Occasione preziosa appare la raccolta delle prose di Carlo Betocchi, per la meritevole attenzione del nipote Luigi. Una sequenza sintomatica di testi che può suscitare un nuovo motivo di incontro con l’opera di Betocchi, sia pure da una posizione eccentrica come può essere un testo d’arte nella reciprocità con un codice letterario […] Su questi temi si ha tante volte modo di ribadire che la cultura francese ha avuto una tradizione di poeti intimamente legati all’arte lungo una linea di continuità. Basti ricordare quel libro straordinario, irripetibile, di Baudelaire, Scritti sull’arte, fino ai nomi di Apollinaire, Valéry, Dupin, Bonnefoy […] Magnago (Milano), ottobre 2005 Stefano Crespi
[…] È lo scarto che corre tra la chitarra che Breddo disegna adagiata nella sua forma antica e stramba, manomessa da luci repenti, un po’ dimenticata, detta col cuore che fugge, e l’altro disegno della bottiglia alla quale i verticali cartigli, o che siano, ed altri segni spiranti da una casta fantasia danno un più illustre significato. Ché questa va fondendosi nel suo spirito verticale, che è una delle condizioni determinanti le composizioni ideali di Breddo; giovanilmente in piedi, attente alla sapienza: ma dall’altra, dalla chitarra, sappiamo come nella sapienza non si perderà, questo giovane di vive riluttanze […]
Conviene parlarne da uomini, è cosa che si fa noi. Per l’appunto si dice pittura, e non disegno, con la quale parola si significherebbe tanto meglio il bisogno che abbiamo, o crediamo di avere, di vedere rappresentate le forme. Ma dicendo pittura si esprime un altro requisito, più arcano: si chiede la luce sulle forme? nelle forme? la luce di per se stessa? […]
Questi ricordi scorrono come l’acqua, in un artista fiorentino. Sono come la mattinata sul Lungarno, che ho visto così faccendiera e piena di dimenticanza di che luogo sia quello. I più generosi artisti di Firenze stabiliscono con lei dei rapporti di assuefazione che non la consumano, anzi la rinverginano: chi è che non considera sua madre come una vergine? La vita ha prodotto così una città che è come i lungarni di questa mattina, e che non si può mantenere eguale che con la medesima e pulita sincerità […] Realmente Pietro Parigi è un uomo del quale è difficile ricordare nessuna cosa all’infuori di quello che c’è di particolare nella sua persona fisica; quel modo di portare la testa, il corpo, il suo dritto continuo fiaccolare come di lucignolo davanti a un altare. Ma è qualcosa che a dipingerlo chiederebbe il pennello di un Greco tanto strano da accettare un Cervantes per consigliere […] Ma artista di strettissima filologia, il Parigi è solo questo che non si sperde; e in questo ha una somiglianza col Rosai. Un solo linguaggio è cresciuto in lui, educato dalla pratica del mestiere e della vita […]
Ho incontrato Federico Melis di questa estate ad Urbania, dove ha stabilito da tempo, dopo i fruttuosi anni di Cagliari, Urbino e Pesaro, la sua famiglia, il suo studio d’artista e la sua scuola. Sono stato a cena da lui, in casa sua, sulla terrazza in vista del piano del Metauro e delle colline circostanti. Venivo da una serie di lunghe giornate di incanti urbinati: e non si può capitombolare da mondo a mondo, così, rapidissimamente. Di quella visita al suo studio ho dunque un ricordo che resta confuso in quello patetico, e per dir così storico, della cittadina e del suo paesaggio: ma ho un ricordo vivissimo della personalità dell’artista. Non vorrei dunque parlare di queste ceramiche di Melis, che vengono ora esposte all’Aquilone di Urbino con la fatuità presuntuosa di una finta competenza che in realtà sarebbe affidata soltanto ai riferimenti ed alle impressioni rapidamente accozzate di quella brevissima visita. Perché, in sostanza, quel pomeriggio d’estate, giunto ad Urbania sul far della sera, avevo prima di tutto, potrei dire bevuto con gli occhi il colore dell’acqua del Metauro che ristagnava qua e là sotto il ponte d’accesso al paese, riflettendo il cielo, le ripe, e qualche grande frammento della bellissima mole di Castel Durante […]
E Rosai era uomo da non perdere l’occasione, quand’era sdegnato, di “attuffare” qualcuno: ma anche da stringere al petto qual’altro fosse degno, per lui, di quell’amore di cui anche era colmo. Del resto, eccola qui nei suoi quadri la storia dei suoi veri rapporti con la natura, gli uomini, il mondo. È qui che essa si esprime e resiste […]
La pittura di Scatizzi è dominata dall’orizzontalità; l’indefinito, l’incertezza nella quale viviamo, la nostra assai disordinata, spesso orgogliosa, sempre solitaria difficoltà spirituale vi è espressa, ma nello stesso tempo confinata a confessarsi con un esercizio di purezza e con tutto il silenzioso dolore che si coagula nelle sue sofferenti striature […]
Sono anch’io uno dei testimoni di quel tempo che in me, come in Adriana Pincherle, non è finito, perché infatti continua sia come memoria che nell’efficacia dei quotidiani contatti: ma in questi ritratti di sua mano esso sguscia via dalla buccia di cui io lo rivesto, e mi guizza vivo davanti, espressivo e rivelatore di una quantità di cose dette e non dette, o appena accennate, e che soltanto la finezza di una donna e di un’artista come lei riesce a scoprire, a godere e far godere, capire, comprendere e affettuosamente restituire […]
Perché la pittura di Marcucci sottintende che la poesia è nella vita, non nelle cose che ne sono soltanto i poveri e quasi sempre fallaci oggetti sui quali essa palpita e si rivela, e che tutto il segreto dell’arte sta nella possibilità, rara, di ristabilire equilibrio e contatto tra l’infinita povertà e immobilità delle cose e dell’uomo (uno star lì ad aspettare), e l’infinita, fuggevolissima verità e ricchezza della poesia. D’onde, al di là delle figure umane, tutto il resto e la caratteristica della sua restante pittura […]
Ma all’uomo d’oggi, dalla cristianità in poi, non è più possibile riconoscersi nel mito; e comportarsi come in esso. S’impone l’intera responsabilità dell’io come tema d’ogni esperimento. Ed è quanto avviene nella pittura di Francese, e tuttavia nella preponderante presenza di ciò che non è l’io, non è se stesso, ma la immensità delle forze nelle quali è involto, e dalle quali è perpetuamente formato e deformato, per quella unione ancestralmente incestuosa dell’io col non io che sempre ci assedia e continuamente ci minaccia ed esorta ad agire […]
Quando Marini mi ha chiamato a vedere questa Firenze di Treccani, l’impressione visiva, prima ancora cheall’emozione estetica, ha ceduto subito il campo ad un’altra emozione, che posso ben dire esistenziale; e ho sentito che questa Firenze era come il reduce frutto di un’avventura singolarissima. Un’avventura che Treccani mi veniva spiegando di tela in tela, di disegno in disegno; ed era come il referto di un’esperienza che per provarla e descriverla a quel modo bisognava non essere stati fiorentini […]
Un’occasione fortuita, e fortunata soprattutto, ha dato origine a questa piccola raccolta di scritti dal tema suggestivo, ma non anomalo per un poeta come Carlo Betocchi. Egli, infatti, amava l’arte e gli artisti al punto di essere l’artefice sin da giovane di una rubrica dedicata alla pittura su “Il Frontespizio” che si stampava a Firenze presso Vallecchi, sotto la direzione di Piero Bargellini […] Bordighera, febbraio 2006 Luigi Betocchi
Carlo Betocchi, Sul versante dell’arte, philobiblon edizioni, Ventimiglia (IM), 2006