A differenza dell’allestimento del tema bellico che avviene in luoghi all’aperto, comprendenti diversi punti della città di Milano, la creazione dei luoghi immaginati, invece, [in “Uomini e no” di Elio Vittorini] richiede uno spazio circoscritto come l’interno della stanza di Enne 2. È un setting in cui predomina un’immobilità sia spaziale che temporale, e questa suspense, che comporta anche la sospensione della narrazione della guerra, introduce riflessioni sulla guerra, sull’uomo e sulla vita personale del protagonista. La stanza di Enne 2 è caratterizzata dalla mancanza di luce e dalle finestre quasi sempre chiuse. L’atmosfera macabra, il letto e la posizione del corpo da “moribondo” suggeriscono una stasi, una morte in vita, una distanza tra Enne 2 e il mondo esterno, come confermato anche dalla posizione della camera, alta su Milano, con l’aria della terra che imbruniva (UN [Uomini e no] 172):
L’uomo chiamato Enne 2 è nella sua camera. Egli è steso sul letto, fuma, e io non riesco a non recarmi da lui. Da dieci anni voglio scrivere di lui, raccontare della cosa che c’è da dieci anni tra una donna e lui, e appena sono solo nella mia camera, steso sul mio letto, il mio pensiero va a lui, e mi tocca alzarmi e correre da lui. (…) È steso vestito sul letto, con le scarpe ai piedi, e ha gli occhi chiusi. Dorme? Ha la sigaretta accesa in bocca; non dorme. (UN 28)
Egli era nella sua camera steso nel suo letto (…). Fumava, pensava alla sua cosa di dieci anni con Berta, e sapeva che Berta sarebbe tornata. (UN 168)
Accadde che tornò Lorena, e lo trovò al buio, steso sempre sul letto, guardando intorno a sé fuori dalle finestre il fumo lieve della prima luna su Milano bassa nelle sue case spente. (UN 173)
Poche volte questa immobilità viene interrotta: con l’intrusione di personaggi della realtà esterna, tra cui Lorena, i compagni, gli altri abitanti dell’edificio e, paradossalmente, con l’arrivo della sua morte, quando invece di essere steso, «si solleva sul letto» (UN 194):
Si alza a sedere un uomo sul letto, ha con sé, nella notte, tutto questo, ed è un morto che siede nella sua tomba, medita. (UN 195)
La ragione principale della sofferenza di Enne 2 è l’amore impossibile provato nei confronti di una donna: Berta. Il loro rapporto, essendo sviluppato in absentia (Abignente, 2014, p. 121), viene mantenuto vivo nella fantasia del protagonista attraverso la presenza di un suo vestito, appeso da dieci anni dietro la porta della camera di Enne 2. Sul piano dei luoghi proiettati, si tratta dell’oggetto dalla maggiore carica semantica: è un triggering device, ovvero un elemento necessario perché il personaggio si lanci nell’evocazione o nell’immaginazione di luoghi fisicamente lontani e inaccessibili, scatenando un trasferimento della narrazione dal piano reale a quello cognitivo. Oltre a essere la sua principale ossessione, il vestito-Spettro segnala anche la durata del rapporto tra Enne 2 e Berta, creando in questo modo non solo una delimitazione spaziale della narrazione (stanza di Enne 2 – Milano), ma anche una temporale
della vita individuale del protagonista e della realtà storica che si svolge al di là della sua camera:
Che hai tu in casa tua? Che hai nella tua camera? Niente hai. Niente ho? Hai peggio. Un vestito appeso dietro la porta. Un vestito appeso dietro la porta? L’ho veduto. Un vestito di donna dietro la porta. (UN 18)
La necessità di richiamare episodi immaginati o ricordati sembra apparire dopo ogni confronto diretto con la guerra a Milano: «il grido di Cane Nero sopra il deserto» (UN 24) precede la prima visita dei luoghi dell’infanzia di Berta; l’incontro di Enne 2 con Lorena, che al posto dell’amore offre solo la sabbia nera, fa rifiorire l’immagine dell’aquilone lanciato verso il cielo siciliano; la vista panoramica del «deserto che rinasceva» (UN 78) in seguito all’attacco del Tribunale induce un’altra regressione del protagonista nella sua casa natale.
In quest’ottica, gli episodi riportati nei corsivi potrebbero interpretarsi come dei tentativi del protagonista di salvarsi di fronte al vuoto del presente, consolandosi con delle evasioni in un passato felice o in eventi mai avvenuti. Una volta avviatosi «il processo di interiorizzazione (…) nel quale l’evento storico, pur rimanendo l’elemento appartenente alla collettività, diventa partecipe, se non causa, di un cambiamento emotivo e intimo del personaggio» (Catalano, 1977, p. 24), la separazione e la solitudine esperite all’interno della stanza di Enne 2 introducono il tormento dell’uomo «doppio o diviso» (Panicali, 1974, p. 193) tra il suo passato e il presente, sopraffatto dalla sensazione di una paralisi esistenziale.
Questo «gioco di specchi» (Brigatti, 2016, p. 201) che si traduce nell’incertezza dell’identità del soggetto che risiede nella stanza, continuamente oscillante tra Enne 2 e l’io del narratore, determina una sovrapposizione: all’interno di uno spazio reale, viene introdotto lo spazio dell’io, in cui assieme al personaggio convive l’autore, infiltrandosi da una posizione di «diarista metanarrativo» (Brigatti, 2016, p. 50). Perché possa avverarsi il trasferimento di Enne 2 negli spazi mentali, la presenza dello Spettro risulta indispensabile:
Io posso far molto per te. Sì? egli dice. Sì gli dico. Che cosa? egli mi dice. Io ho bisogno di riposare. E mi guarda. Lo sai che cosa vorrei? Che cosa? io gli domando. Un giorno della mia infanzia. Non è difficile averlo. Metterci dentro la testa. Non è difficile, gli dico. Lo vuoi? Ma con una differenza. Che differenza? Con la cosa tra me e lei. Come? gli chiedo. La tua infanzia e questa cosa insieme? La mia infanzia e questa cosa insieme. Ma non è reale. È due volte reale. Tu di allora? gli dico. E tu di ora? Io nella mia infanzia egli mi dice. E nella mia infanzia anche lei. La cosa nostra in un giorno di allora. (UN 26)
Tra le cose che lo Spettro può fare per Enne 2, oltre ad una rivisitazione dei luoghi conservati a livello mnemonico, c’è pure l’uso dell’immaginazione che permette un incontro non avvenuto sul piano reale, e quindi un’immersione in un passato veramente accaduto e in uno solo parzialmente conosciuto. L’incontro tra i due cronotopi, quelli dell’infanzia di Berta e di Enne 2, viene conseguito attraverso l’ibridizzazione di due luoghi che sulla mappa reale <21 si trovano agli antipodi, e quindi il viaggio immaginario non è più un percorso che avviene sull’asse temporale, ma soprattutto sull’asse spaziale. Creati con il ricorso alla «realtà in movimento come un montaggio d’immagini separate» (Falaschi, 1988, p. 13), gli spazi proiettati si infiltrano nella realtà bellica: dichiarando la volontà di tornare all’innocenza infantile e di voler incontrare Berta-bambina per cambiare il suo destino, Enne 2 accosta il proprio passato a quello di Berta, facendoli confluire e vivendoli come attimi di interruzione del presente bellico. Creati, dunque, con l’intenzione di accontentare un desiderio impossibile, i luoghi sensibili risultano come una rêverie e presuppongono un continuo sconfinamento dallo spazio della stanza milanese, trasformando la spazialità realista in una che annienta le leggi fisiche.
La prima fermata del viaggio di Enne 2 e lo Spettro presuppone il recupero di un ricordo non appartenente al protagonista, ma solo indirettamente riferito dalla stessa Berta. Il protagonista entra nella sua memoria, accompagnato sempre dallo spettro e inserendosi da spettatore-bambino nei luoghi abitati da Berta-bambina, con il desiderio di conoscerla anche nella sua infanzia. Sul piano topografico, la sua casa e il giardino vengono inscritti in una regione, e solo più tardi ci viene fornita l’informazione sulla città di Milano dove ha avuto luogo l’infanzia di Berta. Nonostante questo zoom out, necessario per distinguere tra lo spazio “realista” e quello fantasticato, il resto della narrazione ambientata nella geografia proiettata riprende una descrizione minuziosa dei luoghi. È un paesaggio di campagna, con cedri del Libano, che comprende il giardino e la casa dove abitava Berta da bambina:
So che abitava in campagna, mi risponde. In mezzo a un giardino. Entriamo in giardino. Questi grandi alberi? gli chiedo. Questi grandi alberi, egli dice. Sono cedri del Libano? Io non mi intendo di alberi. Ti ha detto lei ch’erano cedri del Libano? Egli guarda in alto, camminiamo, e negli alberi è quasi sera, pomeriggio tardi. Sento la sua voce, egli dice. La sua di bambina? La sua di dieci anni. (…) Sarà nella casa? Vediamo vetri di finestre e sui vetri sole. Io mi avvicino. Non avviciniamoci alla casa, egli dice. Ma è con me, e vediamo, dietro i vetri, un camino. C’è fuoco nel camino, e quello che sui vetri sembrava sole, forse è il fuoco del camino. Due ragazze siedono e leggono. Non è qui, egli dice. Dove può essere? Gli chiedo. Non sarà ancora tornata da scuola. (…) Sentiamo un rumore di patti a rotelle, e andiamo sul muro del giardino, ci sediamo là. Eccola, gli dico. (UN 30-31)
Richiamando un modello d’ambientazione in cui il giardino e il castello si riallacciano all’idea della «dama che è l’oggetto d’amore» (Meneghetti, 2000, p. 57), la costruzione spaziale del primo setting ricorda inizialmente l’iconografia di un paradiso perduto: Enne 2 al momento dell’entrata nel giardino rivolge lo sguardo in «alto» (UN 27), l’attenzione al cielo accresce il valore conferito a Berta di messo celeste, mentre Berta come presenza angelica si rispecchia sia nel suo vestito di colore bianco, «come un’ala» (UN 28), sia nel suo movimento quasi ascensionale, «in turbine» (UN 28). Il carattere divino del luogo è arricchito pure dall’immagine del giardino, «circondato da un muro» (UN 27), e dei grandi alberi, i cedri del Libano, simboli della divinità e dell’ascensione. L’armonia dell’Eden però si dissolve nel suo opposto, assumendo i contorni di una città di Dite: in un primo momento innalzata al rango di una divinità, Berta diviene una «donna-vampiro» (Cadamuro, 2010, p. 98), il suo giardino si profila come un luogo irraggiungibile nel quale lo stesso Enne 2 rifiuta di entrare, e l’insistenza sul fuoco che traspare dalla casa, assieme all’acqua di una roggia, e i tre ragazzi urlanti che girano intorno a lui, (…) introducono presto all’interno della proiezione la realtà dei GAP, enunciata dal protagonista-bambino in un linguaggio incomprensibile per gli altri ragazzi:
«Ora basta» il bambino dice. «Che cosa?» dice lei di dieci anni. «Io sono nei Gap» il bambino dice. «Mandali via, o li faccio fuori.» «Che cosa?» dice lei di dieci anni. «Che cosa?» (UN 29)
Ne consegue che i piani spazio-temporali creati con il potere dell’immaginazione del protagonista fondono ricordi suoi e ricordi altrui, eppure non impediscono che la narrazione dei corsivi si presenti quasi come se si stesse svolgendo su un altro piano reale, parallelo alla realtà bellica di Enne 2-adulto. L’unica caratteristica che introduce un elemento fantastico è la facilità di spostamento dei personaggi da un luogo evocato a un altro. Questa migrazione effettuata immediatamente risponde a una delle questioni poste da Piatti nella definizione dei projected spaces rispetto alle regole stabilite dentro i luoghi immaginati, perché, a differenza di quanto accade nel mondo fisico, i personaggi riescono a trasgredire le regole dello spostamento, cambiando con un movie cut gli scenari in cui la narrazione dei corsivi procede. Questo movimento facilitato dall’immaginazione permette anche il passaggio da una memoria in un’altra di elementi, situazioni, momenti e luoghi che all’improvviso si trovano a coesistere in uno stesso posto:
Dalla Sicilia fin dentro Milano? Dalla Sicilia fin dentro Milano. Ora siamo, dalla Sicilia, dentro Milano, e lui di dieci anni la chiama. Berta, le dice, non temere. Sono quel ragazzo dell’altra volta. (…) E dove mi porti? A casa da me. In Sicilia. Usciamo, e non è più il piccolo cortile nella luna: è la Sicilia. Ma qui è giorno. È sole. E la campagna è di pietra e capperi, tonda, di terra invernale che odora. Ti piace? Non è male. Qui io sono fuori tutto il tempo. Giochi tutto il tempo? A volte gioco, a volte no. Sto qui tutto il tempo. Tutto il tempo lontano da casa? Mica la casa è lontana. Non senti questo rumore? Viene da casa. Che rumore è? Mio padre che ferra i cavalli. Ma io non vedo niente. Saliamo dove la campagna s’arrotonda in alto, cresce il suo odore invernale, e vediamo fichidindia, un tetto, poi altri tetti più in basso, tre o quattro, e bianco di povere su una strada. Quel primo tetto è la casa. Chi c’è dentro? C’è mia nonna. C’è solo tua nonna? Mia madre anche. E tuo padre che ferra i cavalli dov’è?» dall’altra parte, verso la strada. (UN 78-79)
Di qui la facilità con cui lo Spettro, Enne 2 e Berta si trasferiscono dai luoghi di Bertabambina in quelli di Enne 2-bambino. La Sicilia, sin dall’inizio proposta come un luogo desiderato («Lo sai che cosa vorrei? Che cosa, io gli domando. Un giorno della mia infanzia», UN 29) e, contemporaneamente, un luogo ricordato, anche qui, come nel resto della geografia immaginaria di Vittorini, si propone come un «limbo vagamente onirico» (Bonsaver, 2008, p. 115), ossia come un «agglomerato di cose» (Falaschi, 1988, p. 24), di oggetti veri, portati al loro massimo di espressività e appartenenti a un’epoca perduta che, però, non può essere tralasciata se si mira alla conquista di un nuovo equilibrio.
Con «la tecnica delle didascalie per fotogrammi» (Falaschi, 1988, p. 17) si dispiegano immagini impresse nella memoria di Enne 2: l’aquilone lanciato verso il cielo, simbolo della fiducia nella vita che si può avere solo nell’epoca dell’infanzia, assieme alla ricomparsa del libro preferito dello scrittore, le Mille e una notte, che oltre a servire alla rievocazione emotiva di un luogo, significa anche «cambiare tempo e percezione di se stesso nel tempo» (Panicali, 1974, p. 79). La terra dell’infanzia, poi, come in tutta la produzione di Vittorini, si propone nuovamente come un luogo positivo, contrapponendosi agli spazi confinati e angusti della vita adulta di Milano, con una felicità che si rispecchia nella vasta campagna siciliana, e suggerendo la vita all’aperto come un’esistenza «piena in grado di superare le dilacerazioni, le doppie verità, i falsi doveri del mondo familiare (borghese)» (Ferretti, 1968, p. 94):
Qui io sono fuori tutto il tempo. Giochi tutto il tempo? A volte gioco, a volte no. Sto qui tutto il tempo. (UN 78)
In modo analogo a quanto avviene nel giardino di Berta, però, anche nel corso di queste proiezioni cognitive presto si rivela l’illusione del ritorno onirico come alternativa salvifica al presente bellico. L’impossibilità di liberarsi dalla tragedia della guerra porta verso una sua inevitabile penetrazione nei luoghi più autentici di Enne 2, introducendovi immagini di un «presente extratemporale» (Spinazzola, 2001, p. 306), traducendosi in quella stessa luce, «come già di sera», che giunge dal collegio di Berta, anche in Sicilia, annunciando l’arrivo delle casse con i morti che spuntano nelle erbe della campagna siciliana:
Non vi è più sole. Sulla tonda campagna è una luce bianca come già di sera. E nell’erba che il cavallo apre brucando, muovendo passi brucando, vediamo la cassa del collegio. (…) Indica, nelle erbe che le nascondono, altre casse uguali. «Sono i ragazzi biondi che abbiamo ucciso io e i miei fratelli» le dice. (UN 87)
Pur essendo in grado di colmare per un attimo il vuoto patito a causa della mancanza di Berta, le proiezioni presto si rivelano come luoghi porosi, in cui il mondo dell’infanzia e quello della vita presente di Enne 2 non riescono ad annullarsi a vicenda: se nel presente milanese il protagonista appare come bambino da dieci anni, nella Sicilia ricordata appaiono le vittime della guerra. L’interazione tra la Sicilia e la Lombardia, tra il presente e il passato, aumenta ancora di più quando si aggiunge l’elemento della memoria di Berta: la cassa della compagna morta che riappare in Sicilia. Se le proiezioni inizialmente si profilano come gli unici luoghi autentici in cui tornare di fronte all’atopia bellica, presto esse si dissolvono nella loro inconsistenza, nell’impossibilità di tornare nel passato e cambiarlo e, soprattutto, nella forza del presente bellico di infiltrarsi anche nei luoghi più profondi dell’animo umano. La creazione di una dimensione onirico-fiabesca, quindi, non si presenta solo da sfondo dell’ontologia del benessere del sognatore Enne 2, che gli permette una momentanea riconciliazione della «frattura tra l’io e il reale» (Panicali, 1974, p. 108). La questione privata, anche se apparentemente staccata dalla realtà storico-sociale, implicitamente affronta tutti i nuclei ideologici del pensiero di Vittorini, ricongiungendosi inevitabilmente alla tematica bellica.
Questo si evidenzia soprattutto nella proiezione ambientata nel collegio di Berta, in cui l’atmosfera infernale di Milano non solo non può essere dissolta con il ricorso alla fantasticheria, ma si rispecchia nel paesaggio oscuro, in cui l’unica fonte d’illuminazione dentro Milano è una «luce dei morti» (UN 80) che, più che contribuire alla costruzione favolistica degli ambienti in cui ha vissuto Berta da bambina, richiama lo stesso campo semantico del «regno» (Vittorini, 1973, p. 1132) della borghesia che traspare dalla costruzione spaziale dei luoghi di Berta-bambina, non casualmente associato al «regno dei cieli» (Vittorini, 1973, p. 1140), visto che si tratta di due spazi che occupano un posto ugualmente negativo nel pensiero di Vittorini.
La critica della borghesia e della concezione cristiana del paradiso – considerati come mondi la cui parabola fondamentale è la salvazione di chi è migliore e che sono, quindi, riservati a pochi prescelti – sono messe in relazione in alcune annotazioni di Vittorini degli anni trenta, più tardi pubblicate sotto il titolo Quaderno ’37:
Comunque, legando i suoi privilegi al denaro (il che è determinato dalla sua natura), la borghesia si è resa, a differenza dell’aristocrazia, irresponsabile del proprio dominio sociale. A chiunque la rimproveri di ciò essa può sempre liberamente rispondere con un sorriso: forse io ti vieto di diventare borghese? Coraggio, ragazzo mio, fatti avanti, il mio regno non è chiuso a nessuno. Conquistati il tuo posto nel mondo e sarai salvo! Ed è qui che la borghesia gioca sulle parole. Perché il suo regno può essere aperto quanto vuole, ma è evidente che non tutti possono entrarci. (Vittorini, 1973, p. 1132-1133)
Sempre finisce che chi ama Dio non ama gli uomini. Le religioni non riescono a rendere gli uomini migliori, sempre finiscono di essere un inciampo al diventare migliori. (Vittorini, 1973, p. 1140)
Per quel che riguarda la rappresentazione della Sicilia, anche se di minore respiro riguardo alla raffigurazione del mondo offeso e delle condizioni di vita al Sud rispetto ad altre sue opere, essa presenta allusioni alla questione storica implicite e intessute con la focalizzazione sugli oggetti nelle costruzioni a livello cognitivo: l’accenno al piatto delle lenticchie, il riferimento indiretto allo sciopero di Messina nel litigio tra la madre e la nonna del protagonista, l’uso di un linguaggio popolaresco e perfino lo scherzo della provenienza ticinese di Berta, sono tutti tasselli di una realtà sociale a cui Vittorini aveva l’urgenza di dare voce, raccontando di quel «sottofondo periferico dei disoccupati, degli affamati, dei miserabili» (Addamo, 1962, p. 97)
In quest’ottica, pure la stanza di Enne 2 smette di fungere da semplice setting, presentandosi invece come un simbolo dell’interiorità del personaggio e, di conseguenza, identificando le nozioni di casa e vita. «Le vibrazioni simboliste <22 dell’assenza e dell’attesa» (Papàsogli, 1988, p. 7), però, si materializzano soprattutto nell’oggetto che ha lo statuto di protagonista nella camera, il vestito di donna (UN 20) appeso da dieci anni dietro la porta, che simboleggia più da vicino quel «deserto più squallido, non di una vita che manca, ma di una vita che non è tale» (UN 36) e che incarna non solo la separazione tra Enne 2 e la donna che ama, ma soprattutto quella «dell’essere dal proprio -ci», tradotta con più evidenza nell’identità incerta del personaggio, che oscilla tra Enne 2 e l’io del narratore:
L’uomo chiamato Enne 2 è nella sua camera. Egli è steso sul letto, fuma, e io non riesco a non recarmi da lui. (…) Appena sono solo nella mia camera, steso sul mio letto, il mio pensiero va a lui, e mi tocca alzarmi e correre da lui. Ma sembra che io lo tormenti. Crede che io sia un fantasma, (…) e ogni volta quando entro da lui, mi tratta in principio, come se davvero fossi un fantasma, quel suo Spettro. (UN 28-29)
La tematica dell’estraneità dell’io dal mondo, annunciata già dal racconto vittoriniano del 1940 da cui è ripreso il simbolo del vestito dietro la porta, nel romanzo dedicato alla Resistenza si presenta con una diretta intrusione dello scrittore nella narrazione, proponendo in termini espliciti la dialettica uomo politico-uomo privato e riferendo, in tal modo, «l’alterità riposta nel sé» (Pomilio, 2006, p. 47). Ciò diviene soprattutto evidente se si consulta la riflessione dello Spettro dell’edizione del 1945, espunta dalle versioni successive del romanzo:
Io a volte non so, quando quest’uomo è solo, chiuso al buio, steso su un letto, uno al mondo lui solo, io quasi non so s’io non sono, invece del suo scrittore, lui stesso. Ma, s’io scrivo di lui, non è per lui stesso, è per qualcosa che ho capito e debbo far conoscere: e io l’ho capita, io l’ho; e io, non lui, la dico. Penso a volte, l’ho detto, se non sono davvero il suo Spettro; e a volte, di più, penso se non sono lui in persona, anche l’uccisore che ora è lui, così come è lui, e il patriota che è lui, l’uomo che è lui stesso. Pure io non credo di avere mai adoperato una rivoltella. Ho mai ucciso? Non credo. E la sua storia non è la mia. Io non ho che patito mentre lui ha fatto; e io di me non potrei dire nulla che sia semplice e chiaro, mentre di lui posso dire che fece questo, fece quest’altro, e subito è chiaro tutto. Ma, s’io scrivo di lui, non è per lui stesso, è per qualcosa che ho capito e debbo far conoscere: e io l’ho capita, io l’ho; e io, non lui, la dico. (Vittorini, 1945, p. 73)
La lacerazione tra le responsabilità da assumere nel ruolo di uomini e in quello di intellettuali, già esplicitata nella nota dell’edizione del 1945, trasforma <23 la stanza di Enne 2 nel palcoscenico principale della riflessione di Vittorini sul ruolo dell’intellettuale e sull’umiltà <24 degli scrittori. Confermata dal carattere teatrale dei corsivi, che accorciano ulteriormente la distanza tra l’autore, i suoi personaggi e i lettori, l’interazione tra Enne 2 e lo Spettro e la presenza degli spazi proiettati accostati a quelli della realtà bellica rendono evidente la «dialettica della separatezza», riconosciuta dalla maggior parte della critica come la peculiarità principale della poetica di Vittorini.
[NOTE]
21 «this includes techniques of remodelling, renaming, relocation or a synthesis of several places» (Piatti, Reuschel, Hurni, 2013b, p. 139).
22 «Ed egli fu contento che venissero, che potessero vederlo nella sua casa, entrare nella sua vita, e non occorresse più nascondere loro dove abitava.» (UN 182)
23 «Di molte cose su cui avrei un vecchio parere da dire avrei potuto scrivere in occasione di questo libro: riguardo ad arte e cultura, compiti sociali di chi scrive, suo dovere di prender parte alla rigenerazione della società italiana, e modi di cui oggi dispone nel quadro dello sviluppo storicamente raggiunto dalla cultura, per assolvere questo suo compito, questo suo dovere. Avrei scritto cioè una prefazione, e sarebbe stata una lunga prefazione, forse più lungo dello stesso libro (…)» (Vittorini, 1945, p. 265).
Ana Stefanovska, Lo spazio narrativo del neorealismo italiano, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2019