Non credo, criticamente parlando, a una linea ligure

Il tratto distintivo di Ossi di seppia (1925), la marcata connotazione ligure del referente culturale e geografico (le Cinque Terre delle estati dell’infanzia), è tale da catalizzare la centralità di Montale al vertice della presunta “linea ligustica” con il risultato di appiattire la prospettiva critica su quella che è solo la prima e per certi versi non ripetuta stazione della sua vicenda poetica e di autorizzare un retrospettivo apparentamento di predecessori e di epigoni. Il sostrato della raccolta è, innegabilmente, riconducibile al legame biografico e intellettuale con Genova e alle esperienze intellettuali che vi si consumavano a cavallo dei due secoli: l’inquieta religiosità modernista dei padri Barnabiti accanto agli studi filosofici della sorella Marianna, il classicismo resistente dei poeti locali e le curiosità avanguardistiche dischiuse dall’amico Mario Bonzi, la lezione pascoliana e le molte strade della letteratura primo novecentesca a fecondo confronto nelle proposte antologiche dell’esile rivistina di Oneglia. In Ossi di seppia si ritrova tutto: l’energia immaginativa di Roccatagliata Ceccardi, l’interrogazione metafisica di Novaro, la coscienza dell’inganno del reale e della propria diversità, insieme privilegio e condanna, di Sbarbaro. Ma l’assunzione del paesaggio è fortemente emblematizzata e, accanto alle riconoscibili e connotate immagini, offre un vero e proprio
linguaggio; lo sguardo sulla faticata e scabra natura, rotto il rapporto fiducioso e amoroso, si carica di problematicità e sofferenza; l’inchiesta esistenziale e metafisica viene sostenuta da una risentita implicazione morale, l’esperienza di inautenticità sofferta e contrastata con l’energia del « rifiuto » che informa l’intera raccolta e impone una precisa opzione di poetica (Croce 1990). Le plurivoche e dialettiche soluzioni perseguite si riflettono qui, come nelle raccolte successive, nella imprescindibile articolazione del libro in parti mentre il ricco retroterra del proprio apprendistato (al quale vanno ascritti pure Gozzano e la tradizione e letteratura francese largamente diffuse nella Liguria della prima metà del secolo) appare pienamente attraversato, presentandosi da subito Montale come titolare di una poesia nuova.
Federica Merlanti, La letteratura in Liguria fra Ottocento e Novecento. II. Il Novecento. 2. I maestri del Novecento ligure in Storia della cultura ligure (a cura di Dino Puncuh), Società Ligure di Storia Patria – biblioteca digitale – 2016, p. 119

Com’è ampiamente noto, una larga parte della storiografia su Montale, mentore, si dice, “soprattutto” Giorgio Caproni, introdusse nelle patrie lettere l’etichetta di “ligusticità” che inseriva Montale entro una “linea” che comprendeva poeti dell’Ottocento e del primo Novecento ligure. Contro codesta presunta ligusticità vi fu, nei primi anni ’60, una generale levata di scudi da parte di molti poeti liguri che “contano”: da Barile a Lubrano, e, in testa a tutti, Montale, il quale, senza mezzi termini ebbe a dire che la “linea ligure” a cui “qualcuno” l’aveva ascritto era una pura e semplice “invenzione” di “letterati liguri”: “La linea ligure è stata inventata da letterati liguri ma ha trovato scarso credito fuori della Liguria. Esiste una poesia fatta da liguri, e alcune di essi hanno vaghe somiglianze tra loro. Ma liguri di nascita erano anche Pastonchi, Jahier ed altri che non hanno mai cantato la Liguria (1).
[…] Per farla breve, la questione della ligusticità, che lo “intrappolava” insieme ad altri sia pur apprezzati “colleghi”, Montale proprio non la sopportava. E non gli si può dar torto, perché il poeta degli Ossi fu letteralmente lavorato ai fianchi dai “ligusticisti” sin dal primo apparire degli Ossi stessi.
[…] “A sue trasmissioni radiofoniche sulla linea ligure Caproni accenna in due lettere da Roma a Mario Boselli, rispettivamente del 12 novembre e del 20 novembre 1954” (8).
Non accettando la “formula ligustica” che l’ “inseguiva”, sgradita compagna di viaggio, e che lo assimilava a poeti che egli sentiva comunque “diversi” da sé, Montale dunque sbottò, dopo anni e anni di “sopportazione”, in una recisa negazione della propria “appartenenza” a una “linea” che “confondeva” (e il verbo non è scelto a caso, come si vedrà subito) esperienze di natura molto diversa.
Verosimilmente, egli avrebbe invece sottoscritto con convinzione assoluta il giudizio espresso nel 1928 sul Tevere da Corrado Pavolini, il quale, con tono a mio avviso sincero, scrisse di essere stato colpito nel modo più assoluto dall’ “unicità” della poesia degli Ossi. Per quanto mi riguarda, scrisse Pavolini, la poesia di Montale rivela “un temperamento lirico fuor del consueto, una personalità inconfondibile” [corsivi miei]. Cioè, alla fine, che non si “confonde” con altre esperienze poetiche, come quelle di chi s’immaginò l’esistenza della “linea ligure” (9).
La “linea Ligustica” di Caproni
La questione di una linea ligustica nella tradizione critica nostrana non è mai, dunque, realmente tramontata, specie a proposito di Eugenio Montale, e al susseguente dibattito sviluppatosi sulla ligusticità del poeta. Con ligusticità s’intende la possibilità concreta, ed esperita da molti critici (vado giù un po’ alla buona), non solo di “concordanze”, per temi e lessico, della poesia di Montale con quella di altri poeti liguri, in special modo con Sbarbaro e Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, ma anche di “dirette” derivazioni .
Poiché non tutta la critica concordava unanime sulle suddette “concordanze”, si attivarono, nel tempo, studi attenti a dimostrazione della loro esistenza (o meno) in Montale. Una delle analisi pionieristiche in questo senso fu quella di Giovanni Cattanei, risalente seconda alla metà degli anni ’60 (10). Per Cattanei, la ligusticità avrebbe addirittura dato l’imprimatur iniziale alla poesia di Montale, incentrata sul concetto dell’ “angoscioso destino dell’esistere”; e, in seconda battuta, il critico ravvisava “sicure” concordanze con Sbarbaro, di cui Montale fu, ad un tempo stesso, amico ed estimatore, come del resto si evince con chiarezza dai numerosi oltreché interessanti interventi critici di Montale sullo stesso Sbarbaro.
Avversi a questo indirizzo critico, sicuramente da tenere in considerazione, furono, dopo la “repulsa” di Sergio Solmi, gli altrettanto pionieristici studi di Adriano Guerrini, il quale, pur non credendo all’esistenza effettiva di una linea ligustica, si pose nell’ottica di analizzare i rapporti fra Montale e Sbarbaro, raccogliendo molti materiali da Montale, il quale, negli Ossi di Seppia, aveva dedicato a Sbarbaro due liriche; e dagli interventi critici dello stesso Montale apparsi sulla rivista L’Azione, il 10 novembre del 1920 (11).
Partendo da un livello prettamente biografico, la ligusticità di Sbarbaro è facile a dimostrarsi, essendo egli sempre vissuto in Liguria, e in special modo a Spotorno (“Spotorno, terra avara […] Ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro a un pallido mare”). L’accenno al “mare”, parola chiave nella poesia montaliana (e sulla quale la critica s’è esercitata parecchio), e quello alla “spiaggia sterposa” rinviano alle potenti immagini della Liguria di Montale, suffragando, ancor di più, l’ipotesi di una forte consonanza della poesia di Montale con quella di Sbarbaro: una sintonia difficile da mettere in discussione, almeno a prima vista.
Ma il problema critico reale fu dato dalla difficoltà di stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, se si potesse effettivamente parlare di “influenze dirette” dei poeti liguri su Montale; o se, per converso, non fosse stata la Liguria, con il suo ambiente regionale, il mentore di tutti. Su questo tema si avverte un’impasse difficilmente superabile; ma l’impressione è che sia alquanto arduo parlare, se non latu sensu, di influenze “dirette” dei poeti liguri su Montale; e che, per converso, la ligusticità possa invece ridursi al fatto che il paesaggio ligure avesse potuto suggerire alle varie sensibilità poetiche immagini “simili” .
Questa seconda ipotesi, nonostante i lavori di scavo sul background di Montale, resta un’explanatio potente e difficile da scalfire. Se è ben vero che Montale ebbe, come dicevamo sopra, parole di grande apprezzamento per Sbarbaro, è altrettanto vero che le critiche, anche severe, nei confronti dell’amico non mancarono; come quando, per esempio, egli asseriva che “della prima plaquette, [cioè di Resine], non mette conto di occuparsi: sonetti e quartine e strofi varie, oneste tutte e decorose ma niente più. Lo Sbarbaro vero non è ancora nato” (12).
Una linea ligure della poesia, a quanto pare, potrebbe sussistere, ma la ligusticità non sarebbe comunque da intendersi come il “passaggio del testimone” da un poeta all’altro, quanto come una (mal sopportata) “convivenza” tra poeti che si mossero giocoforza in un “comune” ambiente ispiratore d’immagini e sentimenti; anche se, come Paolo Zoboli rileva, “Guerrini respinge giustamente ogni ligusticità a priori, quasi un’idea platonica che si rifletterebbe sui singoli individui” (13). Adriano Guerrini parlò di una sorta di “sociologismo” che sembrava aver pervaso la critica a proposito della supposta linea ligure: “Da parecchi anni, asseriva Guerrini, ma particolarmente in questi ultimi del dopoguerra, forse a causa di un certo sociologismo che ha penetrato la nostra critica, si è parlato un po’ dovunque di una linea ligure” (14).
Resta comunque la netta impressione che il reale retroterra della ligusticità sia stato proprio la Liguria, suggeritrice di “comuni” immagini suggestive. Se andiamo ad analizzare poeti, per esempio, come Boine (Allora la strada che imbocco, lento, è la mia, queta, tra i muri degli orti, un ciuffo di canne, bisbigliando, ci spia) (15), è impossibile non correre subito con la memoria a Montale, il quale, ne I limoni, ricordava “le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti” .
Questo esempio può essere, credo, abbastanza indicativo del fatto che la ligusticità di Montale non pare tanto ricavata da influssi di “altri” poeti liguri, quanto da suggestioni ambientali, in cui i paesaggi “tipici” della Liguria si affacciano all’attenzione dei poeti ligustici, per poi “caricarsi” della sensibilità individuale del singolo. Certo, prestiti dai poeti liguri precedenti esistono certamente in Montale, ma ciò rinvia semplicemente ad affinità linguistiche che investono l’intero corpus della poesia italiana: un fenomeno che non costituisce certo sorpresa per nessuno.
Nel caso di Montale, gli sforzi per individuare “relazioni” e “concordanze”, quasi a costituire una sorta di albero genealogico dei poeti liguri, è stata operazione meritoria sotto il profilo degli studi, ma criticamente non produttiva a “dimostrare” derivazioni “dirette” da precedenti poeti liguri. Sembra pertanto, che si possa parlare di un “pattern” ligustico comune ai poeti liguri, ma che tale background non vada molto oltre la “geografia” dei paesaggi, gli unici che sembrerebbero creare “convergenze” tra poeti molto diversi l’uno dall’altro, e per i tempi e per resa poetica.
La linea ligustica fu un’ etichetta particolarmente fortunata, non certamente “inventata” (nella sostanza), ma “perpetuata”, dopo i primi assaggi nell’immediata pubblicazione degli Ossi, da un poeta, ligure per adozione, della statura di Giorgio Caproni, il quale, in un’intervista a Minnie Alzona del ’67, asserì, senza ambagi, d’essersi divertito “a tessere una linea che per primo [preferì] dire ligustica”. Poi Caproni proseguiva, rammaricandosi che la sua “battuta” avesse avuto eccessiva risonanza critica, dispiacendosi che la sua “proposizione” avesse goduto di sì grande fortuna, “fino a meritare gli onori di confutazioni ‘critiche’ come per esempio quella dell’amico Guerrini, cui certamente sfuggì il vero senso del mio –molto vezzeggiativo- concertino” (16).
Certo che, più che un “concertino”, derivante dall’aver individuato quasi “per ischerzo” una linea ligustica, la presunta boutade di Caproni si mutò invece in un “concertone”, i cui echi sono arrivati fino a noi. Il concetto di ligusticità fu dunque fatto passare da Caproni come una boutade, presa più sul serio da altri che da lui stesso; avendo così, aggiungeva ancora Caproni, gli onori di una “parallela” linea critica di “confutazione”. Coloro che presero “sul serio” la presenza di una linea ligure furono parecchi. E, a tal proposito, rinvio al saggio di Giorgio Taffon del 1980 (17), il quale partì nella sua precisa e accurata rassegna dall’intervento di G. Mariani del 1958 (18), in cui il critico individuava “l’impegno della tradizione poetica ligure nei versi di Montale”. “Esso consisteva, continuava Taffon, innanzitutto nella ripresa di alcuni motivi essenziali della weltanschauung boiniana, di un Boine mediato da Sbarbaro, quali ‘visione della realtà come faticoso travaglio, interpretazione dell’esistenza come dura conquista e amara approssimazione alla verità’ […] Tali motivi costituivano ‘la prima, lontanissima origine di quell’atteggiamento che nella lirica di Montale si concreterà in voci di aspra suggestione umana’ ” (19). Agli inizi degli anni ’60, Pietro Bonfiglioli) (20) avvertiva in Montale ‘la mediazione lessicale operata da Sbarbaro […] o quando imputava certo tecnicismo marinaresco montaliano più che al Pascoli alla stessa tradizione ligure; o ancora quando rinveniva in certe serie nomenclatorie di tipo zoologico-botanico un tramite sicuro, tra Pascoli e Montale, in Sbarbaro e Ceccardo […] inventore, secondo Bonfiglioli, del tema orto-muro-mare” (21). Taffon si soffermava inoltre sull’intervento del 1965 di Silvio Ramat (Montale, Firenze, Vallecchi, 1965), il quale “stabiliva l’importanza avuta da Sbarbaro nell’apprendistato lirico montaliano”. Indugiando poi su Giovanni Cattanei (La liguria e la poesia italiana del Novecento, Milano, Silva, 1966), Taffon rilevava come “il Cattanei attribuiva ai legami ‘ligustici’ di Montale il primo vero punto di partenza della sua poesia” (22).
Il risultato, però, fu una generale “rivolta” dei maggiori poeti inseriti nella presunta linea ligustica: da Angelo Barile a Renzo Laurano, e, naturalmente, Montale, i quali, intervistati sul tema da Minnie Alzona nel 1967 (tutti insieme accomunati), fecero, appunto, “insubordinazione”, rifiutando di netto d’essere dislocati lungo una linea diventata col tempo un po’ troppo “rovente”, come il “muro” di Montale, e perciò molto “fastidiosa” (per Montale addirittura asfissiante per calura), tanto da rendere tutti quanti insofferenti all’etichetta.
Di qui Montale, il quale, lapidario, sentenziò che “la linea ligure è stata inventata da letterati liguri” (23).
Renzo Laurano fu altrettanto categorico: “Mi sembra proprio di non appartenere, e non ho da dolermene né da compiacermene, al filone ligure per tono e ispirazione anzi alla linea ligustica, come la chiamano gli addetti” (24).
[…] Ora, la “negazione” di Barile dettata a Minnie Alzona fu pubblicata del 1968, ma era del 1967, essendo il poeta morto in quell’anno; cioè ad appena un anno dall’ inserzione “a pieno titolo” di Barile stesso nella linea ligustica proposta dal volume di Giovanni Cattanei, pubblicato nel 1966. Va da sé che la “negazione” di Barile fa il paio con quella, altrettanto recisa di Montale, il quale, come dicevamo sopra, l’embrassons nous della critica italiana “ispirata” da Caproni sembra non fosse stata per nulla digerito dal poeta degli Ossi, dimostratosi, in tal frangente, un osso fin troppo “duro” per Caproni. Si è parlato, in tal senso, di un evidente e gelido “raffreddamento” dei rapporti tra i due: “E’ possibile, scrive Adele Dei, che tra le ragioni del totale silenzio di Montale su Caproni, pesante e certamente deliberato, ci siano stati proprio quegli articoli: sempre senza mai nominarlo. Montale risponderà anni dopo in un’intervista con gelida recisione: ‘la linea ligure è stata inventata. Esiste una poesia fatta da liguri’ (28) [corsivi miei].
A stemperare un po’ l’atmosfera, verrebbe da dire che non è poi detto che dal “gioco” di Caproni non fossero poi scaturiti risultati “seri”. In questo senso, gli scandagli condotti sulla lingua dei poeti liguri hanno portato alla luce aspetti e relazioni prima “invisibili”, e sicuramente con profitto (29).
Tuttavia, come sottolineò a suo tempo Alberto Frattini, “i raggruppamenti per linee sono utili per un primo orientamento”; ma tale metodo “è, ad un esame critico più rigoroso, sempre discutibile”; poiché “un’altra grossa difficoltà che agevolmente si riscontra è che il ‘nesso regionale’ nelle famiglie di poeti […] non basta a spiegare certe sostanziali qualità dei singoli scrittori e artisti, e comunque tanto meno quando più vigorosa è la loro personalità” (30).
E un qualche ripensamento ci fu anche in Caproni, e probabilmente in forza della sollevazione generale dei ligustici “per forza”. Egli infatti confessò a Silvio Ramat nel 1966 che, forse, non era proprio il caso di “prendere proprio alla lettera la tesi fino a un certo punto fondata d’una ‘linea ligure o ligustica’ allora da me assunta per semplice comodità di un discorso che voleva rimanere e rimane soltanto descrittivo” (31).
L’anno successivo, nel 1967, Caproni, intervistato da Minnie Alzona, continuò a cospargersi il capo di cenere. Alla domanda dell’intervistatrice: “Ha qualcosa da obiettare alla sua appartenenza alla linea ligure che molti critici le riconoscono?”, Caproni confermò quanto aveva detto a Ramat: “L’unica cosa che ho da obiettare è che non credo, criticamente parlando, a una linea ligure” (32).
[NOTE]
1) Sezione Poeti e Narratori liguri, “Intervista di Minnie Alzona”, in AA. VV., Genova libro bianco, Genova, Sagep, 1967, p. 121.
8) Paolo Zoboli, “Caproni, Toba e il gibbone: la ‘Calata nel limbo’ e la ‘Città dell’anima’, in Otto/Novecento, 2003, n. 1, p. 129 nota.
9) Cfr. G. Mariani, I primi giudizi sulla poesia di Montale, cit., p. 41 nota 2: C. Pavolini, “Scrittori giovani. Eugenio Montale”, in Il Tevere, V, 1928, n. 97.
10) Giovanni Cattanei, La Liguria e la poesia italiana del Novecento, Milano, Silva, 1966, pp. 239-241.
11) Adriano Guerrini, “Montale e Sbarbaro”, in Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del poeta, Genova, Bozzi, 1977.
12) La “stroncatura” di Montale su Sbarbaro apparve in E. Montale, “Camillo Sbarbaro”, in L’Azione, 10 novembre 1920, poi raccolta in E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 189.
13) Paolo Zoboli, “Linea ligure: Sbarbaro, Montale, Caproni”, in Interlinea, 2006, p. 94.
14) Adriano Guerrini. “La linea ligure”, in Diogene, V, 6, dicembre 1963, p. 12.
15) Giovanni Boine, Frantumi, seguiti da Plausi e Botte, Firenze, Soc. An. Editrice La Voce, 1921, p. 72.
16) “Risposte a Minnie Alzona”, in Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990, a cura di Melissa Rota. Introduzione di Anna Dolfi, Firenze University Press, 2014, p. 75. Le Notizie sui testi, p. 461 n. 17, rinviano a una intervista di Minnie Alzona sul “Gazzettino” di Venezia: “Intervista ai poeti e narratori liguri di nascita o d’adozione”, a cura di Minnie Alzona, in il “Gazzettino” di Venezia, 1967. Minnie Alzona, a quanto è dato vedere, fece diverse interviste ai poeti ligustici, come quelle ad Angelo Barile: Minnie Alzona, “Angelo Barile e la linea ligure”, in Il Gazzettino, 3 maggio 1966. Cfr. Alberto Frattini, Poesia e regione in Italia, 1983, p. 69, nota 19. E ancora, Minnie Alzona, “Angelo Barile nega che esiste una linea ligure” , in “Il Gazzettino” di Venezia, 3 maggio 1968 .
17) Giorgio Taffon, “Un ventennio di studi sui poeti liguri contemporanei. III. Eugenio Montale e Angelo Barile”, in Cultura e Scuola, aprile-giugno 1980, n. 74.
18) G. Mariani, “Eugenio Montale”, in Poesia e tecnica della lirica del Novecento, Padova, Liviana, 1958, pp. 137-168.
19) Giorgio Taffon, Un ventennio di studi sui poeti liguri, cit., pp. 35-36.
20) Pietro Bonfiglioli, “Pascoli e Montale”, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, Bologna, 1962, I, pp. 219-243.
21) Giorgio Taffon, Un ventennio di studi sui poeti liguri, cit., p. 36.
22) Ivi, p. 37.
23) Sezione Poeti e Narratori liguri, “Intervista di Minnie Alzona”, cit., p. 121.
24) Ivi, p. 117.
28) Adele Dei, Le carte incrociate. Sulla poesia di Giorgio Caproni, San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 62.
29) Giorgio Taffon, come esempio particolarmente significativo, citava il saggio di Vittorio Coletti (“Modelli linguistici in concorrenza (Primavera di Angelo Barile)”, in Atti del Convegno di Studi su La Poesia di Angelo Barile, Genova, Resine, Quaderni Liguri di Cultura, 1978, p. 168), il quale, venendo a parlare di Pupilla, vi osservava la presenza di elementi che ‘si innestano bene in un patrimonio linguistico ‘ligure’, da Ceccardi a Boine a Montale’” (p. 47).
30) Alberto Frattini, Studi di poesia e di critica, Milano, Marzorati, 1972, p. 217.
31) Cfr. Silvio Ramat, Omaggio a Montale, Milano, Mondadori, 1966, p. 399.
32) “Risposte a Minnie Alzona”, in Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990, cit., p. 75.
Enzo Sardellaro, Fu Montale “ligustico”?, Academia.edu

Caproni non ha intenzioni universalistiche, non ha specializzazioni di sorta e non ha una casa ideale in cui asserragliarsi per giudicare il mondo, se non quella della sensibilità e dell’esperienza personale (dopo la guerra, generazionale) e pertanto arriva a diffidare delle sue stesse capacità astrattive quanto più si sente calato in una realtà inautentica, ridotta, molto prosaicamente, al libro da recensire e al pezzo (“pezzullo”, “articolessa”) da confezionare entro una data sempre troppo prossima. Anche quando si troverà a fare dei tentativi più strutturati, infatti, incorrerà in un naufragio delle intenzioni prima ancora che dei risultati, i quali invece spesso daranno vita a studi e interessi perduranti, come nel caso degli autori cosiddetti “ligustici”.
Il Caproni più autentico, e per certi aspetti il più significativo, non ha la presunzione di ordinare il mondo letterario per via di categorie e dubita che qualcuno possa farlo, di certo rifiuta l’idea che qualcuno possa farlo per lui. Passa da una lettura attenta e reiterata a un giudizio che si fa più volentieri testimonianza, quando non è l’orecchio infallibile del poeta a scandagliare i motivi stilistici della composizione, secondo l’obiettivo di collegare suono e significato nel più montaliano dei dettami: musica + idee. Ma questa piccola magia non può essere un mestiere e se il massimo del risultato per un autore che gli si proponga è sentirsi dire che la sua opera sarà collocata nello scaffale di lavoro per essere ripresa e rimeditata con calma, la maggior parte dei libri ricevuti finisce nella zona morta della libraria; quando recensire significa togliersi dall’impaccio di un debito ed accumulare, dimenticare.
[…] Il modello critico caproniano, prima filosofico e poi storico con l’esperimento della “linea ligustica”, rinuncerà presto a definirsi confluendo sulle ragioni di una prassi giornaliera del buon senso, sospesa fra le varie esigenze pratiche sebbene mai priva di un originario moto d’interesse sincero per l’oggetto della discussione o della recensione e animato da profondo rispetto e umiltà, presto maturati, per i fatti letterari.
[…] interessante poi l’attenzione per alcuni poeti come quelli della cosiddetta “linea ligustica” per cui è logico supporre che Caproni andrà a ricercare informazioni anche nei pezzi montaliani, o l’attenzione per Lorenzo Calogero, <56 di cui a tutt’oggi Caproni offre una delle testimonianze più vive; per non parlare di tutto l’insieme di poeti stranieri, soprattutto francesi, che alternativamente passano dalle attenzioni dell’uno a quelle dell’altro.
[…] Si può ancora segnalare una presenza consistente sui temi della letteratura ligure, con i pezzi della cosiddetta linea ligustica, databili agli anni Cinquanta, ai quali non sarà disagevole allegare le altre attenzioni alla “civiltà adottiva” dell’autore per quanto riguarda le arti e la vita di quella regione.
56 Un successo postumo, «Corriere della Sera», 14 agosto 1962, Secondo mestiere, II, p. 2471.
Fabrizio Miliucci, Lettore e letterato. Attività critico-giornalistica (1933-1989) di Giorgio Caproni, Tesi di Dottorato, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2015-2016

La realtà plurima s’imbatte in un ostacolo, che si concretizza nei vari rimandi all’immagine del muro: «muricciolo», «muretto», «murata»… Questo è il limite, come ha più volte ribadito lo stesso poeta, della ragione, che «compie dei miracoli», ma che al contempo può rivelarsi una specie di gabbia, non essendo più in grado di risolvere gli interrogativi del mondo contemporaneo: l’inadeguatezza del linguaggio, il dissesto del non saper spiegare cosa sia il bene e cosa sia il male, la perdita di alcune certezze e della centralità dell’io. <53
53 Percezioni comunque già accennate anteriormente, come per esempio nei significativi testi dedicati alla corrente ligustica, e che ora, potenziati dall’impotenza di fronte al muro, dominano la poetica e il pensiero caproniano: «segni viventi e vissuti d’una realtà o verità che sfugge in continue cangianti plurivalenze di significati» (Prose critiche, p. 650). Il paesaggio, come viene sottolineato in questi testi, diventa e si fa alfabeto, su questo si veda Adele Dei, Caproni ‘ligustico’ il mare, in Le carte incrociate: sulla poesia di Giorgio Caproni cit., pp. 61-73; Stefano Verdino, La linea ligure secondo Caproni, in Giorgio Caproni: lingua, stile, figure, a cura di Davide Colussi e Paolo Zublena, Macerata, Quodlibet, 2014, pp. 59-71.
Patricia Peterle, Stazioni per una cartografia in (a cura di) Anna Dolfi, «Per amor di poesia (o di versi)», Seminario su Giorgio Caproni, Firenze University Press, 2018 (Moderna/Comparata ; 28)

Riecheggiano variamente il Barile di Primasera e il Gatto di Isola (da cui forse Caproni ha tratto la «prim’alba» di al primo galletto), il Montale degli Ossi e il lessico ordinario di Sbarbaro <28. Questa componente ligure della cultura poetica di Caproni cresce fino ad assumere le proporzioni preponderanti di una «memoria generazionale» <29: mantenendosi sempre aliena da ogni regionalismo, questa vena «ligustica» vale come filtro e trasformatore di vari linguaggi e molteplici suggestioni <30.
[NOTE]
28 «ricordo ancora l’enorme impressione che mi fecero gli Ossi di seppia di Montale […] nel ’30 quando me li comprai […]. Ma credo che soprattutto Pianissimo di Sbarbaro abbia influito su tale mia formazione, per la virile disperazione che leggevo in quei versi, e per la dolcezza che sentivo dentro la parola “aspra” e disadorna » (dichiarazione di Caproni in Il mestiere di poeta, cit., p. 133).
29 a. Dei, Giorgio Caproni, cit., p. 19.
30 lo stesso Caproni divenne più tardi un convinto teorizzatore dell’esistenza di un ben preciso filone ligure nella letteratura italiana, affrontando la questione una prima volta con una serie di quattro articoli apparsi sulla «Fiera letteraria» e riuniti sotto il titolo La corrente ligustica nella nostra poesia, in «la Fiera letteraria», dal 4 al 25 novembre 1956. per un’analisi di questa proposta caproniana si rimanda a M. Benedetto, Caproni critico: i poeti liguri e la linea ligustica, nel numero monografico Omaggio a Giorgio Caproni di «Resine», XIII (1991), 48, pp. 29-35. indispensabile, al fine di una più completa e attualizzata considerazione di tale categoria critica, la lettura di p. Zoboli, Linea ligure. Sbarbaro, montale, Caproni, interlinea, Novara 2006: in particolare il capitolo Per una storia della “linea ligure”, pp. 81-102.
Riccardo Mozzati, La nostalgia del non invocabile. Poesia e senso religioso nell’opera di Giorgio Caproni, Cap. 1 – Primo tempo di Caproni: “levitas” e “gravitas” in Sacra Doctrina, Anno 64° 2019/02, Edizioni Studio Domenicano

A Porto Maurizio Boine si fece animatore di molteplici iniziative locali, fautore della nascita della biblioteca comunale e di un ciclo di conferenze che coinvolse Salvemini, Prezzolini e Jacini; da Porto Maurizio intensificò la partecipazione (avviata nel 1909) al dibattito culturale della «Voce» e, di seguito, le collaborazioni ai periodici e quotidiani («Il Resto del Carlino», «Il Marzocco», «La Tribuna») le cui porte un altro amico, Emilio Cecchi, riuscì di volta in volta a dischiudergli.
Ma nella collocazione liminare dell’estremo ponente ligure e, insieme, nel richiamo di laboriosa concretezza della contigua Oneglia, visse pure una tormentata condizione di marginalità sociale e storica, culturale ed esistenziale, sublimandovi come stimmate la stessa malattia fisica e imponendo al vincolo ideologico e lirico con il proprio paese una accusata cifra di “ligusticità”.
Il manifesto di una riflessione condotta in corpore vili, intitolato La crisi degli olivi in Liguria e percorso dal vivo sentimento del disagio e della perdita del ruolo dell’intellettuale nel nuovo contesto economico e sociale, fu affidato alla «Voce» nel 1911; con esso le proposte di estetica dell’Ignoto (1912), costruite sul rifiuto della rigida schematicità dei generi, sull’opzione per una espressione raddensata che insegua la «libera vita», le cose, i pensieri, i sentimenti nella loro complessità e simultaneità.
Federica Merlanti, La letteratura in Liguria fra Ottocento e Novecento. II. Il Novecento. 1. «La Riviera Ligure» e i suoi poeti in Storia della cultura ligure (a cura di Dino Puncuh), Società Ligure di Storia Patria – biblioteca digitale – 2016, pp. 112-114

[…] la lettura di Ungaretti permette a Caproni di reinterpretare tutte le forme ritmiche della poesia tradizionale attraverso la lente dell’essenzialità, della cura dei silenzi e dei suoni che si alternano nella pagina. Inoltre, sempre negli stessi anni riscopre quella ‘linea ligustica’ della poesia italiana che lui stesso proporrà quale categoria critica e che si spiega con il fascino che Caproni riscopre nella lettura dei poeti liguri già affermati e del giovane Montale “Per la verità tutto partì quando comprai Ossi di seppia, che ero, si può dire, ancora un bambino, perché non comprai la prima edizione che era del ’25, ma comprai la seconda del 1927 e mi ricordo che con un amico, Adelio Ciucci, anche lui studente, sì, di musica, di violino, leggevamo dei poeti, ma eravamo arrivati a Cardarelli, e io vidi questo libro Ossi di seppia. Mi colpì il titolo, lo comprai, non comprendavamo, son chiarissimi no?, ma per noi no, non comprendavamo una parola. Però quest’ondata di musica, no di musicalità, ma di musica, ci investì in pieno […]. Però poi, da Montale…naturalmente poi mi capitò di leggere Sbarbaro, e allora mi innamorai, forse più che di Montale e mi nacque poi la curiosità d’andare a rivangare tutti i poeti genovesi […]”. <140
La riscoperta dei poeti genovesi è in realtà la rilettura di quel gruppo di poeti che aveva pubblicato su ‘Riviera ligure’, rivista letteraria fuori pubblicazione dal 1919, in cui scrivevano, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Giovanni Boine, Mario Novaro e, soprattutto, Camillo Sbarbaro. Il giovane poeta livornese ricorderà anche il momento dell’acquisto del primo numero della rivista ‘Circoli’, nei primi mesi del 1931. In questa occasione avviene la lettura, folgorante, di Versi a Dina di Sbarbaro appunto , che rimarranno per sempre un esempio nella mente di Caproni (si pensi a Altri versi a Rina in Ballo a Fontanigorda che riecheggia da vicino il titolo di Sbarbaro). Alla redazione di questa rivista Caproni invia le sue primissime poesie, caratterizzate da sperimentalismo e forti influssi surrealisti, che vengono rifiutate perché giudicate eccessivamente acerbe, irruenti.
[…] Muore, il 22 febbraio 1956, il padre del poeta, Attilio Caproni. L’attività critica di Giorgio Caproni si concentra, in questi anni, sulla definizione della ‘linea ligustica’ della poesia italiana, che riconosce affinità di cultura, reazione al paesaggio e di sensazione fra alcuni dei poeti liguri che avevano avuto un ruolo centrale nelle letture del giovane Caproni. Esce per Vallecchi Il passaggio di Enea, che ripropone tutte le poesie fino ad allora edite, ricollocate e variate in alcuni punti, ma che definisce la produzione poetica di Caproni fino a quelle date.
Francesco Nicolini, Testualità, retorica, brevità. Per una lettura di testi di Giorgio Caproni, Tesi di Dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2011

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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