Si è detto che Biamonti non mostra quasi mai il paesaggio nella sua completezza: ad attirare il suo sguardo sono, di solito, i dettagli che lo compongono, spesso restituiti in marcate associazioni sinestetiche, come quella che unisce il fruscio degli ulivi allo splendore della luce lunare che, come sapeva bene Leopardi, insieme vela e rivela le cose, scoprendole nella loro muta presenza: «Gli ulivi mormoravano nel vento notturno, la luna aveva lasciato un residuo di luce sopra un crinale». <25 Ma è da vedere anche un passo del capitolo quinto dove, ancora una volta, è la luce lunare che rivela il paesaggio: “Giunsero ad Avrigue che da un pezzo era scesa la notte. Il contrafforte montano era tutto stellato. A sud una falce di luna bastava in quel sereno a rendere vicina la rupe dei falchetti. In fondo al vicolo del fico sopra gli orti brillava un muro di calcina”. <27
In questa situazione – che è vagamente leopardiana, come dimostrano la falce di luna e la presenza degli «orti» – assume particolare importanza quella «seconda vista» che, secondo Antonio Prete, produce un effetto di avvicinamento prospettico, consentendo di percepire ciò che è lontano, e, quindi, di ritrovare la «prossimità» nella «lontananza»: <28 è come se il rapporto vicino/lontano venisse rovesciato, con il risultato che la visione, benché allontanata dalla distanza separante, diventa d’improvviso, e in modo del tutto inatteso, «visione del particolare». <29 È il caso, come ricorda ancora Prete, dello sguardo di Dante che, nel primo canto del Purgatorio, riconosce improvvisamente (e «di lontano») «il tremolar de la marina»; ed è una modalità dello sguardo, questa, che si può facilmente individuare anche nel passo di Biamonti, là dove la «falce di luna» non solo svela leopardianamente il paesaggio, ma anche lo avvicina all’osservatore, mettendo in primo piano, grazie al movimento prospettico di cui ho detto, gli aspetti della natura e del paesaggio che sono, almeno in apparenza, dislocati nella distanza (come dimostra, appunto, la visione ravvicinata della «rupe dei falchetti», ma anche quella del fico e del «muro di calcina» che risplende in fondo al vicolo).
Ma numerosi sono gli esempi che si potrebbero citare: tra gli altri, si veda il brano che segue, ancora una volta un elenco degli elementi che compongono il quadro paesistico (al solito: il pendio, la china, il ritano), cui si aggiunge il riferimento alla presenza della luce lunare (in forma metonimica, come quasi sempre accade, a indicare la presenza di un raggio residuale) e, in chiusura di frase, la ‘zoomata’ improvvisa che colloca in primo piano l’evento minimo, accidentale e quasi irrilevante dal punto di vista del quadro complessivo e dello svolgimento narrativo: «Il pendio aveva un costone chiaro e una china buia sul ritano. C’era un po’ di luna. Un vento di montagna scosse il cespuglio da cui Ester stava spezzando un ramo». <30 L’attenzione si rivolge al dettaglio, all’evento minimale che rischia di passare inosservato e sottaciuto, a quel dato minimo del reale che però è in grado, nella sua apparente insignificanza, di restituire un momento vitale, di evocare un’atmosfera, per quanto sospesa e transitoria.
Sempre su questa linea, è interessante vedere come si configura il paesaggio filtrato dalla percezione dei singoli personaggi; nella percezione di Gregorio, per esempio, terra e mare sembrano confondersi e perdere la loro identità, fino a smarrire i loro connotati individualizzanti: ne deriva un’immagine fluttuante e incerta, non facilmente identificabile, in cui si può leggere una sorta di sovrapposizione tra i due paesaggi, con la terra che si assimila al mare e il mare che sembra irrigidirsi in una distesa di arenaria: “Rami d’ulivo, tetti e profili di colli evocavano nella sera la presenza della terra. Sì, essa non era diversa dal mare, ridotta a incisioni quasi argentee. […] Ciò che temeva era una ricaduta in quel male del ferro che lo aveva costretto a sbarcare. Ripensò il mare irrigidito, duro campo d’arenaria…”. <31
Va detto, peraltro, che il mare non è quasi mai un elemento di sfondo; soprattutto nelle “Parole la notte” è una presenza costante, attiva e diffusa, che viene integrata nel paesaggio in virtù della sua luminosità, della sua capacità di riflettere la luce sui sentieri e sulle cime degli ulivi, che ne vengono trasfigurati. Di qui il valore delle metafore marine che, significativamente, compaiono anche nelle descrizioni dei paesaggi di terra, a suggerire arabeschi e disegni di luce che altrimenti non si potrebbero dire (ed è qui che emerge, con evidenza, quel «fine estetico della descrizione» <32 di cui ha parlato Roland Barthes in riferimento alla ekphrasis degli antichi): “Tornarono sul crinale. L’aria tinniva nelle ginestre. Sul mare, rugoso nella sferza della tramontana, appariva già il rosa del mattino. Il sentiero andava su costoni, tra cisti che si aprivano silenziosi. Più in basso, un veliero d’argento tornava a passare sugli ulivi. A varie altezze la collina era avida di luce”. <33
Non sorprende, allora, che la stessa distesa degli ulivi diventi metaforicamente un golfo («Il golfo d’ulivi era grigio»), un’insenatura alla quale poter approdare («come un austero approdo»). <34 Contestualmente, una tendenza ricorrente è quella che sottrae il paesaggio alla vista, determinando, anche per effetto della scelta metaforica, il suo scivolamento in absentia: è il caso delle colline, «due nere ali» che si confondono con il «mare invisibile»; <35 quel mare che si perde fino a svanire «nell’eterno e nel nulla», secondo una modalità di visione che sembra rimandare, più che a Baudelaire e alla sua associazione mare-libertà (“L’Homme et la Mer”), <36 al Valéry del “Cimetière marin” e, specificamente, alla sua concezione del mare come presenza ancestrale ed eterna, come voce perenne rispetto alla quale l’uomo può commisurare il proprio senso di finitudine («La mer, la mer, toujours recommencée!»): <37 “Una zona rugosa e chiara ha morsicati confini che si sciolgono e si ripristinano in un richiamo interminabile. Il mare ossessiona chi lo guarda troppo a lungo, proprio per il suo sciogliersi nell’eterno e nel nulla”. <38
Nessuna sfida tra l’uomo e il mare, in Biamonti, e nessun titanismo di marca romantica: Gregorio, anziché assumere il mare come un «miroir» della propria anima, si limita a guardarlo di lontano, e di certo non lo affronta, a tal punto è divorato dal «male del ferro», <39 dalla sottile angoscia che il lungo navigare trasmette all’uomo, facendogli desiderare l’approdo sulla terraferma. Il mare diventa così un lontano ricordo e, soprattutto, una presenza da esorcizzare: lo si guarda rimanendone a distanza, non lo si affronta direttamente ma lo si vive nel ricordo e nella rievocazione.
[NOTE]
25 Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, cit., pp. 10-11.
26 A questo proposito, è opportuno precisare quanto segue: poiché si tratta di un testo il cui l’intreccio è del tutto secondario, e che si articola attraverso una serie di scarti minimi ma continui, l’analisi può essere condotta selezionando tessere testuali di limitata estensione, micro-sequenze narrative che possono isolarsi senza alcuna difficoltà.
27 Ivi, p. 39.
28 A. PRETE, Trattato della lontananza, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 135.
29 Ibidem.
30 Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, cit., p. 9.
31 Ivi, p. 8.
32 R. BARTHES, L’effetto di reale, in ID., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, trad. it. di B. Bellotto, Torino, Einaudi, 1988, pp. 151-159: 154.
33 Francesco Biamonti, Le parole la notte, prefazione di G. Ficara, Torino, Einaudi, 1998 e 2014, p. 185.
34 ID., L’angelo di Avrigue, cit., p. 9.
35 Ivi, p. 11.
36 A questo proposito cfr. R. DEIDIER, Stili della percezione. Spazio, tempo, poesia, Milano, Marcos y Marcos, 1998, pp. 39-41: 40.
37 Sull’importanza dei poeti per la sua formazione, si veda quanto lo stesso Biamonti ebbe a dichiarare a Paola Mallone: «Insomma da qualcuno bisogna sempre partire. Poi anche la poesia di Montale, di Sbarbaro, come anche la poesia di Valéry hanno influenzato la mia formazione»: P. MALLONE, Intervista, cit., p. 52.
38 Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, cit., p. 11.
Bruno Mellarini, Tra spazio e paesaggio. Studi su Calvino, Biamonti, Del Giudice e Celati, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2018-2019