L’ultima lettera scritta da Giaime Pintor (1919-1943) al fratello Luigi il 28 novembre 1943, pochi giorni prima di morire da militante della Resistenza, è forse troppo nota; ciononostante, in questa sede, in cui si stanno rintracciando le diverse strade dell’engagement e le forme collettive di intervento intellettuale tra primo e secondo dopoguerra, essa non può non venire analizzata nei suoi passaggi principali, <399 anche se sono prima necessarie alcune riflessioni per comprenderne la genesi e il valore di testimonianza.
Pintor faceva parte di una generazione <400 differente rispetto a quella di coloro che avevano attraversato il Ventennio per intero. Non avendo egli affrontato l’accidentato percorso che era stato proprio di ciò che è stato definito “fascismo di sinistra”, <401 è corretto sostenere, come ha fatto Mirella Serri, che il giovane germanista e promettente diplomatico non riproduceva «lo stereotipo del politico o dell’uomo di cultura che compie il lungo viaggio attraverso la dittatura per approdare all’antifascismo», essendo egli stato «uno scrittore che non evase mai dal suo presente e fu sempre guidato dal bisogno di essere nel proprio tempo». <402
È Maria Cecilia Calabri, nel suo ponderatissimo studio, <403 a recuperare e ripercorrere tutti i fili del discorso che aiutano a chiarire ogni aspetto della lettera al fratello del novembre 1943, mostrando come Giaime Pintor si interessasse primariamente della difesa dell’autonomia della cultura.
Sebbene fosse pienamente inserito nel suo tempo, infatti, Giaime era perfettamente in grado di mantenersi distaccato dalle iniziative di propaganda, ad eccezione, significativamente, dei Littoriali: <404 in un momento storico in cui «il fascismo si presenta come una realtà immutabile», del quale non è dato concepire un’eventuale fine, «[i]l caso di Pintor dimostra come sia stata proprio la rivendicazione della autonomia della cultura la prima leva potente attraverso la quale si incanalano l’insofferenza e il ribrezzo nutriti da molti giovani nei confronti del meccanismo di annullamento personale attuato dal regime». <405
Le testimonianze dell’amico Lucio Lombardo Radice e di Aldo Natoli descrivono un Giaime Pintor tutto preso dalla sua azione culturale, influenzato dai giovani colleghi romani avvicinatisi al comunismo, ma ancora lontano dall’impegno diretto. <406 A lungo il suo antifascismo fu «soprattutto una questione di stile e di gusto individuali che si manifestano attraverso lo sguardo ironico o di malcelata insofferenza», <407 ancor prima che un antifascismo su base morale. Diversamente dagli amici romani, giunti all’aperta manifestazione di dissenso contro il regime già nel 1938, apparentemente Giaime non era ancora engagé prima della guerra, <408 pur conoscendo molto bene persone e luoghi legati all’antifascismo attivo. <409 La sua collaborazione a “Oggi” di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio rispecchiava questa sua scelta di fronda culturale. <410
Mobilitato allo scoppio della seconda guerra mondiale, Pintor cominciò ad affrontare il tema del rapporto tra guerra, letteratura e funzione dell’intellettuale, scrivendo ad esempio di Piero Jahier <411 e della generazione de “La Voce”. <412 Egli si apprestava dunque a vivere la guerra «come fenomeno collettivo, in cui nessuna soluzione individuale poteva essere ammissibile», <413 mantenendosi comunque lontano dall’irrazionalismo e dal misticismo di Jahier e dei vociani. <414
Il conflitto mondiale, come avrebbe affermato nella lettera al fratello, era stato la prima causa di un importante cambiamento di prospettiva, ma Giaime Pintor continuava ad opporsi in maniera convinta alla subordinazione di cultura e letteratura alla politica. <415 Attraverso l’esperienza bellica, in ogni modo egli divenne «consapevole del fatto che l’intellettuale non [poteva] più circoscrivere la propria attività al puro calligrafismo del critico letterario». <416
Chiamato a Torino per fare parte della Commissione italiana di armistizio con la Francia, Pintor proseguì senza sosta il suo impegno culturale antifascista in qualità di consulente editoriale alla casa editrice Einaudi. <417 Come dimostra l’analisi dell’importante articolo “Commento a un soldato tedesco”, <418 a partire da quei mesi egli aveva «ormai rifiutato ogni separazione tra politica e cultura», <419 ma non per questo la seconda era subordinata alla prima: per lui, infatti, «il rapporto tra politica e cultura non si risolverà mai in una sintesi immediata e alla politica non verrà mai sottomesso ogni giudizio». <420
Su “Primato”, intanto, erano sempre più aperti gli incitamenti agli intellettuali a scendere dalla torre d’avorio. <421 Pintor, intervenendo nel dibattito sul romanticismo, afferma significativamente che, contro un “nuovo romanticismo”, <422 sarebbe stato necessario un “nuovo illuminismo”. Tale prospettiva illuminista sarebbe stata caratterizzata da un nuovo ordine nella moralità e nelle idee, in contrapposizione al «dramma interiore» tipicamente romantico; da essa si sarebbe ricavata una nuova funzione dell’intellettuale che fosse «in grado di valutare criticamente gli eventi e che non si [sottraesse] alle proprie responsabilità». <423 Dalle nuove posizioni mostrate da Pintor, ormai evolute verso un limpido antifascismo, si comprendono anche le sue proposte di pubblicazione per la collana “Cultura politica” della Einaudi e il suo interesse per opere di politica e diritto. <424 L’attenzione sempre maggiore per la teoria politica non lo portò in ogni modo ad aderire a un partito, bensì a cercare nuove strade per sfogare il suo imperioso «bisogno di un impegno concreto». <425 Egli esprimeva dunque il suo essere engagé senza sottomettersi alla disciplina di un partito e senza nemmeno farsi compagno di strada dei comunisti.
Pintor non rinunciò mai al ruolo di guida tradizionalmente affidato all’uomo di cultura e, contemporaneamente, sosteneva, in polemica con i collaborazionisti francesi e, in particolare, con Drieu La Rochelle, «un’idea di intellettuale libero, dotato di una concreta capacità di giudizio, pronto a confrontarsi con gli avvenimenti e non disposto ad accettare passivamente i corsi della storia», <426 vale a dire, ancora una volta, fedele alla separazione tra azione culturale e azione politica.
Il dramma nazionale rappresentato dall’8 settembre gli fece cogliere definitivamente – ma si trattava di un ultimo tassello in un lungo percorso – come il singolo (e non la massa, in sé amorfa) dovesse assumersi le proprie responsabilità: <427 l’urgenza di un impegno concreto, come avrebbe scritto, era per la «liberazione di tutti». Egli pertanto decise di varcare le linee verso l’Italia centrale, cadendo a Castelnuovo al Volturno.
Tornando ora alla lettera al fratello Luigi del novembre 1943 <428 si comprende come Giaime Pintor facesse riferimento a situazioni concrete a lui molto vicine, ma il significato delle sue parole può essere letto in termini più generali ed esteso a meditazioni che, con i dovuti distinguo, si rivelano in un certo senso di carattere “generazionale”. Egli si era deciso, infatti, a varcare la soglia dell’impegno attivo per preservare i suoi valori e dunque la cultura, <429 cogliendo che «non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento»: <430 la sua maggiore preoccupazione appariva la difesa dell’indipendenza della cultura rispetto a quelle forze che, con la guerra, erano venute a sconvolgerne l’organizzazione e a metterne in discussione i codici e le regole.
Questa spinta all’azione, che era principalmente culturale e non politica, non lo aveva tuttavia portato a rinunciare a far valere il suo «carattere estremamente individualista»: <431 egli si poneva di fronte alla guerra considerandola un fenomeno di portata collettiva, ma basandosi sempre sulla scelta e sul sacrificio individuali (ossia su una risposta pur sempre élitaria). Si trattava, ancora una volta, dell’immagine dell’intellettuale che doveva essere guida, non diversamente da quanto espresso da Jahier per i “suoi” alpini nella prima guerra mondiale, anche se l’intento era quello di rimanere profeta all’interno, e non all’esterno della massa stessa.
Pintor, pertanto, aveva già vaticinato prima della fine del conflitto il ruolo dell’intellettuale in una realtà collettiva, in un’istituzione in cui convivessero l’intellettuale, nella sua funzione di guida, e le masse popolari: “Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse […]. Una società moderna si basa su una grande varietà di specificazioni, ma può sussistere soltanto se conserva la possibilità di abolirle a un certo momento per sacrificare tutto a un’unica esigenza rivoluzionaria. È questo il senso morale, non tecnico della mobilitazione: una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento”. […] Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte”. <432
Dalle espressioni utilizzate da Giaime Pintor in quest’ultima lettera non si stenta a comprendere come egli abbia potuto divenire «incarnazione […] della capacità di mobilitarsi degli intellettuali italiani “impegnati” contro il risorgere del fascismo» ed «effigie di uno stato di all’erta dell’intellighenzia di sinistra», <433 tuttavia il suo non era un cedimento a quelle che considerava le insidie della sottomissione della cultura alla politica.
La «fede collettiva» a cui si riferiva era l’antifascismo (non il comunismo), che Pintor stesso aveva dimostrato potersi pienamente esprimere anche a livello culturale, mantenendo sempre cultura e politica tra loro fermamente distinte. L’asserzione secondo la quale l’intellettuale avrebbe dovuto comprendere il momento in cui mettere la propria esperienza a servizio dell’«utilità comune» non implicava, inoltre, una sottomissione alle logiche della politica, poiché l’uomo di cultura doveva prendere il suo posto «in una organizzazione di combattimento», rispondendo alla sua logica, che risultava essere ancora una volta precipuamente culturale.
Ma che cosa intendeva Pintor parlando di «organizzazione di combattimento»?
Sebbene sia lampante che egli indicasse le strutture partigiane, è evidente anche che, una volta venuto meno il senso delle bande armate a conclusione della guerra, l’intellettuale non sarebbe dovuto tornare nel chiuso delle biblioteche, ma avrebbe dovuto trovare il suo ruolo in altre forme istituzionali: forse il partito, forse le associazioni intellettuali, <434 che avrebbero potuto corrispondere all’idea che egli si era fatto del ruolo dell’intellettuale sceso in campo per difendere l’indipendenza del mondo culturale dalle ingerenze della politica. In effetti, Giaime, nella sua lettera, preludeva a quanto sarebbe avvenuto in tempo di pace, dal momento che, dopo il 1945, la prospettiva si sarebbe aperta sul disciplinamento degli uomini di cultura, uno dei punti chiave per comprendere anche le associazioni intellettuali del dopoguerra e fattore legato all’irreggimentazione subita da artisti e letterati nei decenni precedenti.
Senza dubbio sulla figura di Giaime Pintor è stato costruito un mito e, come in ogni creazione mitica, si è operata una semplificazione e una scelta del materiale da utilizzare, ma ciò che conta è che il mancato ritorno a casa di Pintor nel dicembre del 1943 e la sua comprensione, in giovanissima età, del significato della guerra per il mondo intellettuale lo ponevano tra gli indicatori di un passaggio in atto, che stava interessando tutto il panorama intellettuale in una lunga linea di continuità con i decenni precedenti.
[NOTE]
399 Si fa qui riferimento a GIAIME PINTOR, Per mio fratello, in Il sangue d’Europa (1939-1943), a cura di VALENTINO GERRATANA, Einaudi, Torino 1966, pp. 245-248.
400 GIANPASQUALE SANTOMASSIMO, Giaime Pintor nel viaggio della «generazione perduta», in GIOVANNI FALASCHI (a cura di), Giaime Pintor e la sua generazione, manifestolibri, Roma 2005, p. 121.
401 Cfr. GIUSEPPE PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, Bologna 2000.
402 MIRELLA SERRI, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista, Marsilio, Venezia 2002, p. 21.
403 MARIA CECILIA CALABRI, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Utet, Torino 2007.
404 Per un’introduzione al tema si vedano GIOVANNI LAZZARI, I Littoriali della cultura e dell’arte, Liguori, Napoli 1979 e UGOBERTO ALFASSIO GRIMALDI, MARINA ADDIS SABA, Cultura a passo romano. Storia e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, Feltrinelli, Milano 1983.
405 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 43.
406 Ivi, pp. 43-44.
407 Ivi, p. 49.
408 Ivi, pp. 60-61.
409 Ivi, p. 76.
410 NELLO AJELLO, Il settimanale di attualità, in VALERIO CASTRONOVO, NICOLA TRANFAGLIA (a cura di), La stampa italiana del neocapitalismo, Laterza, Bari 1976, pp. 184-190; ALBERTO ASOR ROSA, Il giornalista: appunti sulla fisiologia di un mestiere difficile, in Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 1243-1250; SIMONETTA FIORI, Negli anni del fascismo un rotocalco anomalo: «Oggi», 1939-1942, in “La Rassegna della letteratura italiana”, n°1-2, gennaio-agosto 1986, pp. 159-176; PAOLO MURIALDI, La stampa del regime fascista, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 181-183; Cfr. anche IRENE PIAZZONI, I periodici italiani negli anni del regime fascista, in RAFFAELE DE BERTI, IRENE PIAZZONI (a cura di), Forme e modelli del rotocalco tra fascismo e guerra, Cisalpino, Milano 2009, pp. 83-122.
411 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 142. Il saggio è GIAIME PINTOR, La rivolta di Jahier, ora in ID., Il sangue d’Europa, cit., pp. 107-109. Sulla concezione dell’intellettuale in Jahier, cfr. in particolare ASOR ROSA, La cultura, cit., pp. 1360 sgg. e MARIO ISNENGHI, Il mito della grande guerra, il
Mulino, Bologna 1997 [1970], p. 324.
412 Il riferimento a “La Voce” veniva fatto in quagli anni anche da Mario Alicata (cfr. ASOR ROSA, Lo Stato democratico e i partiti politici,cit., p. 566).
413 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 143.
414 Ivi, p. 145.
415 Ivi, p. 146.
416 Ivi, p. 147.
417 Cfr. GABRIELE TURI, Casa Einaudi. Libri uomini idee oltre il fascismo, il Mulino, Bologna 1990 e LUISA MANGONI, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Anche se relativi per lo più a un periodo successivo, si vedano anche i contributi di ITALO CALVINO, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di GIOVANNI TESIO, Einaudi, Torino 1991; CESARE PAVESE, Officina Einaudi. Lettere editoriali, 1940-1950, a cura di SILVIA SAVIOLI, Einaudi, Torino 2008; TOMMASO MUNARI (a cura di), I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, Einaudi, Torino 2011.
418 GIAIME PINTOR, Dalle ore dell’angoscia (Commento a un soldato tedesco), in ID., Il sangue d’Europa, cit., pp. 133-138.
419 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 202.
420 Ivi, p. 185.
421 Cfr. ivi, pp. 249-250.
422 Cfr. GIAIME PINTOR, Contro i miti romantici (Il nuovo romanticismo), in ID. Il sangue d’Europa, cit., pp. 159-163.
423 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 251.
424 Ivi, p. 279.
425 Ivi, p. 288.
426 Ivi, p. 382.
427 Ivi, p. 416.
428 PINTOR, Per mio fratello, in ID., Il sangue d’Europa, cit., pp. 245-248.
429 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 438.
430 PINTOR, Per mio fratello, cit., p. 246.
431 CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 19.
432 PINTOR, Per mio fratello, in Il sangue d’Europa, cit., pp. 246-247.
433 SERRI, Il breve viaggio, cit., p. 10.
434 Recatosi a Weimar in occasione del congresso dell’Associazione europea degli scrittori, Pintor scriveva a casa che «la vita del congressista non è molto produttiva ma in questi tempi augurabile» (Pintor ai familiari, 16 ottobre 1942, cit. in CALABRI, Il costante piacere di vivere, cit., p. 351).
Fabio Guidali, Uomini di cultura e associazioni intellettuali nel dopoguerra tra Francia, Italia e Germania occidentale: (1945 – 1956), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Freien Universität Berlin, 2013
Se da un lato Francia, Inghilterra, Germania e Russia forgiano in quel secolo una letteratura che ha una matrice via via sempre più popolare (per fare una semplificazione grossolana), l’Italia languiva ancora in un classicismo e un petrarchismo che nemmeno il nuovo secolo riuscirà a spazzare via del tutto.
L’assorbimento poi, da parte del regime, delle avanguardie storiche e la chiusura nella proverbiale torre d’avorio da parte degli altri intellettuali di livello, lasciava perciò libero, a Pavese e agli altri, un campo di rinnovamento radicale aperto alle più svariate influenze: gli scrittori statunitensi in primis, ma non solo, tutta la cultura contemporanea era oggetto dei loro studi.
Alla luce di questi approfondimenti, l’Italia appariva sempre più come una provincia, al massimo ricca di minoranze di talento.
Il loro pionierismo rappresenta tuttora un apporto fondamentale allo sviluppo socio-letterario dell’Italia contemporanea: Giaime Pintor, loro amico più giovane (germanista di talento, stroncato a ventiquattro anni nella guerra partigiana), segnerà con l’unico suo articolo di argomento americano la distanza tracciata da Pavese e Vittorini con la generazione precedente, spazzando via per sempre l’accademismo di Cecchi e Praz.
Nelle sue pagine descrive infatti un’America vista non più come “coda alcolizzata dell’Europa”, ma come una “terra della salute”, contrapposta a un vecchio continente nel pieno della decadenza.
Emiliano Marra, Moby-Dick: le due versioni di Pavese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2008-2009
Secondo Gerratana, per spiegare il fallimento delle velleità corporativistiche non serve richiamarsi alle «comuni difficoltà» o ai «limiti storici»; si tratta piuttosto di limiti personali e del pensatore, che emergono semplicemente dall’applicare il principio ricordato da Garin «che “non basta pensare di cambiare il mondo per esser filosofi della prassi: bisogna saper con precisione le cose, e poi cambiarle per davvero”» <61. La critica di Gerratana su questi aspetti è legata a una battaglia culturale ancora attuale <62, mentre l’intento di Garin era comprendere le posizioni particolari nel momento in cui venivano assunte.
[NOTE]
61 Ibid. Cfr. GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., p. 476. Introducendo gli scritti di Giaime Pintor, Gerratana aveva sottolineato «la necessità di un “nuovo illuminismo”, in cui “l’onestà dei propositi” fosse sorretta dalla “chiarezza delle idee”» (VALENTINO GERRATANA, Introduzione a GIAIME PINTOR, Il sangue d’Europa, scritti raccolti a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1950, pp. 9-59 p. 39; cfr. anche FABIO FROSINI, Dalla morale alla storia. Appunti sul pensiero di Valentino Gerratana, «Critica marxista, 2001, n. 6, pp. 27-36: 29-30). Si comprende la diffidenza anche etica di Gerratana verso chi, come Ugo Spirito, poteva far affidamento sulla prima e non sulla seconda, cadendo così in posizioni a dir poco discutibili.
62 Gerratana ricorda esplicitamente la figura di Pintor – cui dedica spazio anche Garin – che nel 1941 aveva polemizzato su «Primato» proprio con Spirito, rivendicando «“la chiarezza delle idee e l’onestà dei propositi” contro le seduzioni dei mistici, dei taumaturghi e dei profeti». Con la sua «romantica “inquietudine”» Spirito doveva apparire «ai giovani più sensibili alla lezione dei fatti come “uno degli ultimi mostri di un tempo che ha sofferto molte crisi”». Per questa ragione Gerratana afferma di non esser disposti «oggi» a rivalutare l’esperienza di Spirito, proprio quando si ripresentano in gran parte gli stessi pericoli d’allora, le stesse illusioni mistificatrici» (Ibid. Cfr. PINTOR, Il sangue d’Europa cit., pp. 159-163).
Floriano Martino, Intellettuali del XX secolo. Garin e le Cronache di filosofia italiana, Tesi di Perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, Anno accademico 2016-2017
Nel dibattito, che sembrava aver trovato una sistemazione definitiva, con la convergenza sul 1936 come data cardine per la presa di coscienza vittoriniana (e il conseguente distacco dal PNF), negli ultimi anni sono tornati ad aprirsi spiragli d’ombra. A ipotizzare per Vittorini una conversione tardiva, sulla soglia del 25 luglio del ’43 (ovvero quando la crisi del fascismo si era in qualche modo palesata apertamente) è stata in particolar modo Ruth Ben-Ghiat nel suo “La cultura fascista”, facendo ricorso agli studi di Mirella Serri. Quest’ultima, sulla base di una serie di documenti inediti, ha infatti ricostruito – con velate accuse di collaborazionismo – la partecipazione di Vittorini e di Giaime Pintor al convegno degli scrittori tenutosi a Weimar nell’ottobre del 1942.
[…] Una possibile risposta potrebbe essere contenuta in un intervento di Umberto Eco intitolato “Il mito americano di tre generazioni antiamericane”. Eco nel suo celebre articolo – su una linea in qualche modo parallela a quella tracciata da Heiney – analizzava il mito degli Stati Uniti come «flusso di contropropaganda di regime» <29 per un’intera generazione. Nel farlo raccontava brevemente le storie di Tito Silvio Mursino (anagramma di Vittorio Mussolini, figlio del Duce) e Giaime Pintor (eroe della resistenza), chiedendosi da dove scaturisse l’immagine mitologica degli Stati Uniti di cui loro, e altri giovani come loro, si sarebbero fatti portatori. Eco arrivava a concludere: «Pintor e Vittorio Mussolini, da due lati opposti della barricata, ci dicono che il mito arrivava via-cinema». <30
Certo per il figlio del Duce, parlare di contropropaganda, o addirittura di opposizione politica, risulterebbe a dir poco fuorviante: per lui ci si dovrà limitare a registrare la semplice fascinazione generazionale nel confronti della cinematografia statunitense.
Pintor potrebbe invece incarnare più compiutamente il ruolo di “oppositore politico” di derivazione cinematografica: del giovane intellettuale che guardando i film di Tom Mix sviluppa la propria controcultura in opposizione ai fasci. I celebri passaggi de “La lotta contro gli idoli” in cui Pintor discute di cinema americano come «arma serenamente rivoluzionaria», il «più grande messaggio che abbia ricevuto la nostra generazione», <31 sembrerebbero confermarlo.
Tuttavia è necessario tenere presente come si stia prendendo in considerazione un testo particolarmente tardo dell’intellettuale di origini sarde, scritto intorno al gennaio del 1943: un testo che dunque difficilmente può fornire elementi sulla gestazione di un antifascismo di derivazione cinematografica datato “anni Trenta”.
A questa constatazione se ne aggiunge una seconda, ancor più dirimente: Pintor, pochi anni prima, riguardo al cinema statunitense scriveva tutt’altro. Nel ’41 in “Pretesto americano” confessava la sua sfiducia nel mezzo cinematografico che, soprattutto in America, determinava la corruzione dell’opera letteraria, la quale, portata su pellicola, non poteva resistere «al logorio di una interpretazione collettiva» e finiva con l’assumere «presto i valori di chi le confidava un interesse mediocre». <32
Si vedrà tutto questo più compiutamente nella seconda parte: per ora sia sufficiente constatare come, per questi motivi, anche Pintor difficilmente possa interpretare la parte del giovane italiano “immunizzato” alla propaganda dei fasci grazie al cinema made in USA.
Accantonati Vittorini e Pintor è comunque possibile affermare che il cinema americano durante gli anni Trenta fu un elemento di contropropaganda?
[NOTE]
29 UMBERTO ECO, Il mito americano di tre generazioni antiamericane, in Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, p. 276.
30 Ibidem.
31 GIAIME PINTOR, La lotta contro gli idoli. Americana, pubblicato postumo in «Aretusa», marzo 1945. Ora anche in: ID., Il sangue dell’Europa, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1965, pp. 156-157.
32 G. PINTOR, Pretesto americano, in «Ansedonia», anno III, n. 2, marzo 1941. Ora anche in: ID., Il sangue… cit., p. 79.
Riccardo Paterlini, Vittorini americano. La traiettoria americanistica di Elio Vittorini, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2017
“Americana” nasceva come espressione di un’intera generazione di intellettuali italiani, impegnati nella traduzione e nella critica della letteratura statunitense. Ne diede una testimonianza celeberrima il giovane Giaime Pintor, che nel suo articolo pubblicato postumo “La lotta contro gli idoli” <147, compose una vera e propria lode nei confronti dell’antologia: “Vittorini compie quel rovesciamento di valori che era necessario per tenere in piedi una storia letteraria che sia ancora storia universale, propone senza accorgersene una tesi radicale, una via di salvezza, per cui sarà proprio l’oggetto, l’origine concreta dell’ispirazione, a determinare una scala di valori e a dirigere l’interesse del critico” <148.
[NOTE]
147 Pubblicato postumo in «Aretusa» (marzo 1945) a cura di C. Muscetta su una minuta autografa non rivenduta, non essendo stato possibile allora, a causa delle vicende belliche che dividevano ancora l’Italia, ritracciare l’originale.
148 G. PINTOR,La lotta contro gli Idoli. Americana, ne Il sangue d’Europa, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1950, p. 212.
Mariasole Simionato, Progettazione letteraria: Elio Vittorini sulle tracce di Ernest Hemingway, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno accademico 2016/2017