Duchamp non ha mai scattato alcuna fotografia

Marcel Duchamp (1887-1968) è una figura con cui ogni storico dell’arte contemporanea attivo in Europa o in America deve prima o poi confrontarsi. Cinquant’anni dopo la sua morte (il 2 ottobre 2018 per la precisione), non abbiamo finito di misurarci col lascito – visivo e concettuale – dell’opus duchampiano. Il mercato editoriale si è mostrato all’altezza della sfida. Per tenersi alle mostre più innovative degli ultimi anni, penso a Inventing Marcel Duchamp. The Dynamics of Portraiture (National Portrait Gallery, Washington 2009), Marcel Duchamp: Etant donnés (Philadelphia Museum of Art, 2009), La peinture, même 1910-1923 (Centre Pompidou, Parigi2014), nonché l’imminente Dalí/Duchamp, che aprirà i battenti a ottobre alla Royal Academy of Arts di Londra. Riguardo alle pubblicazioni, penso alla documentatissima biografia di Bernard Marcadé, Marcel Duchamp. La vie à crédit (2007, tradotta nel 2009 da Johan & Levi), allo studio di Thierry Davila sull’inframince (De l’inframince. Brève histoire de l’imperceptible de Marcel Duchamp, Beau Livre 2010), fino a The Apparently Marginal Activities of Marcel Duchamp (MIT Press 2016) di Elena Filipovic, che si concentra sull’attività curatoriale, facendo di Duchamp un antesignano dell’institutional critique.
L’Italia non è rimasta a guardare, come conferma l’effervescenza delle pubblicazioni recenti, la cui eterogeneità metodologica è l’ennesima testimonianza dell’inesauribilità del soggetto. Penso, in particolare, all’antologia curata da Stefano Chiodi (Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito, Electa 2009) in cui sono tradotti per la prima volta contributi di autori francesi e americani, oltre alla riproposizione di alcuni scritti di Duchamp e di critici italiani sparsi in riviste e cataloghi. Oppure alle analisi che spaziano dagli studi di genere (Giovanna Zapperi, L’artista è una donna. La modernità di Marcel Duchamp, ombre corte 2014), a un approccio politico sul secondo Duchamp che, dopo aver realizzato il dipinto Tu m’ (1919), abbandona la pittura e, pubblicamente, ogni attività artistica (Maurizio Lazzarato, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, edizione temporale, 2014), fino alla ricostruzione della fortuna concettuale di Tonsure (1919) (Michele Dantini, Macchina e stella, Johan & Levi 2014).
A Marcel Duchamp Elio Grazioli ha rivolto sempre un’attenzione particolare, dal florilegio duchampiano per la collana “Riga” (Marcos y Marcos 1993) a La polvere nell’arte (Bruno Mondadori 2004), ispirato dall’allevamento di polvere di Duchamp e Man Ray – matrice e motore, tra l’altro, della straordinaria mostra curata da David Campany, Dust. Histoires de poussière d’après Man Ray et Marcel Duchamp (Le Bal, Parigi 2015). Con Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile (Johan & Levi 2017), Grazioli si rivolge ora a un tema nelle corde del critico quanto dell’artista: la produzione fotografica.

Mostra di Duchamp, Centre Pompidou, 1977. Fonte: Riccardo Venturi, art. cit. infra

Alla fotografia Jean Clair ha dedicato uno studio precursore nel 1977, Duchamp et la photographie. Essai d’analyse d’un primat technique sur le développement d’une oeuvre (Editions du Chêne), ormai introvabile ma ripreso in Sur Marcel Duchamp et la fin de l’art (Gallimard 2000). Quest’incursione nella fotografia era concomitante con la mostra di Duchamp nell’appena inaugurato Centre Pompidou. Al suo interno era ospitata una hall in stile normanno che illustrava la vita dell’artista francese. Precisamente qui prendeva avvio il recupero nazionale di un artista allora demonizzato in patria, come dimostra Vivre et laisser mourir ou la Fin tragique de Marcel Duchamp (1965), polittico di otto quadri di Gilles Aillaud, Eduardo Arroyo e Antonio Recalcati e sorta di manifesto della figurazione narrativa. Del resto Duchamp si era trasferito negli Stati Uniti, un paese, non dimentichiamolo, che all’epoca della mostra del Pompidou gli aveva già dedicato importanti retrospettive: Pasadena nel 1963, Filadelfia nel 1973, New York nel 1974.
Alla lettura di Jean Clair, Grazioli preferisce quella di Rosalind Krauss e Jean-François Lyotard – rispettivamente Teoria e storia della fotografia (1990) e I transformatori Duchamp (1992), entrambi tradotti in italiano dallo stesso Grazioli -, così come quella più aggiornata di Herbert Molderings (Marcel Duchamp at the Age of 85. An Incunabulum of Conceptual Photography, Walther König 2013), un autore distintosi per uno studio quasi maniacale di una sola opera di Duchamp, Trois stoppages étalons (1913).
Ma il nume tutelare di Grazioli sembra essere, in realtà, un testimone d’eccezione quale Ugo Mulas. Come fotografare un artista la cui pratica è fondata sul non-fare, si chiedeva? Si tratta di una questione estetica complessa: come rappresentare la negazione, come cogliere visivamente ciò che nega l’azione, come realizzare un’immagine del non, come negare un’immagine? Ma si tratta anche di una questione prettamente fotografica, come osserva Grazioli: “Il non fare come atto e non come astensione dal fare, come rinuncia, omissione: impossibilité du fer. Paradosso anche dell’atto fotografico”.
Mulas escogita diverse soluzioni: fa posare Duchamp – “posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo” -; lo riprende mentre passeggia, ad esempio a Washington Square a New York: “il camminare [è] l’atteggiamento del vivere più elementare, e fotograficamente più significativo, un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento più evidente del vivere e basta”; lo rappresenta assorto davanti a una scacchiera preso a non giocare.

Man Ray, Rrose Sélavy alias Marcel Duchamp, 1921. Fonte: Riccardo Venturi, art. cit. infra

A quest’estetica del non fare, di cui Duchamp fu maestro, non sfugge neanche la fotografia. L’artista francese infatti non ha mai scattato alcuna fotografia. Anche gli scatti in cui le marche autobiografiche sono più evidenti sono basati su una forma di assenza dell’artista. Basti pensare alle immagini che ne hanno costruito la figura pubblica, e che spaziano dalla moltiplicazione della sua immagine (Ritratto multiplo di Marcel Duchamp, 1917) alle messinscene en travesti che anticipano la Body Art (da Rrose Sélavy a Tonsure, 1921), fino all’inversione del rapporto tra positivo e negativo, luce e ombra, figura e fondo della maturità (Autoritratto di profilo, 1958). Giochi di specchi in cui la moltiplicazione caleidoscopica dell’identità ha prodotto una pioggia acida di letture postmoderniste da cui non abbiamo ancora preso le necessarie distanze.
Che Duchamp non sia l’autore delle sue foto è un sintomo del suo rapporto eretico se non eversivo con la fotografia, come evidente nelle sue opere quanto nelle note raccolte nella Scatola verde. La fotografia viene interrogata non solo come macchina (celibe o meno) che produce immagini riproducibili, ma, più generalmente, come medium, come operatore. È lo snodo del libro, che Grazioli riprende da Rosalind Krauss, ovvero il passaggio decisivo dalla fotografia al fotografico, “alla fotografia non come tecnica ma come ‘oggetto teorico’”, perlomeno sin dal Grande vetro (1915-1923).
Tenendosi a questa lettura, della fotografia vengono isolati e sviluppati alcuni elementi specifici, a partire dalla capacità di cogliere il movimento e la velocità – l’“esposizione ultrarapida” come la chiamava Duchamp – e che risale alla cronofotografia di Etienne-Jules Marey. Incidentalmente, quest’indagine della quarta dimensione entrava in risonanza con gli interessi scientifici dell’epoca: geometria non euclidea, radioattività, teoria atomica, termodinamica. Approcci che avevano come oggetto il mondo invisibile degli elettroni, dei raggi X, la fluidità delle onde elettromagnetiche. A Duchamp interessava meno la teoria scientifica in sé che l’immaginario scientifico, la capacità immaginaria se non visionaria dell’epistemologia. Una mossa per spazzolare contropelo il modernismo centrato sul formalismo, come ha magistralmente dimostrato Linda Dalrymple Henderson in The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art (MIT 1983, nuova edizione 2013) e Duchamp in Context: Science and Technology in the “Large Glass” and Related Works (Princeton University Press 2005).
Al di là della quarta dimensione, nel corso del libro di Grazioli, la nozione di fotografico si espande, e tocca, sinteticamente: il caso, elemento cruciale del processo creativo al di là della forma predefinita e conchiusa; l’indifferenza, propria al readymade come all’occhio fotografico che sembra limitarsi a catturare quella porzione di reale ritagliata dall’inquadratura; la polvere: “Al limite della materia, a toccarla essa si dissolve o cambia di consistenza, per cui solo la fotografia riesce a fissarla, a catturarla in maniera stabile”; il readymade che, non diversamente dal cliché fotografico, è un prelievo da un contesto spaziale quanto temporale; fino al gioco degli scacchi, per la natura anti-mimetica della scacchiera.
In quanto “strategia per sfuggire all’iconico”, ovvero al retinico, l’atto fotografico “è proiezione, ombra, impronta, prelievo, gesto, a sua volta readymade; non una riproduzione ma un’appropriazione della realtà in immagine, una cattura dell’immagine come oggetto, per quanto immateriale o ‘infrasottile’ essa sembri”. Più che trasformare la realtà in immagine, la fotografia mette insomma in questione lo stesso statuto del reale.
Al riguardo, la declinazione più intrigante del fotografico è senza dubbio l’idea di inframince o infrasottile: “Pellicola senza spessore, velo immateriale, incorporeo, presenza puramente visiva, [la fotografia] è più dell’ordine del virtuale, del riflesso speculare, del ‘simulacro’ […] e degli spettri, dei fantasmi, dell’aura”. Inframince: concetto sfuggevole, nei quarantasei appunti sparsi lasciati dall’artista non solo manca qualsiasi definizione, ma si legge anche che l’inframince non è un sostantivo ma un aggettivo. Duchamp ne fornisce tuttavia alcuni esempi: lo spazio tra il fronte e il verso di un foglio di carta, il calore di una sedia appena abbandonata, le persone che passano all’ultimo momento nei portelli della metro, il sibilo provocato dallo sfregarsi di due gambe in movimento, il fumo del tabacco quando sa anche della bocca da cui esala, l’intervallo tra la detonazione di un fucile e la pallottola sul bersaglio, i raggi X e gli odori, i riflessi di luce sulle superfici e sugli specchi. L’inframince segna una separazione impercettibile, insufficiente per distinguere il maschile dal femminile, uno scarto minimo tra due oggetti realizzati in serie dallo stesso modello, tanto più questi appaiono identici, una pittura su vetro vista dal lato non dipinto.
Partito dal Grande Vetro, il percorso tracciato da Duchamp oltre la fotografia non poteva che concludersi con Dati: 1) la caduta d’acqua, 2) il gas d’illuminazione (1946-1966), l’opera esposta postuma da osservare dal buco di una serratura, non diversamente da un obiettivo fotografico. A distanza di cinquant’anni, il Grande Vetro e Dati tessono una rete di richiami che attraversa tutta l’opera di Duchamp. Come isolare, del resto, una parte della produzione di un artista che ha realizzato una valigia piena di riproduzioni in miniatura delle sue opere, o un dipinto come Tu m’ (1918), sorta d’inventario di quanto compiuto fino allora nel campo della pittura e del readymade? Che il Grande Vetro e Dati siano esposti nella stessa sala del museo di Filadelfia, a pochi metri una dall’altra e dalla impeccabile installazione delle sculture di Brancusi concepita da Duchamp stesso è, c’è da scommetterci, l’ennesimo caso di inframince.
Riccardo Venturi, Un immagine del non / Duchamp fotografico, DOPPIOZERO, 25 maggio 2017

Duchamp e il ready-made: un binomio che ha rivoluzionato la storia dell’arte, portando alla creazione di opere uniche e mai immaginate fino a quel momento. Marcel Duchamp, artista stravagante ed estroso, ha avuto un ruolo chiave nell’arte contemporanea del secolo scorso: diventato celebre per l’invenzione del ready-made, pur essendosi dedicato all’arte fin dalla giovinezza e per quasi tutta la vita, ha sempre mostrato una certa insofferenza nei confronti delle correnti artistiche della sua epoca.
Nato nel 1877 in un paesino della Normandia, comincia a dedicarsi alla pittura fin dall’età di 14 anni, ritraendo la sorella Suzanne o dipingendo paesaggi con colori a olio. Le primissime influenze furono impressioniste, poi arrivarono il fauvismo, il simbolismo, il cubismo e il futurismo.
Eppure Marcel fatica a rientrare negli schemi, nella pittura così come nella vita: non ama definirsi simbolista né cubista, né parte di qualsiasi altro movimento dell’epoca. Grazie ad alcune conoscenze del fratello Jacques, espone per la prima volta al Salon d’Automne nel 1908 e l’anno dopo al Salon des Indépendants dove, tra l’altro, una delle sue opere più celebri, Nudo che scende le scale n. 2, fu rifiutato nel 1912 perché giudicato troppo futurista. La stessa opera fu esposta poco dopo a New York, dove divenne famosa.
Nella Grande Mela Marcel approderà nel 1915, già noto nel mercato dell’arte grazie al suo capolavoro, la cui fama lo aveva preceduto.
Il rifiuto del Salon des Indépendants aveva tuttavia segnato un punto di rottura, che porterà Duchamp ad allontanarsi progressivamente dalla pittura, lavorando principalmente come consulente artistico per galleristi che come artista vero e proprio: infatti smise di dipingere nel 1923, dopo anni di attività sempre più rada, all’età 46 anni.
All’arte dedicò comunque la sua vita e la sua professione, collaborando con Katherine Dreier e Man Ray, con i quali fondò la Société Anonyme nel 1920, nel commercio e nel collezionismo di opere d’arte.
Ma Duchamp è noto soprattutto per il suo coinvolgimento nel movimento dadaista, categoria che pure gli stava stretta.
Il movimento Dada nacque come avanguardia artistica all’inizio del XX secolo, ufficialmente a Zurigo, da un gruppo di artisti che rifiutavano la ragione e la logica in favore dell’intuizione, l’irrazionalità e la follia. I dadaisti rigettavano gli standard e le convezioni artistiche tradizionali, rispondendo con opere che andavano contro l’estetica e la cultura del tempo. Nel contesto di derisione e riscrittura del concetto di arte convenzionale si inquadra Duchamp e il ready-made: oggetti pronti, “confezionati”, estrapolati dal loro contesto e resi opera d’arte tramite la semplice selezione degli stessi da parte dell’artista.
La prima opera ready-made nasce prima ancora del movimento dadaista, nel 1913: la Ruota della bicicletta.
Sebbene non si tratti di un’opera ready-made pura, in quanto la ruota è stata manipolata e infilata dentro a uno sgabello, sancisce la nascita del concetto artistico. La prima opera ready-made pura è invece lo Scolabottiglie (1914).
Nella dissacrazione dell’arte il ready-made nasconde in realtà una filosofia più profonda: nega l’arte in quanto attività manuale in favore di una nuova identità per l’opera. Essa può essere qualsiasi cosa, un oggetto di uso quotidiano, anche usato o danneggiato, in quanto ciò che rende un artista tale non è l’abilità di manipolare la materia, ma la sua capacità di creare nuovi significati. La grandezza di Marcel Duchamp sta nell’aver spostato la concezione di arte dal piano fisico a quello intellettuale: il genio artistico non è nella mano ma nell’ingegno.
La forza del legame tra questo nuovo concetto di arte e il dadadismo è dimostata dall’entusiasmo con cui fu accolta dagli artisti del movimento, quali Man Ray e Francis Picabia, che ne diedero un’interpretazione più personale fondendolo con la pittura.
Il ready-made diviene il metodo di sconvolgimento e derisione dell’arte tradizionale preferito dai dadaisti, in particolare dopo la polemica suscitata dalla più celebre delle opere “già pronte” di Duchamp, una Fontana (1917) realizzata con un orinatoio. Fontana è stata definita l’opera più influente del XX secolo, prima opera d’arte concettuale con la quale il suo autore sancì una nuova epoca, fatta di oggetti comuni che abbandonano il loro uso pratico per acquisire nuovi significati e divenire opere d’arte.
Silvia Puelli, Duchamp e il ready-made: un nuovo inizio per l’arte, Travel on art, 29 ottobre 2017

Marcel Duchamp, la Tonsure. Fonte: Centre Pompidou

La svolta comportamentale nell’interpretazione dei critici sembra indicare un momento originario di tale ipotesi nella famosa Tonsure (1919-’21 ca.) di Marcel Duchamp, la foto in cui vediamo la nuca dell’artista rasata a forma di stella mentre nella parte superiore della testa la rasatura ne riproduce la coda. Alberto Boatto riconosce in Duchamp, citando la Tonsure, un punto se non d’avvio di passaggio del comportamento <209. Scrive invece Bonito Oliva: «Quando Duchamp si faceva fotografare da Man Ray, egli intendeva far passare sulla propria presenza concreta il valore del proprio fare. E nello stesso tempo ipotizzava un comportamento estetico, che significasse un aumento di soggettività» <210.
È interessante questo dato. Non vengono prese in considerazione le serate futuriste, né tanto meno il Cabaret Voltaire di Zurigo, come spesso è stato fatto per raccontare le diverse e varie vicende dell’effimero nell’arte del secondo Novecento, ma una fotografia.
Di quest’opera sappiamo pochissimo. Michele Dantini si chiede se sia opera o documento <211, come spesso accade con le fotografie o i film dei comportamentisti. Gli artisti italiani, infatti, fin da subito realizzano mediaperformance (infra C. 4) e, assieme, utilizzano i media per la documentazione delle azioni che spesso espongono – Boatto parla di archeologia dell’estetico, quella «moltitudine di fossili di azioni, quasi sempre fotografici» <212.
[NOTE]
209 È interessante trovare la Tonsure anche nel più volte citato Il corpo come linguaggio. La Body Art e storie simili di Lea Vergine e in copertina dell’agile e breve testo di Dante Filippucci Minuta di una nota improbabile sulla Body Art, Urbani Editore, Perugia 1976. Riguardo alla citazione di Boatto …un Hercule sans emploi… (sul comportamento), in A. Bonito Oliva (a cura di), Critica in Atto, Incontri Internazionali d’Arte, 6-30 marzo 1972, ed. Incontri, Roma 1973, pp. 16-28, ora in A. Boatto (a cura di), Ghenos Eros Thanatos e altri scritti sull’arte 1968-1985, a cura di S. Chiodi, L’Orma, Roma 2016, pp. 129-45.
210 A. Bonito Oliva, La felicità del circolo, cit., p. 84. Il critico tornerà sull’accostamento Duchamp-comportamento durante il ‘Seminario attivo sulle avanguardie artistiche’ dal titolo Il dadaismo come esperienza totale e il comportamento, ospitato dalla Galleria Schema di Firenze il 26 marzo 1973.
211 M. Dantini, Dadamago, dadastella, dadachimera, in Id., Macchina e stella. Tre studi su arte, storia dell’arte e clandestinità: Duchamp, Johns, Boetti, Johan & Levi, Monza (MB) 2014, p. 21.
212 A. Boatto, Dall’inerte al vivente, in «Marcatre UTT», a. VIII, nn. 61-62, 1970, p. 80.
Daniele Vergni, Pratiche dell’azione nell’arte italiana (1960-1982). Comportamento, Performance Art, Nuova Performance, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno Accademico 2022-2023

Date le somiglianze tra le immagini che si potrebbero ottenere con questo procedimento e i quadri effettivamente realizzati, come Galatea dalle sfere o le Madonne sopra citate, non è da escludere che l’artista [Salvador Dalì] abbia effettivamente messo in pratica la sua idea ed utilizzato la documentazione filmata o fotografica per risolvere brillantemente i problemi tecnici che la raffigurazione atomizzata comportava.
Questa concezione dell’assunzione della Vergine, rappresentata come una sorta di fenomeno naturale determinato da un’inderogabile meccanica fisica, ci suggerisce un accostamento con l’opera di Marcel Duchamp, e in particolare con il suo celeberrimo Grande Vetro, iniziato nel 1915 e lasciato incompiuto nel 1923. E’ noto che l’enigmatica opera dell’artista francese, capostipite delle ricerche dell’arte concettuale e legato a Dalì da un rapporto di amicizia, reca il sibillino sottotitolo “La mariée mise à nu par ces célibateurs, même”, cioè “la sposa messa a nudo dai suoi pretendenti, anzi”, dove l’”anzi” finale, oltre a presentarsi come una celebrazione del non-senso dadaista applicato alle infrazioni della sintassi linguistica, sembra attivare la seconda lettura omofona del titolo, come avviene nei romanzi di Raymond Roussel, scrittore particolarmente amato dall’artista francese <43. Ciò premesso, “la mariée mis à nu”, potrebbe diventare “la Marie est mise en nuée”, ovvero “la Maria è messa in nube”, cioè la Vergine è assunta in cielo, a testimonianza del fatto che la scena a cui stiamo assistendo, che nella sua veste formale si presenta come un meccanismo in cui dei pistoni cercano d’innalzare una specie di alambicco verso l’alto, dove è collocata una nuvola tripartita, potrebbe configurarsi appunto come una curiosa assunzione.
Quest’interpretazione dell’opera è comunque giustificata dal suo inserimento nella produzione complessiva di Duchamp, che annovera negli anni immediatamente precedenti dipinti e disegni in cui l’alambicco del Grande Vetro (probabile rilettura dell’atanor, del vaso alchemico) è presentato come la “vierge” che deve passare alla condizione di “mariée”, ovvero di sposa, per effetto di una congiunzione dell’elemento femminile con quello maschile, quindi, mediante la realizzazione della conciliatio oppositorum.
In generale, tutta l’opera di Duchamp è attraversata da questa presentazione bipolare di simboli maschili, di “pretendenti”, che anelano al congiungimento con la “sposa”, quindi con il principio femminile, in una raffigurazione che inscena in modo meccanomorfo e ironico la dialettica del desiderio, e l’inceppo consustanziale di quel meccanismo, che per sua natura è destinato a non risolversi mai, perché il desiderio – come abbiamo appreso in altro ambito da Lacan – a differenza del bisogno, non può raggiungere il proprio oggetto ed estinguersi nel godimento di quello.
Ci sembra quindi che Dalì non si discosti molto da questa concezione del fenomeno “ascensionale”, in cui il pieno si ribalta nel vuoto, il basso si capovolge nell’alto, la materia nell’antimateria, quando descrive l’assunzione della Madonna in termini puramente meccanicistici e pseudo-scientifici. «L’assunzione è il punto culminante della volontà di potenza femminile nietzschiana, la super-donna che sale al cielo con la forza virile dei suoi antiprotoni!» <44.
[NOTE]
43 L’interpretazione “alchemica” delle opere di Duchamp si riferisce in particolare a Arturo Schwarz, La sposa messa a nudo, anche, in Marcel Duchamp, Einaudi, Torino, 1974. Per la lettura omofona del titolo del Grande Vetro, con riferimento a Raymond Roussel, si veda invece: Maurizio Calvesi, Duchamp invisibile, 1975, Officina edizioni, Roma, 1975 e Duchamp, Art Dossier, Giunti, Firenze, 1993.
44 Ibid., pag. 47.
Francesco Nigro, La materia metamorfica. Percorsi nel Surrealismo di Salvador Dalì, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2010

Se le situazioni europea e italiana mostrano un esteso margine di ricerca e di innovazione nell’arte, sono ancora gli Stati Uniti a confermarsi come centro del sistema culturale e a presentare le ricerche più prolifiche, nonostante ci sia ancora molto scetticismo da parte della cultura europea, che definisce ancora queste esperienze americane come provinciali. Le ricerche statunitensi degli anni Sessanta si contrappongono all’Espressionismo Astratto, e hanno come punto di partenza comune l’arte di Marcel Duchamp, un europeo emigrato nella giovane America. L’arte di Duchamp è una vera e propria rivoluzione, sostituisce l’opera d’arte in quanto tale con l’idea di quell’opera. Nel 1913 l’artista francese realizza “Bicycle Wheel”, uno sgabello sormontato da una ruota di bicicletta tenuta con le forcelle del telaio, e inventa così il readymade. Con questo termine si intendono oggetti di uso quotidiano che vengono decontestualizzati ed elevati allo stato di arte attraverso la scelta dell’artista: è proprio questa decisione a fare di un oggetto un’opera d’arte. Questa nuova importanza data al concetto di “idea”, al pensiero, è una vera rivoluzione dell’arte e crea un invisibile spartiacque tra passato e futuro. È a questa linea di ricerca che si ispirano gli artisti americani degli anni Sessanta, in netta contrapposizione con l’emotività gestuale e pittorica tipica
dell’Espressionismo Astratto. Nel 1963 nascono le prime opere di Minimal Art; rilevante è soprattutto la scultura, portata a forme elementari e primigenie, dove l’opera viene realizzata non dalle mani dell’artista ma da un’officina che si basa su un progetto: è l’atto del progetto che sta dietro alla realizzazione ad essere elemento fondamentale dell’opera, entrando così in quel mondo del concetto che avrà ulteriore sviluppo con il Concettualismo.
Elisa Rugolo, Arte Contemporanea a Genova. La Collezione privata di Sergio Bertola, Tesi di laurea magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2015-2016

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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