Luigi Picchi ha definito quest’opera [“Il ragazzo che parla col sole” di Giuseppe Conte] come un romanzo poetico ed interessante, le cui avventure inducono il lettore alla riflessione sul mondo attuale, che diventa “sempre più sofisticato e inautentico” <1425. Quest’osservazione spiega perfettamente, a nostro avviso, lo scopo principale dell’opera contiana, sempre mirata a puntualizzare la perdita d’anima della civiltà moderna, vale a dire la malattia metaforica e reale la cui denuncia, se messa giustamente in evidenza, può divenire pari ad una spinta iniziale per intraprendere il viaggio alla ricerca di una rinascita, dopo lo stato di morte che la malattia crea. Per mezzo di valori quali Libertà, Amore, si può quindi addivenire a questa rinascita, anche per mezzo di quello “sciamanismo immaginale” di cui si è trattato in precedenza <1426. Esso, sviluppando i temi che riconducono alla speranza, genera nel lettore la capacità di creare delle potenti raffigurazioni immaginarie che a loro volta curano la realtà immaginale che ha creato la malattia dell’anima. In questo caso si tratta di una forma di sciamanismo che, a parere di Noel “potrebbe aiutarci a ritrovare l’anima che cerchiamo e la cui mancanza fa soffrire l’uomo della civiltà occidentale” <1427.
La storia de “Il ragazzo che parla col sole” racconta, come si vedrà, le avventure di un giovane, figlio di ex-hippies liguri, trasferitisi in India. Si tratta di un romanzo in cui la condizione psicologica ed esistenziale del protagonista-narratore, Surya, si snoda e si completa nelle varie fasi della fabula in modo altamente simbolico. Surya infatti vive a Terra Fiorita ovverossia, in termini mitici, nel Paradiso terrestre – simbolo uroborico – <1428, in cui l’individuo si trova in uno stato di mancanza di consapevolezza, vale a dire una condizione in cui si identifica con i valori collettivi, ed in cui il Sé individuale non si è ancora sviluppato. Nel caso di Surya è il suo piccolo mondo quotidiano di adolescente cresciuto solitario tra padre e madre. Surya abbandona in seguito il bungalow dove è sempre vissuto, con conseguente perdita del suo Paradiso Terrestre, per cercare di raggiungere la famiglia d’origine di suo padre, intraprendendo un viaggio, anche metaforico, di ricerca della verità. Infine, in Inghilterra, Surya affronterà delle esperienze drammatiche, le quali lo metteranno in grado di acquisire una consapevolezza di ciò in cui crede e di ciò che vuole, avanzando così nel suo processo d’individuazione. Questa presa di coscienza lo mette a confronto ed in conflitto con altri individui che osteggiano i valori perseguiti da Surya, cioè la ricerca della Luce, la verità, il metaforico Graal. Da queste prove Surya uscirà vincente come l’eroe che sconfigge il male, vale a dire le azioni di Fafner/Hunter, il Drago che combatte l’eroe.
Surya, dopo l’abbandono della famigliola da parte del padre Amal/Angelo <1429, e la morte per annegamento della madre Maya/Gioia, decide quindi di ritornare in Italia alla scoperta delle sue radici per fare la conoscenza del nonno, sempre osteggiato quale “Il Grande Padre” da Amal, in quanto egli rappresenterebbe il tipico prodotto di una società capitalistica. Dopo molteplici avventure avvenute al suo sbarco a Roma, di cui si tratterà oltre, Surya viene a contatto con la sua nuova famiglia che lo accoglie e diventa parte integrante del suo futuro. Questo è dovuto al fatto che Surya non solo si affeziona al nonno, il quale morirà prematuramente, ma si sente anche particolarmente attratto dalla giovane matrigna inglese, Vivien, e soprattutto dal di lei fratello, Perceval, il cui nome, lo vedremo, mette in rilievo il collegamento simbolico con la ricerca del Graal perseguita dal giovane, sotto la forma della libertà auspicata dalla Società dei Liberi Celti di Cornovaglia di cui è co-fondatore.
Perceval diventa, per Surya, un vero e proprio mentore già prima che il loro rapporto si coroni in un’amicizia preziosa. Infatti questo ragazzo, così culturalmente diverso dalla semplicità impreparata del quindicenne Surya, ed appena più anziano di lui, sembra assumere la figura di un saggio/sciamano in quanto gli dischiude la possibilità di prendere contatto con un mondo fino allora sconosciuto, quale ad esempio quello della poesia e della mitologia, e sarà certamente colui che più influenzerà la vita di Surya <1430.
L’intreccio del romanzo si complica e prende una svolta giallo-poliziesca dal momento che Perceval scompare dopo essere tornato nella natia Cornovaglia. I colpi di scena si susseguono allorché Surya s’improvvisa detective nella ricerca di chi ha rapito Perceval e diviene una pedina nella lotta tra Bene e Male. Surya diventa a sua volta, simile ad un metaforico sciamano che vittoriosamente sconfigge il nemico suo e di Perceval, il rapitore, il Drago Fafner/Hunter. L’epilogo è sorprendente ed affianca i corvi sacri della mitologia celtica – ancora e sempre centrale nell’opera di Conte – al passato remoto vissuto nell’esperienza dei genitori di Surya e dei loro compagni dell’utopistica “comune ligure”. Tale esperienza aveva agito da catalizzatore al riguardo del loro trasferimento in una nuova patria, diventando a sua volta la molla di partenza, la causa dell’avventura vissuta da Surya.
La tragica esperienza del ragazzo diventa una vera e propria prova d’iniziazione alla vita adulta, ivi compreso l’amore che sboccia in lui per Vivien, la sorella di Perceval.
[NOTE]
1425 Picchi 1999: 528.
1426 v. quest’opera: 52.
1427 “ [A shamanism] that could help us to recover the soul we as Westeners suffer and seek”. Noel 1997: 224.
1428 L’uroboro, afferma Neumann, è “l’immagine del serpente circolare che si morde la coda (…), il simbolo della situazione psichica originaria, in cui la coscienza e l’Io dell’uomo sono ancora piccoli e non sviluppati” (1981: 29).
1429 Va notato come il nome Angelo sia di nuovo usato da Conte nel romanzo “La casa delle onde” e come entrambi gli uomini cerchino di dimenticare una loro tragedia personale, come d’altronde Gioia. Metaforicamente, i tre personaggi sembrano cercare di rientrare nel Paradiso, di ritrovarne la gioia dopo esserne stati allontanati.
1430 Sole: 200.
Rosa-Luisa Amalia Dogliotti, Arte e mito nell’opera di Giuseppe Conte. Lo scrittore come sciamano, Tesi di laurea, Università del Sud Africa, 2005
Montale in “Caffè a Rapallo”, dedicata a Camillo Sbarbaro, ci dice che Rapallo, la Riviera, il «tepidario lustrante», <557 cioè il caffè sul lungomare, è tutto un simulacro di felicità e di salvezza. Scrive Montale alla morte dell’amico: «L’arte di Sbarbaro era fatta di brevi fulgurazioni e la droga che lo portava a questi attimi felici era la vita; la vita sentita come qualcosa d’inesplicabile ma non per questo meno degna di essere accettata». <558 Quindi Rapallo e il caffè sul lungomare sono la «droga», la vita o una parte di dolcezza di vita indispensabili al poeta, nell’amarezza del mondo. Anche Conte guarda la vita e il mare «ingrigire» da un piccolo bar e scrive davanti ad esso su un taccuino appoggiato su un tavolino. <559 Montale, inoltre, vede passare all’esterno del caffè un piccolo gruppo di bambini emblemi di una vita innocente e vera contrapposta alla ipnotica vita artificiale all’interno del bar: «S’ode grande frastuono nella via./È passata di fuori/l’indicibile musica/delle trombe di lama/e dei piattini arguti dei fanciulli:/è passata la musica innocente.//Un mondo gnomo ne andava/con strepere di muletti e di carriole,/tra un lago di montoni/di cartapesta e un bagliare/di sciabole fasciate di stagnole./Passarono i Generali/con le feluche di cartone/e impugnavano aste di torroni;/poi furono i gregari/con moccoli e lampioni,/e le tinnanti scatole/ch’hanno il suono più trito …». <560 Anche Conte vede che «Passano bambini in monopattino/passano bambini in bicicletta/e ripassano veloci, felici./Si posa sul mio tavolo un passero/e se ne va saltando, felice, anche lui,/di avere nel becco una briciola». <561 Per entrambi l’età dell’innocenza è la sola (fase della vita ) degna di essere vissuta, <562 e il caffè sul lungomare a Rapallo o nella riviera di Ponente è il solo luogo che, come una droga, ci riconsegna alla nostra infanzia. Montale sa che questo non ha nulla a che fare con la vera salvezza ma ne è una parvenza. All’interno del bar si produce una sorta di felicità, ma la salvezza, quella vera, è altrove, «di altri – scrive Ficara – e non può perdersi come la felicità dei bambini che si perde nell’età adulta, e la felicità degli adulti, che si perde all’uscita del caffè: se ci sarà ci sarà per sempre; non vorrà saperne d’infanzia, felicità, tempo. Rapallo e il suo caffè, al contrario, sprofondano ogni giorno nel tempo: “finiscono”, ogni giorno di più, consolando e accarezzando nel tremore dei lumi la finitudine stessa». <563 Per Conte, la solitudine e l’infelicità, contrapposte a quelle dei bambini e degli animali, sono viste nei suoi «vicini di tavolo al bar» che «non ti degnano di uno sguardo/parlano fitto di Montecarlo, prezzi, hotel». <564 E Conte, ancora una volta, lascia aperta la risposta alla domanda sulla felicità e l’infelicità: «Oh mare, o mio bel/mare d’autunno/h. 11,10/cosa ne dici tu, cosa mi dici/di felici e infelici,/ne sai qualcosa?» <565
I versi dell’”Egloga” di Montale <566 richiamano la Liguria in modo meno negativo, nudo, aspro e vagamente irreale che si rispecchia nel paesaggio di Conte. <567
[NOTE]
557 «Natale nel tepidario/lustrante, truccato dai fiumi/che svolgono tazze, velato/tremore di lumi oltre i chiusi/cristalli, profili di femmine/nel grigio, tra lampi di gemme/e screzi di sete…» E. Montale, Caffè a Rapallo, in Id., Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, op. cit., p. 17.
558 E. Montale, Ricordo di Sbarbaro, “Corriere della sera”, 5 novembre 1967 (ora in Id., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, II, Mondadori, Milano, 1996, p. 2868).
559 Cfr., G. Conte, Mattinate marine 2, in Id., Non finirò di scrivere sul mare, op. cit., p. 69.
560 E. Montale, Caffè a Rapallo, in Id., Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, op. cit., pp. 17-18.
561 G. Conte, Mattinate marine. 7 Passano i bambini in monopattino, in Id., Non finirò di scrivere sul mare, op. cit., p. 79.
562 Per Conte, come dichiara in un’intervista, la figura del ragazzo ha importanza per il suo immaginario. Egli afferma: «innanzitutto penso che esista quello che gli psicanalisti junghiani chiamano uno spirito puer e cioè uno spirito di adolescenza eterna che è sempre nell’artista, se si pensa alla differenza tra puer e senex e si mette dalla parte del puer la curiosità, lo stupore, l’incanto, la metamorfosi, il desiderio d’amore, e si mette dalla parte del senex invece la consapevolezza dell’autorità, il potere, c’è anche una saggezza ma è una saggezza codificata, stratificata, istituita. Io ho sempre scelto, almeno fin ora, lo spirito puer, in effetti il ragazzo diventa una metafora di una condizione aurorale dell’umanità, sia nella nostra vita individuale sia nella vita dei popoli e delle civiltà. Io ho avuto negli anni Settanta la percezione che la civiltà occidentale stesse invecchiando in un modo clamoroso e che dovevamo ricollegarci alle origini, a delle fonti di vitalità primordiale nel senso migliore, non pensare che prima dell’origine c’era solo barbarie, ma un caos fecondo, un caos dal quale disegniamo le strategie di una nuova concezione del mondo. Ho visto sempre il ragazzo come una metafora dell’aurorale, del primordiale, dello sguardo nuovo sul mondo, dello sguardo incantato sul mondo, e anche della speranza di un futuro del mondo che non sia quello di prigionia, di orrore che molte volte il mondo oggi ci lascia intravedere, sia nelle poesie, dove è chiaro il titolo, sia nei romanzi dove i protagonisti spesso sono giovani, quando non addirittura, come nel caso de Il ragazzo che parla col Sole, un quindicenne e con un punto di vista di un quindicenne […]. Si potrebbe chiedermi se non faccio fatica alla mia età a calarmi in un punto di vista di un quindicenne: rispondo che se dovessi fare un discorso sociologico direi che è difficile, ma in un discorso di tipo metaforico e simbolico no, perché basta ritornare allo stupore, alla curiosità, al pensare che ho ancora tutto da imparare, ho ancora tutto da realizzare. Io molte volte […] penso di me stesso di essere uno che deve ancora imparare tutto, sono curioso di tutto, credo che devo ancora dare, ancora fare, non mi sono mai, si diceva una volta, seduto sugli allori, non ho mai pensato di aver realizzato più di quello che devo ancora realizzare. La nostra mente, poi, non fa i conti con l’anagrafe, però io ho la percezione ancora di essere curioso del mondo, di dover imparare ancora e di dover guardare il mondo con occhi sempre, costantemente nuovi. Questa è una cosa che diventa anche una ricerca di stile, io cerco di avere uno stile che non sia il già visto, il già dato, ma che rinnovi una percezione stessa delle cose, dei sentimenti stessi.» F. Pierangeli, I. Palenca (a cura di), Giuseppe Conte, “Sincronie. Rivista semestrale di letterature, testo e sistemi di pensiero”, Vecchiarelli, Roma, 6, luglio-dicembre 1999, pp. 66-67.
563 G. Ficara, Il luogo felice, in Id., Riviera. La via lungo l’acqua, Einaudi, Torino, 2010, p. 152.
564 G. Conte, Mattinate marine. 7 Passano i bambini in monopattino, in Id., Non finirò di scrivere sul mare, op. cit., pp. 79-80.
565 Ivi, p. 80.
566 «Perdersi nel bigio ondoso/dei miei ulivi era buono/nel tempo andato – loquaci/di riottanti uccelli/e di cantanti rIvi/Come affondava il tallone/nel suolo screpolato,/tra le lamelle d’argento/dell’esili foglie. Sconnessi/nascevano in mente i pensieri/nell’aria di troppa quiete.» E. Montale, Egloga, in Id., Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, op. cit., 1984, p. 75.
567 Cfr., G. Ficara, Introduzione, in G. Conte, L’Oceano e il Ragazzo, op. cit., 2002, p. 21.
Monica Ramò, L’universo poetico di Giuseppe Conte, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova – Université Côte d’Azur, 2022