[…] Dirà Vittorio Foa a Carlo Ginzburg, il primogenito di Leone: «A differenza di Gobetti tuo padre era un filologo» <53. La filologia è realmente il denominatore comune delle attività intraprese da Ginzburg, negli studi come in politica.
“Non è che costringesse i suoi amici a buttarsi anima e corpo nell’opposizione clandestina, ma li poneva col suo esempio inflessibile davanti al dovere di essere, ciascuno con la sua vocazione, sincero e rigido con se stesso. La sua non era tanto una predisposizione politica quanto una generale pedagogia dello spirito. Egli era soprattutto, direi, uno spirito filologico: educava sé e gli altri allo scrupolo, alla verifica, alla certezza” <54.
Sono parole di Franco Antonicelli in un ricordo pronunciato alla radio vent’anni dopo la morte di Ginzburg: e non è un caso che, finita la guerra, Antonicelli abbia intitolato «Biblioteca Leone Ginzburg» la collana portante della piccola casa editrice De Silva da lui diretta a Torino; pubblicati rispettivamente nel 1947 e nel 1948, i suoi numeri 3 e 4 furono Se questo è un uomo di Primo Levi e un’Antologia della «Rivoluzione Liberale», la principale rivista di Piero Gobetti <55. Ma se Antonicelli arrivò a scrivere quelle frasi sulla «pedagogia dello spirito» fu perché Ginzburg la esercitava anche su di lui, e una volta proprio in merito alla De Silva, che avviò la sua attività nel 1942; Antonicelli aveva spedito a Ginzburg il programma editoriale accompagnandolo con una lettera di recriminazioni contro lo strapotere (rispetto a lui, almeno) di Giulio Einaudi; Ginzburg non lasciò passare lo sfogo: “Ti calunnii quando ti paragoni a un generale di ventura: mi pare che tu conosca troppo bene la strategia e la tattica editoriale per essere ritenuto un guerrigliero del mondo dei libri. Vincerai certo bellissime battaglie, purché tu abbia pazienza e costanza. Chi ha – secondo te – un brillantissimo stato maggiore a cavallo attorno a sé, io lo ricordo quando divideva con Aquilante le cinquanta o le venti lire che erano in cassa, e due famiglie vivevano alla meglio perché si potessero stampar nuovi libri, sempre nuovi libri. Perseverando, nell’editoria, si riesce a spuntarla! (Si capisce che circostanze generali possono contribuirvi potentemente; ma queste sono lì per aiutare anche te)” <56.
Di nuovo un nome di copertura, Aquilante: «Questi erano i dui figli d’Oliviero, / Grifone il bianco et Aquilante il nero»: Orlando Furioso, canto XV, ottava 67.
Sarà lo stesso Antonicelli a spiegare che lui e Ginzburg si erano spartiti quei due soprannomi, Grifone e Aquilante, che si attagliavano alle rispettive carnagioni <57.
Leone Ginzburg firmò Aquilante la sua recensione al «memorando volume» che ha fondato in Italia la critica delle varianti: il saggio col quale il suo maestro Santorre Debenedetti illustrava I frammenti autografi dell’«Orlando Furioso». L’articolo apparve il 4 giugno 1937 sul quotidiano genovese «Il Lavoro»: ricorrere a uno pseudonimo fu l’unico modo per pubblicarlo, dal momento che Ginzburg era un vigilato speciale <58. Il dialogo con Debenedetti – paritario e affettuoso come tutte le sue relazioni con i maestri, ma movimentato da un’ironia che non esclude i toni bruschi – attraversa l’intero soggiorno a Pìzzoli, con un gusto dell’intrattenersi in conversazione che rende speciale la loro confidenza epistolare.
Quella recensione del 1937 fu l’atto fondativo di una collezione einaudiana, la «Nuova raccolta di classici italiani annotati», che due anni più tardi e sotto la direzione di Debenedetti si sarebbe aperta con le Rime di Dante in edizione critica e commentata, a cura di Gianfranco Contini. Le premesse operative della «Nuova raccolta» sono già nella recensione di Aquilante: “gli scopi che il Debenedetti persegue sono tutti subordinati al suo profondo e consapevole amore della poesia. A meglio gustare quella del Furioso, ad arricchire la nostra esperienza critica egli intende destinati i Frammenti autografi. Perciò rinnega e abbandona il feticismo di tanta filologia ottocentesca per le edizioni «diplomatiche» che, riproducendo materialmente un manoscritto senza punteggiarlo e staccar le parole all’uso nostro, lo fanno spesso illeggibile e sempre inameno”.
Ginzburg ha tratto dal lavoro del suo maestro i capisaldi di un’etica della filologia comunicativa. Il suo scambio epistolare con Debenedetti dimostra che era pienamente consapevole delle conseguenze pratiche e teoriche di questa impostazione: consapevole persino più del suo «Caro professore». È qui che s’innesta il valore politico della sua azione culturale: in ogni persona dotata di talento, giovane o anziana non importa, Ginzburg coglie le potenzialità non dispiegate per intero, e fa opera di maieutica concreta esercitando quella capacità di convincere al dovere che tutti i suoi amici testimonieranno dopo, con uno sbalordimento non attenuato dal tempo. L’«amoroso fastidio» <59 che è la cifra caratteriale di Debenedetti (l’espressione si legge nella prima lettera di Ginzburg da Pìzzoli, 11 dicembre 1940) è proprio la leva che dovrà produrre il lavoro, e l’affetto che Ginzburg gli dimostra è sempre antagonistico: “Non vedo perché si debba aspettare la fine della guerra per gettar le basi della Biblioteca di filologia moderna. Mi mandi subito un elenco di trenta scritti fondamentali (o venti, ma non meno), ponendo accanto ai titoli la provenienza e la
mole degli scritti, – per quelli in lingua straniera il nome dell’eventuale traduttore. […] Capisco che lei non ha voglia di fare l’elenco, voglio dire di scriverlo, e preferirebbe dettarmelo; ma non potendosi prevedere con esattezza quando io le potrò di nuovo servire da amanuense, è consigliabile mettersi senz’altro al lavoro, approfittando degli attuali otia” <60.
Ironica, perentoria, cordiale, questa lettera del 18 maggio 1943 è la stessa in cui Ginzburg fa sapere a Debenedetti che «Natalia le è molto riconoscente per l’interessamento dimostrato per La strada» <61. Debenedetti era stato testimone alle nozze della coppia Ginzburg-Levi; portò in regalo «i sedici volumi della Recherche in un’edizione del ’29, in una splendida rilegatura rosso e oro» <62. A vent’anni appena compiuti, molto tempo prima di sposarsi, Natalia Levi aveva deciso di tradurre tutta la Recherche, della quale i suoi famigliari (soprattutto la madre e la sorella maggiore) erano lettori appassionati. Quando prese questa decisione, è lei stessa a raccontarlo, non aveva letto nemmeno un rigo di Proust: ne aveva solo sentito parlare in casa sua, per lungo tempo <63 […]
53 D. Messina, Ginzburg, mio padre. Filologo della libertà, intervista con Carlo Ginzburg, «Corriere della Sera», 1 maggio 2009.
54 Quello che Ginzburg ci ha lasciato, testo della trasmissione L’Approdo, andata in onda alla radio nel marzo 1964. Il dattiloscritto di Antonicelli, 12 fogli con correzioni manoscritte, è conservato presso l’Archivio Einaudi, Recensione volumi, cart. 147.
55 L’Antologia uscì a cura di N. Valeri.
56 Lettera del 2 aprile 1943, in L. Ginzburg, Lettere dal confino, cit., p. 207. Si veda poi la lettera dell’8 aprile (pp. 211-12) con i giudizi sul primo volume pubblicato da De Silva.
57 F. Antonicelli, Aquilante, «L’Opinione», 3 febbraio 1946, cit. da L. Mangoni nella nota alla lettera di cui sopra, p. 209. Il Furioso viene citato nella lezione stabilita da Cesare Segre: Milano, Mondadori, 1976, p. 339 [I edizione 1960].
58 L’articolo è ora raccolto in L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 433-37. Lo studio di Santorre Debenedetti, che reca lo stesso titolo della recensione, fu pubblicato nel 1937 da Chiantore, Torino, volume inaugurale per la collana del «Giornale storico della letteratura italiana. Testi inediti o rari». L’edizione critica del Furioso curata da Cesare Segre, nipote di Debenedetti, fu completata sulla base dei materiali postumi approntati da suo zio. Sul progetto della «Nuova raccolta» si veda la Prefazione di L. Mangoni agli Scritti di L. Ginzburg, in particolare pp. xxxi-xxxiii e, della stessa, Pensare i libri, cit., pp. 26-29.
59 L. Ginzburg, Lettere dal confino, cit., pp. 15-17: 16.
60 18 maggio 1943, L. Ginzburg, Lettere dal confino, cit., p. 229.
61 L. Ginzburg, Lettere dal confino, cit., p. 230. Subito dopo l’uscita del romanzo, Debenedetti lo aveva prestato a Emanuele Artom, che ne scrisse l’11 febbraio 1942: Diari di un partigiano ebreo gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di G. Schwartz, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 23 [I edizione 1966].
62 N. Ginzburg, Nota del traduttore (1990), in La strada di Swann, traduzione di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1998, p. xx. La prima edizione della versione era apparsa sempre da Einaudi nel 1946, numero 34 della collana «Narratori stranieri tradotti» fondata da Ginzburg e da Pavese.
63 Ead., Come ho tradotto Proust, «La Stampa», 11 dicembre 1963.
Leonardo Casalino, Ipotecare il futuro: politica e cultura in Leone Ginzburg, in Amici e compagni con Norberto Bobbio nella Torino del fascismo e dell’antifascismo, a cura di Gastone Cottino e Gabriela Cavaglià, Bruno Mondadori, 2012
L’acribia filologica in Leone Ginzburg fu precoce. Già a 13 anni scriveva al Corriere della sera per segnalare alcune imprecisioni contenute in un libro scritto da un esperto di cose militari, un generale che gli rispose credendo il suo interlocutore un illustre studioso.
Perfettamente bilingue, Leone, nato a Odessa in Crimea nel 1909, ma presto trasferitosi con la famiglia in Italia, frequentò a Torino il Liceo d’Azeglio, dove insegnavano due intellettuali antifascisti come Umberto Cosmo, noto dantista, in seguito fra i docenti universitari di Gramsci, e Augusto Monti. Tra i compagni di scuola: Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Carlo Dionisotti. La scuola fu il primo banco di prova per Leone che, secondo le diverse testimonianze, prima di tutte quella di Bobbio, sorprendeva tutti, docenti compresi, per la profondità e la vastità della sua cultura. Non si era ancora diplomato, infatti, quando nel 1927 iniziò a collaborare con la casa editrice Slavia di Torino fondata da Alfredo Polledro, traduttore dal russo. E per Slavia, a 19 anni, il giovane Ginzburg licenziò nel 1928 la traduzione di Anna Karenina, romanzo sul quale aveva scritto il suo primo articolo per il «Baretti», la rivista di Piero Gobetti. Dopo essersi iscritto a Giurisprudenza passò a Lettere, laureandosi su Maupassant. Nel frattempo aveva collaborato assiduamente anche alle riviste «La Cultura», diretta da Ferdinando Neri, «La Nuova Italia» di Codignola e «Pegaso» di Ugo Ojetti.
Un incontro decisivo di questi anni è quello con Benedetto Croce, forse all’origine del cambio di facoltà. Croce era in quegli anni, come ricorderà Bobbio nell’Introduzione agli scritti dell’amico, un autore fondamentale dal punto di vista metodologico prima che teorico: era tutto ciò che si opponeva al pressapochismo nel campo della cultura a favore della serietà degli studi. Ma Croce era anche il promotore del Manifesto degli intellettuali antifascisti, in contrapposizione a quello di Gentile. Un articolo che uscì anonimo, ma è attribuito a Croce e Ginzburg, dal titolo «Note caratteristiche del Prof. Ercole», dileggiava le doti in virtù delle quali costui era diventato ministro dell’Educazione Nazionale. Tra le “fatiche di Ercole”, gli autori ricordavano la delazione ai danni dei docenti restii a piegarsi alla volontà del Partito fascista: «Nel suo nuovo posto il prof. Ercole ha ripreso il suo antico metodo, dimostratosi già tanto sicuro: non solo s’è prestato a soddisfare tutti i desideri del segretario del PNF, Starace, ma ha cercato di prevenirli e suscitarli, per apparirgli subito in veste di benemerito e zelante esecutore di ordini.» (Scritti. p. 25).
La maturazione politica di Ginzburg avvenne a Parigi. Nella capitale francese ebbe modo, infatti, di incontrare personalità che si battevano contro il fascismo, dallo stesso Croce, in quei giorni a Parigi, a fuorusciti come Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Gaetano Salvemini, Carlo Levi, Lionello Venturi. Al suo ritorno a Torino, quindi, s’impegnò in prima persona, costituendo, come scriverà l’OVRA che lo sorvegliava, «l’anima del movimento rivoluzionario di “Giustizia e Libertà”», attorno a cui si muovevano Pavese, Carlo Levi, Barbara Allason, Massimo Mila, e poi Vittorio Foa, Mario Levi (fratello di Natalia, futura moglie di Leone), Carlo Muscetta e Tommaso Fiore […]
Alessandro La Monica, Leone Ginzburg editore in Quaderni di letteratura, Patria Letteratura, 3 dicembre 2012
Il 26 luglio 1943, caduto il regime, Ginzburg parte per Roma e riprende contatto con il gruppo dirigente del Partito d’azione, incontrando fra gli altri Rossi-Doria, Muscetta, Carandini, La Malfa e Venturi. Con Venturi parte per Torino per riallacciarvi altri contatti, e il 27 agosto è a Milano, dove in casa Rollier, partecipa alla fondazione del Movimento Federalista Europeo. Pochi giorni dopo, fra il 5 e il 7 settembre, partecipa a Firenze a un congresso clandestino del partito, cui sono presenti anche Parri, Lussu, Lombardi, Bauer, Agnoletti e molti degli azionisti che aveva già conosciuto. La stima e la fiducia nei suoi confronti sono tali che, dopo l’8 settembre, gli viene affidata la direzione del giornale clandestino “L’Italia libera”, pubblicato a Roma. Nella capitale, dove ha anche ricevuto l’incarico di dirigere la sede romana della Einaudi, vive sotto il falso nome di Leonida Gianturco.
Il 20 novembre del ’43 è arrestato nella redazione dell’Italia libera e condotto a Regina Coeli. Ai primi di dicembre viene scoperta la sua vera identità ed è trasferito al braccio controllato dai tedeschi. È torturato e colpito a sangue durante gli interrogatori. Sandro Pertini, detenuto insieme con lui, ricorda di averlo incontrato, sanguinante, dopo l’ultimo interrogatorio; e che Ginzburg è riuscito a dirgli «Guai a noi se domani […] nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. Dobbiamo distinguere tra popolo e nazisti».
Il 4 febbraio si sente molto male; la sera, scrive un’ultima lettera alla moglie Natalia e chiama un infermiere, che però si rifiuta di far venire il medico. La mattina del 5 febbraio viene trovato morto, e solo allora la moglie potrà vederlo […]
Giulio Saputo, Un ricordo di Ginzburg a 75 anni dalla morte, EUROBULL, 14 febbraio 2019