«Una delle caratteristiche curiose della produzione letteraria degli anni Novanta», ha scritto Green, «un’epoca di notevole produttività e ampia realizzazione, era un diffuso sgomento riguardo alle condizioni correnti e alle prospettive future del romanzo. Questo sgomento era condiviso da critici, saggisti e romanzieri, e ha assunto forme diverse» <136. Le ragioni alla base delle geremiadi di critici e scrittori, secondo Green, hanno un denominatore comune: l’avvento di una cultura dello schermo che avrebbe soppiantato prepotentemente quella del libro, condannando prima la lettura e poi il senso stesso della letteratura a un rapido quanto inevitabile declino. Per dirlo con un’amara constatazione di Jonathan Franzen, «per ogni lettore che muore oggi, nasce un telespettatore [viewer], e sembra che siamo i testimoni, qui, nell’apprensione della metà degli anni Novanta, della punta terminale di un equilibrio» <137. È sintomatico il fatto che uno scrittore veda nell’avvento di internet e nella rivoluzione tecnologica, gli stessi fattori a cui alcuni critici riconducono le origini del narrative turn, e dunque di una nuova “era narrativa”, il segno di una sostanziale sconfitta per l’arte di narrare nella forma del romanzo. «Stando a questo ragionamento – scrive ancora Green – la lettura di romanzi, romanzi letterari in particolare, diventerà presto un’attività specializzata o marginale, e qualunque nozione residua di autorità culturale di tipo letterario sarà abbandonata» <138. Sembra di sentire riecheggiare alcune delle posizioni viste nel primo capitolo, proprie di chi lamenta il crollo inevitabile del vecchio davanti al nuovo che avanza. Eppure, lo abbiamo appena visto, gli scrittori non smettono affatto di raccontare; anzi, proprio gli anni Novanta si configurano come il decennio caratterizzato da un nuovo slancio diegetico, come se molti tra gli autori che scrivono in questo periodo fossero animati dal desiderio di dare alle stampe l’opera che chiude il millennio. La marginalità può diventare allora, in modo paradossale, una posizione strategica e privilegiata, da cui gli scrittori possono esercitare la propria azione (e la propria contestazione) con maggiore efficacia. DeLillo è senza dubbio una figura emblematica sotto questo aspetto, e la sua peculiare attenzione per i fenomeni della sua epoca lo rende un autore altamente rappresentativo, in grado di intercettare le tensioni e le contraddizioni del mondo contemporaneo con singolare sensibilità. Come ha rilevato Frank Lentricchia, infatti, quelli di DeLillo «sono romanzi che non avrebbero potuto essere scritti prima della metà degli anni Sessanta», fortemente radicati in un contesto particolare, tanto che «nel loro rigore storico» risiede «la loro oltranza politica: il livello senza precedenti in cui impediscono ai loro lettori di scivolare nell’opinione rassicurante che i problemi reali del genere umano siano sempre stati simili a quelli di oggi» <139. Le constatazioni di Lentricchia sono legittimate dalle prese di posizione dello stesso DeLillo, in particolare in un’intervista rilasciata nel 1988, l’anno della pubblicazione di Libra, il romanzo che ruota intorno all’omicidio Kennedy, l’evento che lo ossessiona e che, parole sue, lo ha fatto diventare scrittore. Alla fine di un decennio all’insegna dell’edonismo e del reflusso politico reaganiano, DeLillo si ritrova paradossalmente a scrivere romanzi che «ubbidivano a motivazioni più profonde e richiedevano un senso di impegno [commitment] molto più forte rispetto ai libri scritti in precedenza». La pubblicazione di Libra, tra le altre cose, gli attira anche le feroci critiche di George Will, il giornalista del «Washington Post» che lo ha notoriamente definito «vandalo letterario» e «cattivo cittadino» per avere suggerito che l’omicidio del presidente non fosse il risultato dell’azione di un cecchino isolato, ma di una più ampia cospirazione. Le affermazioni di DeLillo sono perentorie: alla domanda dell’intervistatrice, che gli chiede «quale pensa che sia il ruolo interpretato dallo scrittore in questo scorcio finale del secolo» risponde:
“Lo scrittore è la persona che sta al di fuori della società, libero da affiliazioni e libero da influenze. Lo scrittore è l’uomo o la donna che prende automaticamente posizione contro il proprio governo. Ci sono talmente tante tentazioni per uno scrittore americano di diventare parte del sistema e parte della struttura che adesso, più che mai, dobbiamo resistere. Gli scrittori americani dovrebbero stare e vivere ai margini, ed essere più pericolosi. Gli scrittori nelle società repressive sono considerati pericolosi. È per questo che molti di loro sono in prigione” <140.
Così si esprime alla fine degli anni Ottanta, probabilmente anche in virtù del notevole coinvolgimento che ha comportato la stesura del romanzo: «nello scrivere Libra», dice, «ho avvertito un forte senso di responsabilità. Molto di più, penso, di quanto lo avvertano molti romanzieri mentre scrivono un particolare romanzo» <141. Negli anni Novanta, e soprattutto dopo la pubblicazione di Underworld, qualcosa cambia. Come ha rilevato Bertoni, «alla svolta del millennio […] queste tesi sul ruolo oppositivo dello scrittore non vengono smentite, ma sembrano improntate a maggiore distacco e understatement» <142, come si evince da un’altra intervista rilasciata nel 1999. Quando gli viene ricordato che «una volta ha detto: “la narrativa deve contestare il potere”», DeLillo afferma: “Non ricordo di averlo detto, ma penso che sia vero. Nessuno ha più libertà di uno scrittore americano. Ma allo stesso tempo penso che lo scrittore di opposizione sia un’idea che uno deve prendere sul serio. Lo scrittore si oppone – in generale, in linea di principio – allo stato, alla corporation e al ciclo senza fine di consumo e spreco istantaneo. In un qualche modo inconsapevole, penso che sia questa la ragione per cui gli scrittori, alcuni di noi, scrivono lunghi, complicati, provocatori romanzi. Come un modo per esprimere la nostra opposizione alle richieste del mercato” <143.
«Lunghi, complicati, provocatori romanzi». Quella di DeLillo è una dichiarazione di poetica e allo stesso tempo una presa di posizione politica, come a voler ribadire che è nella tessitura formale del suo romanzo che vanno ricercate le modalità di opposizione alle leggi del mercato. È ancor più significativo che queste dichiarazioni siano successive alla pubblicazione di un libro che per molti versi si configura come una sorta di summa romanzesca delle opere scritte in precedenza, di cui riprende i motivi, rielabora i temi principali e reinventa le componenti strutturali all’interno di un’architettura calibratissima e costruita con notevole perizia. Underworld è un testo paradigmatico, per questo e per molti altri motivi, non ultimo il fatto che si collochi sulla soglia del nuovo millennio ma sia interamente ambientato nella seconda metà del Novecento. A rafforzare l’idea di un implicito tentativo di porsi come suggello del secolo americano, oltre che come punto d’arrivo, per molti aspetti, della poetica sviluppata da DeLillo dagli anni Settanta, vi è anche la constatazione che i romanzi che scrive negli anni Duemila si fanno sempre più sottili, caratterizzati da un’economia di spazi, luoghi e situazioni sconosciuti ai suoi scritti precedenti.
La fine degli anni Novanta, come abbiamo visto, è un periodo cruciale per molte ragioni. Non più riconducibili tout court al postmodernismo degli anni Sessanta e Settanta, molte delle opere scritte in questi anni vengono ricondotte, non a caso, alla categoria di modernismo (pur con i dovuti distinguo), mettendo l’accento su una rinnovata fiducia, riscontrabile nelle opere di alcuni autori, nel proporre narrazioni dallo slancio utopico, caratterizzate dal desiderio, per quanto problematico, di offrire un appiglio, una possibilità di presa sul mondo e sulla realtà al di fuori del testo. Lo stesso DeLillo ha definito Underworld «l’ultimo rantolo modernista» <144, legittimando in qualche modo le opinioni di diversi studiosi che hanno insistito proprio sul ritorno di temi e soluzioni riconducibili alla poetica modernista in quello che è generalmente considerato il suo capolavoro <145. La dichiarazione è ancor più significativa se si considera l’atmosfera di fine Novecento, caratterizzata da una parte da «un’acuta incertezza riguardo al pubblico dei lettori – se possa essere o meno dato per scontato, quale livello e persistenza può essere presupposta, quale tipo di contratto si può stabilire con il lettore», dall’altra da «un’incertezza non meno acuta riguardo al valore letterario» <146.
[NOTE]
136 J. Green, Late Postmodernism, cit., p. 5.
137 Jonathan Franzen, How to Be Alone: Essays, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002, p. 136.
138 J. Green, Late Postmodernism, cit., p. 5.
139 Frank Lentricchia, The American Writer as Bad Citizen, in Id. (a cura di) Introducing Don DeLillo, Duke University Press, Durham and London 1991, p. 6.
140 Ann Arensberg, Seven Seconds (1988) in Th. DePietro (a cura di) Conversations with Don DeLillo, cit., pp. 45-46.
141 Kevin Connolly, An Interview with Don DeLillo (1988), in ivi, p. 32.
142 F. Bertoni, Letteratura, cit., p. 49.
143 Maria Moss, “Writing as a Deeper Form of Concentration”: An Interview with Don DeLillo (1999), in Th. DePietro (a cura di), Conversations with Don DeLillo, cit., p. 165.
Simone Carati, Il mondo là fuori. Narrazione, esperienza e scrittura nell’America di fine millennio, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2021