
Anche Mario Manzoni racconta un episodio critico che si conclude sulle note della risata isterica. Con un compagno deve attraversare una grossa fenditura nella roccia della montagna: “Paolo passa con una certa disinvoltura ma quando tocca a me le cose si complicano: non abbiamo calcolato la differenza di statura, e di conseguenza l’apertura di braccia, e io resto sulla cengia attaccato alla fessura con la destra, ma con la sinistra non arrivo ad agganciarmi dall’altra parte. Sono sospeso su uno strapiombo di un centinaio di metri. Paolo, come reazione, scoppia in una fragorosa risata, e non riesce più a frenarsi. Fortunatamente dopo qualche attimo si rende conto della mia drammatica posizione e appoggia il moschetto verticalmente sulla roccia colmando quei 15-20 centimetri che le mie braccia non arrivano a colmare […]. Passata la paura ce la ridiamo insieme, mentre Paolo mi spiega quanto ero buffo in quella posizione senza riuscire più ad andare né avanti né indietro, poi proseguiamo”. <524 Da questa pagina emergono contemporaneamente le due funzioni della risata: è elemento che esorcizza la paura quando il protagonista vive il momento di tensione, e allo stesso tempo il modo divertente e spensierato con cui il memorialista ricostruisce il racconto di quella stessa vicenda, poiché ne ricorda, più della paura provata, il lato “buffo”. La risata diventa quindi la reazione umana alle situazioni drammatiche e provvisorie della guerra. Anche Ester Maimeri racconta di un continuo bisogno di divertimento, nonostante la guerriglia. Ella dice, commentando una commedia teatrale organizzata nella libera Domodossola: “Avevamo un disperato bisogno di ridere, di scrollarci di dosso quel qualcosa che da troppo tempo ci avviluppa, quell’imponderabile fatto di non vivere, di fame, di speranze deluse, di paura del domani. Le risate scrosciano e come pioggia ristoratrice ci mondano di quelle brutte ragnatele, ci fanno tornare giovani spensierati, sia pure per poco”. <525 Il commento dell’autrice, che rivela una profondità di riflessione non comune tra gli scrittori di memoria, è in realtà illuminante. Nei racconti dei memorialisti il riso e la burla intervengono effettivamente a rendere meno tragica, e quindi più vivibile anche nel ricordo, una realtà in cui a dominare dovrebbero essere la paura, la morte e la violenza. La risata non è l’unico elemento dissonante con la dimensione della guerra. I memorialisti partigiani raccontano di travestimenti, improvvisazioni teatrali e prese in giro ai danni dei fascisti. Sebbene questi siano veri e propri atti di guerriglia poiché hanno sempre lo scopo pratico di indebolire materialmente il nemico, è interessante notare che il racconto di essi si concentra sul godimento provato dal giovane protagonista nell’attuare queste azioni piuttosto che sullo scopo raggiunto. Ancora Costantini: “Scherzare col fuoco è un grande spasso, per questi ragazzi avidi di vita romanzesca. Anche quando nessuna necessità o ragione di ritorsione obbliga all’azione; pure allora l’avventura sprona ad agire. È quest’ansia di giocar l’avversario che rende impaziente il giovane Partigiano e lo induce anche ad agire quando sarebbe più opportuno star fermi. Che necessità c’era poi di catturare l’innocuo ministro dell’Africa Orientale? Si trattava di un’impresa buffa, e fu tentata”. <526 Sembra quasi che per affrontare il fascista sia fondamentale l’improvvisazione e la capacità di simulazione piuttosto che la padronanza delle tecniche militari. Vandoni racconta un episodio in cui la buona riuscita dell’azione si poggia proprio sulla capacità del partigiano di recitare la parte che gli è stata assegnata: fingersi borghese e presentarsi alla chiamata repubblichina per rubare un faldone di documenti. Si tratta quindi di affrontare il comandante fascista: “Sulla Porta del Palazzo di Prefettura risponde anche lui al carabiniere col saluto romano, un po’ impacciato però perché da tempo non l’usava più. E s’attruppa con gli altri giovani, un’ottantina circa […]. Quando arriva il suo turno, entra nell’ufficio e presenta la sua domanda, mentre in cuor suo spedisce difilato al diavolo tutto il rinascente esercito repubblichino dal primo all’ultimo gregario. Mentre il capitano legge la sua petizione e sottolinea i dati, lui sbircia tutta la sala […]. Richiusa la porta si gira bene e vede là, proprio di faccia alla scrivania, in alto a destra, un fascicolo con sul frontespizio scritto in inchiostro rosso «NOTIZIE ESTERE» […]. Lo afferra e se lo mette sotto il soprabito, contento che la sua buona stella gli renda tanto facile farla in barba a tutti i repubblichini. Ma l’emozione è sì grande che mancano le forze di muoversi proprio a lui, che nei fugoni con quelle gambe da giraffa è sempre un campione imbattibile. Torna però subito la padronanza di sé, anzi afferra anche la sua domanda e con due passi è fuori. Il piantone, al vederlo uscire così presto, con ancora in mano la domanda, lo richiama: «Ma come, avete già finito?» «No, risponde prontamente, ma il Capitano è andato su dal Prefetto e non è educazione star lì dentro solo» […] Con i suoi passi da gigante, infila le strade più secondarie e via verso la campagna”. <527 In questo racconto si sottolinea la prontezza di spirito del ribelle che riesce ad atteggiarsi come un repubblichino, senza farsi impaurire dalle circostanze. Il buon partigiano è, quindi, colui che sa meglio fingere, improvvisare, vestire panni non suoi in base all’esigenza. È ciò che affermano tutti i memorialisti a partire da Costantini: “Quando un partigiano è armato è un soldato che si batte a viso aperto; ma quando al contrario è disarmato, allora diventa un attore. Costretto a giocare d’astuzia, cambia volto, modi e figura. Raca infatti, deciso di portarsi dal paese amico di C. al grande Comando di tappa, comincia intanto con cambiare il passo di marcia. Da quello spedito del giovane intrepido, assume quello sciabicone del contadino affaticato e curvo. Appesa ad una baita trova una giacca e l’indossa; più in là trova un cappello sdrucito e lo calca sulla nuca […]. Riconosciuta da lontano una squadra, Raca intuì che non bastava più la semplice maschera del contadino inoperoso, ma occorreva assumere quella del montanaro attivo che bada ai suoi affari. Perciò, adocchiato ai piedi di un albero un gerlo, se lo caricò sulle spalle e finse di dirigersi al lavoro dei campi. Così con passo ancor più trascinato e con la schiena curva, passò inosservato. Ma purtroppo l’orlo del bosco era invece piantonato. Pochi passi dividevano l’attore dai militi. Non c’era dunque tempo da perdere; bisognava cercare su due piedi un’altra maschera. Ecco l’attore fingersi scemo. Con gesti sconclusionati di scimmia impazzita, con l’occhio sperduto ed inebetito Raca passa davanti alle guardie agitando le mani e proferendo frasi insulse: – Hue…hue…hue…- Cretino – gridò il milite; ed anche questa volta l’attore salvò il partigiano”. <528 In questo passaggio il partigiano diventa all’occorrenza un attore, assumendo ruoli diversi per beffare il posto di blocco fascista. Si può notare che i termini relativi alla recitazione («attore», «regia», «maschera») ritornano spesso nel racconto di questi episodi. Il sacerdote Vandoni descrive con toni divertenti le prese in giro attuate dai partigiani contro i Tedeschi usando un lessico simile. Per fare un esempio, ecco come si organizza un paese intero per trattenere il più possibile una colonna di nazifascisti: “Qualche mese dopo, d’improvviso viene avvistata all’inizio della valle ancora quella colonna. Tutti gli abitanti si riversano sulla piazza a gran consiglio, pronti stavolta alla fuga totale […]. Il parroco allora rincuora i suoi figlioli e propone il suo piano di battaglia. «I partigiani tutti sui monti. Voi invece tutti qui calmi alle vostre case ed ai vostri lavori, come se niente fosse […]». Il parroco, che per i montanari è la massima autorità, è capito ed ubbidito alla lettera. Comincia così la commedia e tutti sanno fare bene la propria parte senza bisogno di regia perché quelli hanno le scarpe grosse e i cervelli fini. […] Quando le macchine sono fuori vista, la piazzetta si rianima ed il popolo torna a mostrare la sua vera anima partigiana”. >529
O ancora, l’ironia di Vandoni stesso nel dover fingere educazione e imparzialità di fronte ai Tedeschi appena giunti in paese: “Chiedono proprio a me spiegazioni, sulla strada che conduce verso l’Ossola […]. Faccio del mio meglio con l’aiuto dei Tupini, a ragguagliarli sulla sicurezza del viaggio, ma penso che farebbe proprio comodo ai miei ragazzi quel cannone girevole piazzato sull’autoblindo e con tutte quelle munizioni. Anche i Tupini lo guardano con aria malcelata. «Potevano ben fermarsi anche loro!» Mi confessa il maresciallo. «Ci sentivamo più sicuri con quell’autoblindo». «Ed allora partite anche voi: seguiteli». Faccio io, mandandoli dentro di me a quel paese, che non esiste sulla carta geografica. «State sicuro, Padre, sulla mia parola d’onore e voi sempre buon italiano». «Non dubitatene!» E me ne vado subito a fare il mio dovere di buon italiano, ma nel senso opposto a quello inteso da loro. Ho da avvisare tre
partigiani, che sono a casa, che si mettano in salvo, se non l’hanno già fatto”. <530
[NOTE]
524 M. MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., pp. 52-53.
525 E. MAIMERI PAOLETTI, La staffetta azzurra, cit., p. 47.
526 V. COSTANTINI, Partigiani della terza banda, cit., p. 51.
527 A. VANDONI, Una vita per l’Italia (vita partigiana), cit., pp. 64-65.
528 V. COSTANTINI, Partigiani della terza banda, cit., pp. 72-73.
529 A. VANDONI, La vita per l’Italia (vita partigiana), cit., pp. 120-121.
530 Ivi, pp. 62-63.
Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” – Vercelli, Anno accademico 2008-2009