[…] Attraverso il confronto tra le due operazioni di traduzione dell’Orestiade e del Vantone è emerso un interessante spunto di riflessione.
In occasione del lavoro compiuto da Pasolini sulla trilogia eschilea, lo stesso autore, nella ormai famosa lettera di traduzione, ci svela che «[…] nei casi di discordanza ho fatto quello che l’istinto mi diceva: sceglievo il testo e l’interpretazione che mi piaceva di più» <160. Ciò ci ha permesso di dedurre che nella sua operazione di traduzione dell’Orestea lui si sia appoggiato ad altri analoghi lavori <161. Nel caso del risvolto di copertina alla prima edizione Garzanti della commedia plautina, invece, Pasolini non ha fatto alcun esplicito riferimento a testi di appoggio consultati, nonostante in commercio esistessero alcune interessanti traduzioni, affermando solamente che «a proposito di Plauto, non sono provvisto del materiale necessario per una revisione. Non c’è che questa lettura isolata, su testo vivisezionato per necessità tecniche»162. Sicuramente Pasolini era a conoscenza dell’esistenza di altre traduzioni del Miles Gloriosus, essendo impensabile che egli abbia proceduto al suo lavoro di traduzione senza essersi prima informato sulle precedenti esperienze di riadattamento del testo classico, così come è anche da escludere l’ipotesi che lui le abbia presuntuosamente ignorate perché ritenute artisticamente non valide. In realtà, con questa traduzione Pasolini voleva realizzare, questa volta in forme ancora più decise e radicali rispetto quanto aveva fatto nel suo precedente lavoro, un’operazione di riappropriazione e di rifacimento totale del testo antico, puntando non tanto alla resa del significante latino quanto alla cura del suo significato moderno, per la rinascita del teatro italiano degli anni ’60. Effettivamente, quando nei primi anni ‘60 Pasolini portò a termine con il suo Vantone la traduzione del Miles Gloriosus di Plauto, sul mercato librario erano in circolazione alcune traduzioni abbastanza recenti dall’innegabile valore artistico: la versione poetica di Guido Vitali con testo a fronte, edita nel 1953 in un’autorevole collana di classici latini, ma soprattutto altre due versioni in prosa, di Icilio Ripamonti con testo a fronte e di Mario Scandòla, senza testo latino, pubblicate rispettivamente nel 1953 e nel 1955 in collane editoriali di più larga diffusione <163. Tra queste appena citate, quella effettivamente più importante è quella del Ripamonti, perché è l’unica versione in italiano del Miles ritrovata nella biblioteca dello scrittore dopo la sua morte. Sarà molto utile, a parer di chi scrive, fare dei raffronti tra la versione pasoliniana e il volume ora ricordato, perché alcune caratteristiche di quella edizione corrispondono in modo molto similare ad alcuni interessanti aspetti del Vantone, secondo certe corrispondenze sicuramente non casuali. Pleusicle: <164 Se per voi va bene per me va bene, sì! tu sei un vero amico! Periplecomeno: Grazie, per ’ste parole! Palestrione: (Lo credo, che le dice!). Pasolini traduce gli originali versi 615-616 di Plauto prendendo spunto dalla medesima attribuzione delle battute adottata dal Ripamonti, ma le edizioni critiche più moderne e filologicamente esatte <165 affidano logicamente la seconda battuta al servo Palestrione che ringrazia il suo padrone Pleusicle, mentre la terza viene attribuita a Periplecomeno che commenta il dialogo tra i due. Attraverso una consultazione dell’autografo, operazione utilissima per spazzare via ogni dubbio a proposito di queste piccole spie stilistiche, ci si rende subito conto che anche lo stesso Pasolini aveva notato qualche incongruenza nel dialogo tra i tre personaggi, perché nella pagina 48 dello stesso, la seconda battuta è assegnata al vecchio Periplecomeno; il nome del personaggio è stato successivamente cancellato e corretto con quello di Palestrione, cancellato a sua volta e corretto, secondo quanto il testo di Ripamonti suggeriva, e questa volta in modo definitivo, con quello di Periplecomeno. Lucrione: <166 Sì, ma no co’l naso: quello ha il ronfo proibito! / Così, alla chetichella, il bravo cantiniere, / maneggiando i fiaschi, s’è fatto il suo bicchiere! Anche in questo caso Pasolini si fida della versione di Ripamonti e anche questa volta viene smentito dalle nuove versioni del Miles che attribuiscono solo il primo verso allo sciocco Lucrione e gli altri due all’astuto Palestrione. È alquanto improbabile ipotizzare che sia il Ripamonti che Pasolini, che non era sicuramente uno sprovveduto, abbiano commesso lo stesso errore in perfetta autonomia: se, di contro, consideriamo che entrambi commisero la stessa leggerezza e che proprio questa traduzione fu ritrovata nella biblioteca pasoliniana, possiamo allora essere ampiamente sicuri che la nostra interpretazione critica abbia un certo fondamento metodologico, che non sminuisce o inficia assolutamente l’alto valore artistico della commedia prodotta. Al di là delle problematiche circa la comune errata attribuzione di battute a questo o a quel personaggio, il confronto tra il testo pasoliniano e le altre traduzioni cui abbiamo fatto prima riferimento è un utile procedimento per cogliere la portata artistica della libertà con cui il rifacimento de Il Vantone si rapporta al testo originale, pur mantenendone inalterata la trama originale. Sono testimonianza di questa grande libertà stilistica soprattutto i numerosi tagli che Pasolini ha operato rispetto all’originale: uno di essi, l’unico nel suo genere, è di contenuto, in quanto importanti indicazioni sono ravvisabili in merito all’antimilitarismo <167 di Plauto, vero o presunto, che lo stesso Pasolini, come affermava, ha effettivamente accentuato. In occasione della ‘telecronaca’ di Periplecomeno ai movimenti di Palestrione, intento a trovare un’idea brillante per realizzare la sua beffa, il traduttore bolognese ha totalmente ignorato le battute del vecchio: Periplecomeno: <168 Non vedi che il nemico è già alle tue spalle e ti assedia? Fatti venire un’idea, trova a tutti i costi i mezzi che ti aiutino a risolvere questo affare. Bisogna sbrigarsi, non si può perdere tempo! Previeni in qualche modo l’attacco, guida l’esercito attraverso qualche passo e accerchia i nemici, assediali, rafforza le difese dei nostri; taglia i viveri agli avversari e apri una strada sicura da cui possano arrivare i rifornimenti a te e alle tue legioni. Su, datti da fare, il tempo stringe! Trova, escogita qualcosa e scodellala in fretta calda calda: quel che è stato visto non deve esser stato visto e quello che è stato fatto non deve esser stato fatto! Eh, sì! L’uomo sta ponendo le basi di una grande impresa e rafforzando le mura alla grande! Se tu da solo te ne assumi le responsabilità, ho fiducia che possiamo sconfiggere i nemici. Pasolini, al contrario, concepisce la beffa, intorno cui far ruotare tutte le sorti dello spettacolo, solo nel termine metateatrale del discorso, non certo come metafora militare basata sulla contrapposizione tra due eserciti avversari, nonostante l’antitesi tra le due schiere contrapposte sia comunque innegabile. Il servo Palestrione non deve assolutamente combattere un esercito avversario ma, contro le difficoltà che gli si pongono contro, deve far prevalere il suo ingegno, la sua astuzia e la sua creatività scenica, quasi come un capocomico della Commedia dell’Arte. Ecco perché il Periplecomeno di Pasolini, per svegliare Palestrione dal suo stato di trance ideativa, gli dirà solamente Periplecomeno: <169 Guarda, ce sta er nemico pronto a farti secco. Per quanto riguarda l’altra tipologia di tagli che Pasolini ha adottato, possiamo affermare che sono decisamente più veniali, perché adottati per conferire al testo una maggiore teatralità, in quanto riguardano le indicazioni sceniche presenti nel testo antico che, nella versione moderna, avrebbero comportato un notevole rallentamento dell’azione drammatica; sono soprattutto molto importanti dal punto di vista stilistico quelli realizzati in occasione dei lunghi dialoghi pronunciati dal servo Palestrione: Palestrione (rivolto all’interno di casa Periplecomeno): <170 Non uscite di casa ancora per un pò, Pleusicle; lasciatemi guardare bene che non vi sia da qualche parte chi insidi alla riunione che vogliamo tenere. Adesso abbiamo bisogno di un posto sicuro, dove non ci sia nessun nemico che possa cogliere brandelli della nostra conversazione. Anche una buona deliberazione diventa cattiva se è il nemico a servirsene: ed è inevitabile, che se giova al nemico, nuoccia a te. Succede più spesso di quanto non si creda che un’idea ben ponderata venga rubata, se non si sceglie con la massima attenzione il luogo ove tenere il dibattito: perché se i nemici vengono a sapere il tuo piano, se ne servono per tapparti la bocca e legarti le mani e per fare a te quello che tu avresti voluto fare a loro. Ma io son qui apposta ad accertarmi che in nessun posto, né a destra né a sinistra, ci sia un cacciatore pronto a impossessarsi del nostro progetto con reti orecchiute. Ma non scovo nessuno, nemmeno se ficco lo sguardo fino in fondo alla piazza. Allora li faccio venir fuori. Ehi! Periplecomeno e Pleusicle, venite! Palestrione in quest’inizio del terzo atto è il protagonista assoluto della scena, perché i suoi due complici sono in casa e attendono il suo segnale per uscire. Egli, dal verso 596 al 610 ripete continuamente le sue preoccupazioni, lasciandosi andare ad una prolissa e ripetitiva esposizione sul rischio d’essere spiato mentre delinea il seguito del piano a Periplecomeno e Pleusicle. Pasolini,invece, realizza un’operazione di estrema sintesi, riducendo il monologo di Palestrione a solo nove versi: Palestrione: <171 Ah! Stateve fermi, lì ancora un pochetto: / Fateme dà un’occhiata, ‘sto posto è maledetto! / Volete stà tranquilli? Raggionà in santa pace? / Un piano, se è scoperto, non è più efficace: / dico bene? Er nemico, va tenuto all’oscuro / ché se scopre i tuoi piani, te li mette in der c…! / Boh, nun ce sta nessuno, da ‘ste bande, me pare: /vedo dappertutto libera visuale… / Pleusì, Periplecò, ve potete affaccià! Pasolini ha ridotto all’essenziale le parole di Palestrione principalmente per due motivi facilmente individuabili: un monologo lungo quindici versi, esposto in scena mentre il personaggio magari cerca affannosamente qualcuno o qualcosa dappertutto, avrebbe rallentato l’azione scenica, facendo perdere di vista il clou dello spettacolo, cioè la preparazione della beffa, soprattutto dopo che la prima difficoltà era stata superata ai danni di Sceledro e ci si preparava all’esito finale del piano; il secondo motivo, forse quello più importante, è che probabilmente Pasolini ha voluto eliminare questo atteggiamento eccessivamente apprensivo, ai limiti del maniacale, da un personaggio delineato precedentemente con i tratti dell’eroe ingegnoso e impavido di fronte a qualsiasi difficoltà. Il taglio più notevole, invece, il traduttore bolognese lo realizza nella prima scena del terzo atto, immediatamente dopo l’apprensione del servo Palestrione che abbiamo descritto poc’anzi: una volta usciti Periplecomeno e il suo ospite, Pleusicle ringrazia il vecchio per la sua estrema gentilezza e lui, in un momento di grande confidenza, risponde alle domande del giovane attico e di Palestrione in merito alla sua scelta di non prendere donna con sé. Nella versione moderna cui abbiamo fatto riferimento <172, il dialogo tra i tre prosegue per sette pagine, cinquanta battute in cui il senex parla del bene dell’amicizia e dell’ospitalità sacra, dei tanti buoni motivi per cui non ha preso moglie, dei vantaggi di non avere figli e della sua grande famiglia di servitori che si è creato intorno. Pasolini invece ha preservato il lato antifemminista del senex, ma ha tagliato radicalmente tutti gli altri discorsi, consentendo a Palestrione, dopo solo quattro pagine, diciannove battute, di dire «Mo annamo al sodo, a così! State qua con la testa, nun c’è da perde tempo….Io ci ho in mente ‘na tresca da mannà er generale olmo, senza più un pelo» <173. Per suggellare quanto abbiamo affermato ci viene in soccorso per l’ennesima volta l’autografo, che riporta il taglio scenico, con un segno di mancanza nel margine sinistro ‘>’ indicante probabilmente la possibilità di un ripensamento, che alla fine non c’è stato.
Alla sua traduzione Pasolini conferisce anche una maggior rapidità nel ritmo, una più autentica comicità, ma soprattutto una costante pregnanza semantica, mediante l’uso d’espressioni concepibili solo nel suo dialetto romanesco, scatti esclamativi o inflessioni colloquiali, riuscendo ad ottenere una straordinaria mimesi del parlato popolare:
Periplecomeno: <174
[…] Che co’ tutta ’sta grana
Che me ritrovo, pensa un po’ che anima
de moje <175 che potevo pijà, e no l’ho fatto.
Perde la libertà? Aòh, mica so’ matto!
‘Na moje! Se esistesse una moje ideale,
beh, tanto tanto, allora ti puoi pure sposare…
La parlata romanesca qui utilizzata ed accostata nell’immaginario colloquio condotto dal vecchio scapolo convinto Periplecomeno con un’ipotetica moglie petulante, i cui discorsi sono resi in un italiano corretto, produce effetti teatrali d’intensa e viva comicità, resi possibili solamente dall’inventiva creativa del rifacimento pasoliniano.
3.6 Da “gloriosus” a “vantone”: il miles pasoliniano.
Una volta constatato che Il Vantone è traduzione in romanesco di una commedia a sua volta ‘tradotta’ dall’originale greco, è molto interessante procedere ad uno studio sui procedimenti stilistici mediante i quali Pasolini, che nella prima scena del secondo atto riporta l’esplicito riferimento al titolo originario della commedia greca, ha deciso il titolo per la sua traduzione.
Nunc qua adsedistis causa in festivo loco,
comoediai quam nos acturi sumus
et argumentum et nomen vobis eloquar.
Αλаζων graece huic nomen est comodiae;
id nos latine gloriosum dicimus <176.
Pier Paolo Pasolini nella sua commedia traduce Il titolo in greco, sarebbe Alazanone ma noi in nostra lingua diciamo «Er Vantone» <177.
Se procediamo ad un confronto tra la versione plautina e quella pasoliniana notiamo subito che il titolo greco ‘Αλаζων’ che riporta il commediografo latino è storpiato da Pasolini in ‘Alazanone’; perché il traduttore compie questo presunto errore filologico? Ovviamente per motivi metrici, per adattare il verso all’estensione canonica del martelliano. Inoltre la storpiatura del nome greco riguardava un termine in ogni caso incomprensibile al pubblico romano, sostituito da un’espressione che doveva comunque dare l’idea del suono esotico greco e soprattutto riempire l’emistichio. Siamo quindi in presenza di uno dei tanti adattamenti metrici <178 cui Pasolini ha fatto ricorso, frettolosamente classificati come errori dovuti alla presunta scarsa conoscenza della lingua latina da parte dell’autore.
Gli interrogativi però, intorno ai due versi sopra riportati, non sono ancora dei tutti esauriti. Perché Pasolini traduce «id nos latine gloriosum dicimus» con l’espressione «in nostra lingua….»?
Seguendo l’esempio di Plauto, che mette a confronto due sistemi linguistici ben definiti, quello greco e quello latino, il traduttore bolognese avrebbe potuto e dovuto dire ‘in romanesco’ o tutt’al più ‘in italiano’.
In realtà egli ha adoperato l’espressione «in nostra» perché la scelta linguistica da lui adottata non era né compiutamente italiana né tanto meno dialettale, inteso nel senso negativo del termine; non poteva quindi esserci una corrispondenza così definita fra due sistemi linguistici tanto differenti, come invece accadeva in Plauto […]
[NOTE]
160 PASOLINI, cit., p. 1007.
161 PASOLINI, cit., p. 1007.
162 PASOLINI, cit., p.158.
163 PLAUTO, Commedie (Aulularia – Miles Gloriosus), testo e versione poetica di G. VITALI, nella collana Poeti di Roma, Zanichelli, Bologna 1953; PLAUTO, Il militare borioso–La pignatta, traduzione, introduzione e note di I. RIPAMONTI, Biblioteca moderna Mondadori, Milano 1953; T. M. PLAUTO, Tutte le commedie: Il soldato millantatore, traduzione di M. SCANDÒLA, BUR, Milano 1955.
164 PASOLINI, cit., Atto III, scena 1, p. 68.
165 PLAUTO, traduzione di FARANDA, Milano, 1999.
166 PASOLINI, Atto III, scena 2, p. 77.
167 Accanto ad un attivo intervento realizzato da Pasolini in merito a quest’aspetto della commedia pasoliniana, ritengo sia giusto anche fare riferimento ad un’occasione perduta dal traduttore. Nel prologo recitato da Palestrione all’inizio del secondo atto, egli racconta che il suo padrone è dovuto partire da Atene come publice legatus a Naupacto ed il miles ha potuto approfittarne per rapire Filocomasio e portarla con se ad Efeso. Il verso 103 di Plauto, «Is publice legatus Naupactum fuit magai rei pubblicai gratia» è uno dei più belli della commedia, un senario lento e solenne che richiama a formule ufficiali romane, non necessariamente militari, anche mediante l’uso del genitivo arcaico in -ai. In questo caso Pasolini ha completamente trascurato il verso e la sua solennità traducendo «un giorno lui lo mandano, co’ un pubblico incarico, a un paese…».
168 PLAUTO, traduzione di FARANDA, cit., Atto II, scena 2, p. 29.
169 PASOLINI, Atto II, scena 2, p. 26.
170 PLAUTO, traduzione di FARANDA, cit., Atto III, scena 1, p. 65.
171 PASOLINI, Atto III, scena 1, p. 67.
172 PLAUTO, FARANDA, cit., Atto III, scena 1, pp. 67-77.
173 PASOLINI, Atto III, scena 1, p. 72..
174 Ivi, Atto III, scena 1, p. 1060.
175 Rispetto a «una / moglie di gran casato e con gran dote» (Vitali), o «una / donna con una ricca dote, di assai nobili natali» (Scandòla) e infine «una moglie di ottimo casato e con dote» (Ripamonti). Tanti altri sono i casi in cui Pasolini compie scelte stilistiche differenti rispetto ai tre traduttori, ma mi limito a fornire quelli più significativi, accennando semplicemente alla differente resa che essi compiono nell’Atto V, scena 1 della commedia, intorno all’ambiguo significato dei termini latini intestatus (che significa sia ‘testimone inattendibile’ che ‘privo di testicoli’) e intestabilis (che indica colui che o ‘non ha la capacità giuridica di fare da testimone’ o che è ‘privo di testicoli’). Pasolini, contrariamente ai suoi tre precedenti colleghi, scioglie l’allusività delle espressioni, manifestandole nella loro resa più esplicita, volgare ma sicuramente fedele all’anima della comicità plautina. Per altri interessanti casi di incongruenza tra la versione pasoliniana e le precedenti, cfr. U. TODINI in PASOLINI, Il Vantone, cit., pp. XIV-XXII.
176 PLAUTO, traduzione e introduzione di RIPAMONTI, cit., vv. 83-87.
177 Mentre Paratore traduce ‘spaccone’ e Ripamonti ‘borioso’.
Rosa Cicolella, Dal ‘Miles gloriosus’ al Vantone di Pasolini, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Foggia, 2013