori come Bourget e Dostoevskij, che guardavano, invece, alla realtà interiore, alla psiche dell’uomo.
L’amore sveviano per la letteratura trova i primi frutti nella partecipazione all’attività del quotidiano irredentista di Trieste «L’indipendente». Svevo, con lo pseudonimo di Ettore Samigli, redige infatti recensioni letterarie, cronache teatrali e musicali, racconti, tra cui ricordiamo Una lotta e L’assassinio di Via Belpoggio, apparsi a puntate tra il 1888 e il 1890.
Nel 1892 pubblica il suo primo romanzo, Una vita, che non riscuote il consenso né del pubblico né della critica.
Nel 1895, dopo l’insuccesso di Una vita, Svevo si fidanza con la cugina, Livia Veneziani, conosciuta al capezzale della madre morente. La sposa l’anno successivo, spinto probabilmente dal bisogno di una presenza femminile, avendo appena perso la madre, alla quale era profondamente legato. Nel 1896 viene celebrato il matrimonio con rito civile, nel 1897 con rito cattolico, dopo che Svevo ebbe abiurato la fede ebraica. Livia Veneziani era una donna ricca e intelligente, appartenente all’alta borghesia, a una famiglia di facoltosi industriali, proprietari di una fabbrica di vernici per navi, della quale ben presto anche Svevo entra a far parte.
Nel 1896 esce a puntate sull’«Indipendente», il suo secondo romanzo, Senilità, ripubblicato poi integralmente nel 1898, a opera dell’editore Vram di Trieste; ancora una volta, però, lo scrittore non riscuote il successo sperato.
L’insuccesso di questo secondo romanzo induce Svevo a non scrivere più per un lungo periodo di tempo. Egli sente, infatti, la crisi tipica dell’intellettuale del tempo che vede vanificata la sua funzione in una società tutta votata all’industria. L’autore decide, allora, di convertirsi a questo nuovo mondo egemone, quello industriale, e perciò entra a far parte della ditta del suocero, divenendo uomo d’affari, manager e dirigente; ma il suo amore per la scrittura non viene mai del tutto cancellato. Anche i viaggi di lavoro in Francia, Inghilterra, Irlanda e Germania sono, infatti, un utile strumento per arricchire il suo spirito a contatto con le letterature straniere. Fondamentale risulta l’amicizia con il famoso autore dell’Ulisse, James Joyce, dal quale ottiene numerosi attestati di stima, a tener vivo, seppur latente, il suo amore per la letteratura. Un altro grande incontro di questi anni, che tanto peso avrà sulla scrittura successiva dell’autore, è quello con la psicoanalisi di Freud e, ancora, quello con la filosofia di Schopenhauer.
Tra gli anni 1919-1922 Svevo prepara il terreno per la sua opera futura, il grande capolavoro La coscienza di Zeno, pubblicato dall’editore Cappelli di Bologna nel 1923. Ma in questo lasso di tempo la sua penna non tace del tutto; nonostante i propositi di non scrivere più, compone infatti lettere, abbozzi di saggi filosofici, ma anche racconti e drammi (Un terzetto spezzato, Un marito).
Lo scoppio della prima guerra mondiale decreta la requisizione, da parte delle autorità austriache, della fabbrica di vernici in cui Svevo lavorava e segna, pertanto, la fine della sua attività manageriale e un nuovo inizio per la carriera di scrittore.
Svevo compone infatti il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno. Accolto ancora con diffidenza in ambito italiano, il romanzo ottiene invece un inaspettato successo di critica, grazie anche all’intervento dell’amico Joyce, in Francia e, più in generale, in seno alla cultura europea. In Italia solo la voce di Eugenio Montale sulla rivista «L’esame» si alza in favore del grande scrittore triestino, dando inizio al discusso «caso Svevo».
Di lì a poco, un incidente stradale presso Motta di Livenza, vicino Treviso, il 13 settembre del 1928, pone fine, all’età di sessantasette anni, alla vita di Italo Svevo, uno dei più grandi scrittori del Novecento.

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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