Fabio Pusterla. Nato a Mendrisio, nel Canton Ticino, nel 1957, è di cittadinanza svizzera e italiano di lingua. Si è laureato all’Università di Pavia, sotto il magistero di Maria Corti. E’ traduttore, critico letterario e insegnante.
La poetica di Pusterla <32, caratterizzata sin dall’inizio da un forte influsso espressionista (come ha notato Pier Vincenzo Mengaldo) mitigato da venature più pacate di ascendenza lombarda (Giorgio Orelli e Vittorio Sereni), è andata sempre più avvicinandosi a una poesia dal forte contenuto civile, mentre l’esperienza di traduzione legata strettamente a Philippe Jaccottet lo ha portato a una sempre maggior attenzione agli oggetti del quotidiano, alle vite e cose dimenticate (cfr. Le cose senza storia), rafforzata probabilmente dalla provenienza geografica decentrata.
Nel 2007 gli è stato conferito il secondo più importante premio letterario svizzero, dopo il Gran Premio Schiller: il Prix Gottfried Keller. Nel 2009 ha vinto la sezione poesia del Premio Giuseppe Dessì.
La vena civile è più evidente dal volume Folla sommersa (Milano, Marco y Marcos, 2004), che raccoglie testi composti tra il 1999 e il 2003 ed usciti in plaquettes autonome, alcune delle quali dedicate a interlocutori come Maria Corti, Sergio Emery, Giorgio Snozzi. Il titolo complessivo fa riferimento ad un componimento omonimo che, citando in exergo Todorov, contrappone la cancellazione alla conservazione, dalla cui interazione si distilla la memoria. La folla sommersa indica la massa relegata nell’oblio, dopo quella misura (80 anni) che secondo gli storici circoscrive l’immaginario collettivo. A questo popolo sepolto – in antitesi al popolo futuro di De Signoribus – , che ci guarda in silenzio e ci attende, il poeta risponde con la testimonianza.
Non si tratta di un’opera memorialistica, per quanto l’autore risulti punto da un senso vivo di responsabilità, che si può in parte attribuire al fatto di essere figlio di un reduce dalla campagna in Russia. Al padre il poeta allude nel testo Folla sommersa e anche in Lettera da Nikolajevka, in cui ricorda il massacro degli alpini nel ’43. Nel secondo componimento, l’io scrivente confessa la colpa collettiva dell’ignoranza, rilanciando la speranza che la posterità possa riscattare la pesante eredità, capire ed essere diversa.
Se c’è stata una colpa, credo,
dico di noi fuscelli,
è stata l’ignoranza. Il non potere,
il non voler capire. Trascinati
da un vento troppo forte, e ogni domanda
era domanda d’ansia: ci bastava
un urlo di risposta, un po’ di caldo.
Non solo allora, sempre, chi ne è uscito:
l’abitudine
a chinare la testa, o a rialzarla
solo in un moto d’ira rovinoso. Ma voi, adesso,
siete molto diversi? Te lo chiedo
davvero, te lo chiedo
sapendo già che non potrai rispondere,
che non vorrai rispondere temendo
di sbagliare, o di ferirmi
ancora. Ma è questa
l’unica nostra speranza, brucia e insiste
qui, sotto neve e fango, solo brace.
Altri capirono, forse, non noi: colpa e condanna,
ecco l’eredità. Questa manciata
di terra magra e povera, un passato
di fumo. Raccoglietelo nel palmo di una mano,
fate fiorire qualcosa di non guasto,
se può crescere ancora. Diffidate
d’ogni risposta. Con fiducia e sospetto
riscattateci. Capite anche per noi, se lo potete.
A parte l’attacco tra perplessità e correzioni – credo; dico di – , non c’è effettiva mimesi di un linguaggio povero come l’ignoranza sembra suggerire. Le frequenti ripetizioni hanno un impianto celebrale, giocate su antitesi, rettifiche, specificazioni concettualmente analitiche (Il non potere, / il non volere; ogni domanda / era domanda d’ansia; te lo chiedo / davvero, te lo chiedo / sapendo già che non potrai rispondere, ripreso subito in che non vorrai rispondere) e su effetti ritmici (Se c’è stata […] è stata). Anche le frasi nominali così insistite riducono lo spontaneismo e la povertà linguistica a cui potrebbero alludere; conservano, in minor misura, un potenziale di reticenza e incapacità espressiva. Il nominalismo è di fatto uno stilema dell’autore, a cui egli ricorre con tatto impressionistico ed evocativo, alleggerendo il tessuto verbale.
Popolare è piuttosto l’analogia contadina coi fuscelli, per quanto letteraria nella scelta lessicale; il plurale collettivo – l’io parla sempre di un noi – ; l’emotività istintiva (trascinati, moto d’ira rovinoso). La semplicità interiore (ci bastava) rinvia alla citazione in exergo di Nuto Revelli: Sento urlare in tutti i dialetti, è un urlo solo; e riprende l’epica alpina dell’unità fraterna. Anche la struttura rivela il concepimento intellettualistico. La prima avversativa al v. 11 divide il componimento in due parti, in cui si contrappongono il noi al voi, l’allora all’adesso. Il reduce di guerra nell’avvio dichiara il limite comune dell’ignoranza, che è tanto una mancanza originaria (non potere) quanto intenzionale (non volere) e quindi dolosa. Tanto più se si esprime in atteggiamenti di rassegnato appagamento (ci bastava) e di abitudine quiescente, la colpa è condanna, in endiadi allitterante.
La seconda parte è avviata da una domanda apparentemente retorica, in cui il padre, rivolgendosi con tu al figlio, lo investe della responsabilità di una generazione (voi). Tra l’uno e l’altro, non si trasmette solo l’eredità della colpa ma anche il cortocircuito tra impotenza e incapacità da una parte e assenza di volontà e determinazione dall’altra (non potere / non volere). Allo scrivente l’autore affida il compito di interpretare i propri sentimenti: il timore di sbagliare, aumentando la colpa, e soprattutto di ferire ancora il padre, a conferma del senso di responsabilità per il genitore che aleggia sulla raccolta e sulle intenzioni etiche espresse.
Essere diversi, non ripetere la colpa dei padri, capire è la speranza della folla sommersa, una brace che cova ossimoricamente sotto sotto la neve ed il fango e che brilla nella poesia. Interessante la matericità in cui trovano correlativo oggettivo le dimensioni del tempo: il fumo in cui si smaterializza il passato, la terra magra e povera del presente. Su questo sterile panorama, la fioritura ricorda alla lontana La ginestra e ne uguaglia il titanismo (non è un caso che il testo incipitario dell’intera raccolta s’intitoli Rosa dei ghiacci). La chiusa motiva anche la domanda precedente, il cui carattere interrogativo si accorda all’esortazione a diffidare / d’ogni risposta, d’ogni certezza. Ma lo scrivente non scivola nel nichilismo: con fiducia e sospetto è clausola che esula da preclusioni aprioristiche e sterili e affianca la cautela a sostegno dell’entusiasmo.
La conclusione invita ad una fecondità vitalistica, costruttiva e sobria, che si riverbera in tutta la raccolta. Il dovere di capire qui suggerito è perseguito entrando nello specifico di alcune circostanze attuali (dunque allontanandosi da tentazioni memorialistiche), affiancando all’analisi anche il capire come occorra reagire. La poesia diviene pertanto uno strumento di condivisione di tale ricerca etica non meramente personale.
Il volume si articola in 5 sezioni maggiori, più alcune corrispondenti a componimenti singoli. Le prime tre hanno un’unitarietà distinta, una compattezza formale più rifinita, un’intensità eloquente più cosciente; la seconda metà si nutre invece di occasioni più soggettive ed estemporanee. I titoli sono già in sé eloquenti. Terra di nessuno contiene componimenti dedicati a Gondo, paese al confine italo-svizzero cancellato da una tragica alluvione nel 2000. L’esperienza della fragilità umana, facilmente scalzabile da una marea di fango e reificabile al destino di cose / tra cose, assolutizza la circostanza ad emblema di una zona franca, sia storica (a cui rinvia l’immagine cavalli / di frisia) che esistenziale, dove per tempeste e piovaschi / si va come superstiti o fuggiaschi.
In Ipotesi sui castori e Sul fondo della provetta componimenti civili si mescolano ad altre allegorie animali. I tempi – tra il 1999 e il 2003, si diceva – si definiscono precisi, specie seguendo le note dell’autore. L’arco temporale è dominato dal motivo ricorrente delle macerie. Si ricorda che le stagioni recano il sottotitolo di Enduring freedom e in Due aironi si comparano il volo pacifico dell’animale, orientato da un dove e un perché, a quelli temibili che recano petrolifere / giustizie micidiali. Le prime fragole narra una scena di vita domestica in cui l’allegria fanciullesca del figlio stride con la notizie terribili dalla radio che dice della bambina schiacciata in un panzer a Gaza. Il genitore comunica la scissione tra la propria presenza affettiva, protettiva, e la consapevolezza civica ed empatica dell’orrore.
La famiglia Pusterla ha scelto di rinunciare alle immagini televisive per sottrarsi alla spettacolarizzazione della guerra e alla carnevalizzazione del potere (Non vedremo le facce gravi dei potenti / le smorfie eroiche degli inviati speciali / le scene raccapriccianti di macelli e di fuoco) a tutto vantaggio di un immaginare / quel che si più immaginare, ovvero troppo poco ma più chiaro, più tremendo, meno condizionato. Lo stesso raccontare solleva il sospetto di essere una forma compensatoria per sentirvi più in pace: orrore, catastrofe, rovina, disastro sono sinonimi di un’indicibilità rispettata soltanto dal silenzio.
L’autore espone la propria posizione politica rispetto alla cornice sia elvetica che italiana, senza una precisa cittadinanza identitaria. La diffusione di atteggiamenti destrorsi è sottolineata e biasimata spesso. In Domenica intelvese sono riprodotte le interiezioni, pure volgari, di un pizzaiolo locale contro gli immigrati, sullo sfondo dello spopolamento delle montagne. Ne La cornacchia del nuovo anno si parla di una rabbia gelida che ha invaso la Svizzera: un paese / per molti versi splendido, e di vasta ricchezza; l’autore dettaglia poi gli elementi di questa bellezza accostando con disinvoltura ironica i parchi curati alla borghesia matura / e seria, che si dimostra tale perché annulla o ingloba l’opposizione (non c’è più neanche bisogno / di comunisti da odiare). L’ombra del ventennio si allunga sul presente tanto più quando un giorno / ne sale un altro e grida / un gioco, / uno scherzetto innocuo, ridicolizzando e sminuendo il passato di sangue, fosse, forche. La presenza di immigrati in porti in cui scendono clandestini fissati nella smorfia d’asfissia; disadattati in contesti in cui aumentano le violenze famigliari.
In Testimonianza è interessante il processo di spostamento del punto di vista dal distacco parzialmente oggettivo dei media a quello soggettivo con mimesi del parlato: «Che cosa ho io fatto / che cosa ho io fatto di mia vita? / Non è uomo, quello, un animalo» <33.
Gli episodi di cronaca sembrano rafforzare la percezione della frana storica. Ma tutti i componimenti brillano di chiaroscuri: accanto alla percezione disincantata del reale, si riafferma di volta in volta la determinazione resistenziale. Perciò, al leitmotiv delle macerie fa da pendant l’evidenza di ciò che resta. Si veda uno dei primi testi, Nella vigna di Renzo, che cita la situazione conclusiva del romanzo manzoniano, rovesciando, con una sintesi sulla scorta di Raimondi, le parole fiduciose di Lucia: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto» si ribalta in il rovo era per tutto.
Eppure si doveva camminare,
voltare la faccia, scordare i divelti filari.
Pensare altra la meta, e più importante:
sebbene, nonostante.
Le avversative subiscono addirittura una sostantivizzazione: non hanno un ruolo meramente connettivo, bensì costituiscono il nucleo del discorso. Le svolte, i superamenti degli scacchi, un pensiero creativo di alternative e futuri sono presentati come un dovere.
Altrove <34 la domanda A che scopo? non trova risposta logica ma un’indicazione comportamentale, plasmata su esempi materiali:
Come le fragili piramidi di sasso
erette da qualcuno sulle montagne, dove i sentieri
sbucano finalmente a un pianoro,
a un passo, a una piccola cima. A che scopo?
Non chiederlo; sasso dopo sasso
costruisci anche tu quel che non serve
a nulla e a nessuno, ma è.
[…]
C’è una costruttività che non si giustifica con un immediato utilitarismo ma si pone dalla parte dell’essere, dell’insistere e non desistere anche in una lotta assurda, in una sfida / ormai priva di senso. La natura in questo senso è maestra, soprattutto il mondo vegetale: la pianta pilota che resiste al diserbo, le piccole spighe, le spore inermi che germogliano nel silenzio, ai margini, nella ripetizione delle stagioni e come brevi sorrisi hanno capacità di presa su scarpate e voragini.
Di stampo leggermente diverso è il bestiario: mosche, cinghiali, bovini, salamandre, aspidi… persino drosofile mutanti da laboratorio che guardano alle originali con invidia per la libertà. Gli animali sono sono miti, timidi, appartengono ad una natura esterefatta, a cui l’autore tende ad aderire con tentazioni paniche e sensibilità impressionistica. Restano comunque oggetto di osservazione, non tanto di immedesimazione come avverrà successivamente. Qui il pensiero animale risulta ancora incomprensibile, indicibile, per quanto in alcuni tratti rassomigli quello di un uomo / che guarda in faccia la sua piena solitudine.
Dal punto di vista formale, la raccolta assorbe i colpi della storia con modalità espressionistiche. Aculei e spine / che ferivano gli occhi consolidano la percezione soggettiva del male, che tuttavia è stemperata da alcune scelte lessicali marcatamente letterarie: afrore, livore, divelti filari, umettarsi, angariare, smorire. Colloquialismi più prosaici non mancano, ma tendono ad essere ricondotti ad una griglia di referenti letterari. Come l’inserto dialettale renovada in di to vacch!, citazione di Delio Tessa da Poesia della Olga. Sensibile la presenza di termini scientifici: geodi, mesozoici, algometrie. Di espressionismo si può parlare in particolare rilevando l’insistenza sullo stile nominale, che traduce un’afasia disarmata, al tempo stesso oggettivandone i fattori:
Dietro, altri quattro, attorcigliati. Impianto
difettoso, fuga di gas, clandestini.
Forze di polizia. <35
Alcune clausole nominali ricorrono come un vero e proprio stilema: come un silenzio improvviso e poi l’urlo, / uno sfacelo; Saracinesca, e cade su qualcosa / cenere fredda <36. In questi casi, l’autore rende una situazione iniziale nominando un elemento dell’ambiente e la congiunzione ne sancisce il cambiamento repentino, talmente brusco da elidere di frequente i verbi. Altra valutazione si potrebbe fare per l’esempio seguente: Lago del Dosso, e nell’ambra dei Prati / l’airone osserva. Il ritmo più disteso, l’euritmia fonetica, la chiarezza d’immagini induce a parlare più di impressionismo. Che è l’altra marca stilistica che si intreccia ed alterna, specie nei componimenti più naturalistici. Il nominalismo qui agisce per tocchi macchiaioli, tratteggia presenze vaghe, dallo spessore non statuario perché tutto da carpire in quel processo di comprensione a cui invita la poesia stessa. Di leggiadria è anche portatore uno dei Due aironi, che subisce una metamorfosi iconica in goccia, macchia, alone, con un processo di sublimazione. E in assenza di verbi, talvolta si aprono inarcature vocative alla maniera di Zanzotto <37. Il rischio di tale tecnica è la caduta nell’elencazione prolungata. Più che metafore, ricorrono analogie sintetiche, correlativi oggettivi (splendido: Sulle spalle / un fascio di improbabili speranze), metonimie (nell’ambra dei prati), sinestesie (acqua sbadata) che alleggeriscono il tessuto verbale e fecondano l’immaginario di metamorfismi. Il ritmo segue questo snodarsi tra figure e allegoriche allusioni, in un continuum piano e amalgamato da enjambement primari: tra aggettivo e sostantivo (feroce / forza, timidi / belati, viandanti / perduti) o tra soggetto e verbo (sono passati / stivali e carri). Non c’è una strutturazione metrica marcata. I casi più evidenti sono indicati nel titolo, ovvero Sesta rima dello schiavo prigione in cui l’autore riproduce una tradizionale sestina a retrogradatio cruciata ma a verso libero. Le parole rima sono fratelli (con un che di ungarettiano), uguaglianza, cella, ordinanza, bandiere, nere. Già dalla lista si può intuire che la composizione risulta un po’ ingessata, nonostante alcuni guizzi felici, come l’antitesi cravatte colorate e sorti nere; oppure l’accostamento omologante fosse comuni, bordelli, tane nere.
Interessanti anche le Terzine a un liceale annoiato, in cui il professore cerca di convertire lo studente all’interesse letterario proprio attraverso forme tradizionali, alludendo – con modalità un po’ partenalistiche – alla fortuna di stare nel versante favorito delle disuguaglianze sociali.
Tra il 2004 e il 2010 ci sono numerose riedizioni che attestano la fortuna dell’autore e una raccolta di poesie scelte uscita nella collana bianca dell’Einaudi. Il titolo più originale è Corpo stellare (Marcos y Marcos, Milano, 2010), un’ampia raccolta che sostiene ed afferma l’etica della lirica. Si apre all’insegna di citazioni (alla giapponese Yosano Akiko) ed omaggi (al patriarcato poetico Jaccottet, Celan, Mandel’stam) ma se di intertestualità si è alla ricerca, non emergeranno evidenti calchi, bensì una convergenza di prospettive. Così si allineano stature morali affini, disegnando un orizzonte di stlanik (pini siberiani): Il pino prostrato si rialza, / segna nel gelo la via del primo fiore. / Annuncia frutti, torrenti. Non si tratta di un emblema soltanto della poesia ma di una condotta esistenziale di cui essa si fa testimone; e lo integra un’altra figura complementare, l’armadillo, animale scavatore che procede controcorrente. Come ha dichiarato l’autore in intervista <38, «il fatto di andare controcorrente e allo stesso tempo essere inermi è qualcosa di diverso dalla vecchia idea della ribellione armata».
La prospettiva storica da cui muove Pusterla è pessimista, disincantata e delusa, eppure in questo scacco si rinvigorisce la forza del poeta di preparare epoche in cui la speranza / non è del tutto impossibile. Eppure i miei passi vaghi / vanno da qualche parte, queste tane che scavo / serviranno anche ad altri, con un po’ di fortuna. L’autore ci infila dunque nei suoi testi come in cunicoli scavati tra le radici della realtà quotidiana, sia urbana che naturale.
Il punto di vista più frequentemente adottato è quello degli animali, esseri colti icasticamente ed allegorici della situazione umana: i cani così tristemente simili a noi nella loro afflizione; il toro che accetta la fine, scompare; e poi maiali, scoiattoli, volpi e via dicendo. Nel corso della raccolta, lo spostamento dall’antropocentrismo diventa più familiare e si converte in capacità di immedesimazione per il lettore stesso. Gli animali ci guardano ed è dalla loro altezza che i testi ci riflettono, riflettono il nostro consorzio, in un’operazione ben diversa dalla ricostruzione di un bestiario animalista <39. Rappresentano essenzialmente il punto di osservazione dei soggiogati, dei vinti e, più latamente, di una moltitudine impotente e succube. Incisiva è l’immagine dei maiali deportati al macello <40, che rimanda alle deportazioni naziste e alle carovane di immigrati nel deserto: cantiamo / la nostra bellezza negata / nella gloria del male che ci è dato / nel silenzio del colpo che ci è inferto.
La potenza di queste parole deriva dai contrasti messi in scena con tocchi rapidi e sintetici: la vitalità e la morte, la bellezza e la sua vanificazione, la beozia del male, il rumore del colpo e il silenzio omertoso steso subito dopo. Essere vittime senza vittimismo, con rassegnazione pacata e consapevolezza dell’ingiustizia: questo ci insegna la compostezza degli animali. Per “vinti” dunque non si intenda soltanto gli sconfitti e i caduti della Storia ma anche i molti di cui non rimane memoria né nome, la moltitudine anonima e prigioniera delle dinamiche sociali e di potere. La prospettiva emerge evidente nella carrellata che riproduce il Museo di Storia Naturale di Parigi: una galleria in cui si cristallizza, imbalsamata, la sopraffazione dell’uomo – sovrano feroce – e in generale la legge del più forte che tutto domina, con sovrana noncuranza. Il trattamento esula dai toni macabri perché sfrutta l’occasione di allargare la riflessione alle responsabilità dei vivi e dei sopravvissuti, sia rispetto alle uccisioni (il boia ignora che le vittime sono vive) che al silenzio che le hanno seguite: la colpa / ha cancellato se stessa cancellando / l’oggetto della propria violenza. Contro questo muro, si innalza la poesia a portavoce. Una visione dunque pessimistica della Storia, intesa come (in)civile svolgimento delle vicende umane. Scendendo nella vallata descrive un paesaggio diroccato, in cui macchie di casa annunciano la fatica dell’attraversamento, il passaggio / da libertà a comune giustizia, sempre ardua, / luce sporca condivisa. Persino i cani rimpiangono la libertà / rinunciata per una rischiosa alleanza con il genere umano. Perché di esso la Storia assorbe e restituisce l’altalena di umori, la compresenza di istinto e ragione.
Sembra dunque non ci sia molta simpatia nei confronti del consorzio civile. Lui è lui, io forse io, nessuno è noi è un verso sintetico che rievoca lo sguardo di Baudelaire su un passante e in parte «l’inferno sono gli altri» di Sartre. In ultima analisi l’atomismo solitario sembra restare un dato ambientale:
Sul tram: deserti quartieri, freddi di città,
solitudini che in un punto si sfiorano brevi
un sussulto un istante una spalla, questione di un attimo –
e dopo le scuse di rito un sorriso
poi il nulla.
Si noti la tendenza nominalistica che oggettiva gli elementi descrittivi e nel ritmo della scansione crea narrazione. La scrittura di Pusterla, in questa particolare raccolta più di altre, si alimenta di giustapposizioni d’immagini e concetti, come se dall’incastro delle tessere del mosaico cosmico potesse delinearsi il quadro del reale più obiettivamente, senza interventi autoriali. L’impegno civile di questa raccolta è più esplicito di altre, con riferimenti raramente così esposti se non nel volume d’esordio Concessione all’inverno (1985). Non si tratta semplicemente di rivendicare il diritto di parola a chi è stato sopraffatto o di spezzare l’omertà della voce che tace lo sguardo / che sa ma non dice. Con toni pasoliniani, Pusterla dichiara:
è un dovere
guardare in faccia il potere,
dire: so,
credo a quello che vedo,
vedo perché non credo,
faccio un passo di danza,
getto la mascherina,
dico no.
Ma a differenza di Pasolini c’è un’inclinazione ad un dettato più aggraziato, che fa proprio della precisione, dell’eleganza, della compostezza la misura della propria resistenza. La denuncia entra nel concreto quando affiora la nostalgia di Marmorea, un piccolo villaggio svizzero sommerso a metà del secolo scorso, nella costruzione dell’omonimo bacino artificiale, un lago non voluto. Gli abitanti furono convinti ad abbandonare case e terreni in cambio di un risarcimento finanziario; le tombe furono traslate e il campanile della chiesetta abbattuto perché non spuntasse dalla superficie dell’acqua, come una corruzione o una vergogna. Una verità / sepolta da metri cubi d’acqua e di furto in ossequio al potere che comanda, famelico, da sempre; e noi come sempre ubbidiamo. Gli sfollamenti massicci per la diga delle Tre Gole sul fiume Chang Jang non sono così lontani, risalgono al 2006.
Dallo stesso anno provengono le Cartoline d’Italia e specificatamente dall’Aprile 2006, ovvero in occasione delle elezioni che videro la sconfitta del governo Berlusconi grazie a poche migliaia di voti provenienti dagli italiani all’estero: arriva dall’estero, / sui giorni italiani umiliati, / un po’ di civile decenza, la nemesi degli emigrati. La posizione politica si esplicita ulteriormente nella dedica di un testo agli Amici di maggioranza, che – con intenzioni ottime sempre ottime ragioni – propongono modelli positivi, guarigioni, risolte tuttavia in velate minacce: alzare qualche sipario di fitta paura, / qualche implicito giudizio, consigli democratici affettuosi. Non c’è un giudizio acrimonioso come in altre scritture, semmai un tono sornione che non risparmia la critica; le buone intenzioni non sono accolte come pezza giustificativa ma ridimensionano la portata delle scelte e le riconducono a meccanismi di autoconservazione istintiva. La chiusa rende più icastico e incisivo la logica che li muove, con un’associazione puramente nominalistica di idee: Maggioranza, biologie, luci artificiali soffuse; la biologia mantiene ed è mantenuta in ambienti ovattati.
Il tema delle discrasie sociali è accennato con tocchi definiti. La poesia per un operaio precipitato porta in scena un’ombra cinese svanita in una città bomboniera. Le stazioni (Milano centrale o Gare Cornavin), in un concerto / variopinto di labtop cellulari amazzonici pagers, / pellicce di finto lupo e montoni da indossare, parka, accolgono vite in transito, tra cui quelle di mendicanti e migranti. La presenza degli stranieri aleggia ancor oggi aliena, persino nella patria della neutralità e dei rifugiati. L’assimilazione del razzismo si palesa in una battuta secca dei compagni di gioco del figlioletto:
Ma sei straniero, dicono, non sai
neanche come si gioca? E il loro dubbio
tecnico, non linguistico,
pare a me atroce.
Atroce forse quanto il titolo del videogame, Pandora, che ribalta e cancella la memoria mitologica.
Più in generale, Pusterla scrive al termine di un secolo atroce, sull’orlo di un’Europa che cade.
In una realtà in cui pareva ci fosse posto per tutti e che invece miete vittime sacrificali di un prezzo /
che nessuno dichiara e tutti pagano, non viene meno l’attestazione di fiducia che il fango / premia
ancora il destino sublime dei caduti / per il bene comune, per quanto questi poi possano tramutarsi
in caramelle d’ossa di poco valore.
La responsabilità paterna in alcuni tratti sembra accentua quella civile. E’ il caso delle Lettere da Babel, che prendono spunto da un sogno orribile del figlio:
[…] In TV
ci vedevi morire sepolti tra macerie,
ed era lunga la scena, interminabile,
ripetuta più volte: il grande crollo della torre di
Babele, e noi là sotto, bianca polvere mediatica.
Il passo esemplifica come ansie sociali consolidate trovino al tempo stesso una fonte di alimentazione e un mezzo di espressione attraverso i media. La televisione entra nell’inconscio collettivo, in particolare infantile; condiziona le forme dell’immaginazione (una scena interminabile, ripetuta), contamina la memoria visiva (il grande crollo della torre e la bianca polvere sono l’icona più divulgata delle Twin Towers).
Il testo prosegue poi riprendendo il motivo delle macerie e cercando forme di consolidamento:
siamo qui davvero, io e tua madre,
e ci teniamo per mano in mezzo a tutte
queste macerie
di una cosa che non è crollata ancora, ma vacilla
e forse un giorno crollerà.
Chiamala Europa, o mondo,
o solo un altro sogno; e forse è l’ombra
di un secolo e di un vuoto
che abbiamo visto e sperato di cancellare con la gioia.
La sconfitta della speranza collettiva è un punto di partenza, non di arrivo: innesca il dovere di memoria e di speranza e il diritto-dovere alla felicità sempre negata, sempre / da costruire. La composizione dei testi è compresa tra il 2003 e il 2009. Alcuni portano tracce esplicite delle macerie jugoslave e la memoria della vergogna da non ripetere. Altri semplicemente la traccia dei tempi.
Come lo scatto che fotografa un’autostrada intasata, trasformata in un’ improvvisata piazza:
Eccoci qua, prigione di noi stessi,
privi di scelta, stretta fra attesa e sospetto,
chiusi al viaggio e sordi alla vergogna.
Di questo sadismo si fa beffa un pendolino per Bologna e l'(auto)ironia stempera il senso di impotenza del destino umano. L’aspetto più sorprendente dell’autore è difatti la capacità di rilanciare uno sguardo ottimistico al percorso umano, con un richiamo etico stemperato nel rigore da un tono comprensivo e generoso:
qualcosa spinge avanti, che promette:
un respiro profondo vi chiama, e chiede impegno, coraggio,
chiede amore e pazienza.
C’è la fiducia in una vita più grande di noi / che ci ospita mite. Si inseriscono perciò con
disinvoltura alcune liriche contemplative che attestato l’ansia di sapere // quello che accade là sotto
la smorfia del fiore.
La raccolta, come già detto, vive di lampi epigrammatici, di apposizioni epifaniche. Tranne per alcuni brani, la discorsività del tessuto verbale sancisce definitivamente il ritiro dalla più interessante ricerca espressionista che aveva caratterizzato il primo Pusterla; un modo che ancora riesce quando lo spostamento del punto di vista è radicale, come nel caso degli animali <41. Ne trae vantaggio una maggior ironia, anche linguistica, e bonarietà, che tuttavia non concede sconti. La qualità poetica si misura prevalentemente nella purezza dell’osservazione e nella precisione rapida della descrizione. Non c’è molta elaborazione stilistica, anzi, si direbbe che i tentavi in questo senso marchino cadute di stile: si vedano i frequenti, troppo facili ossimori (es. radice sradicata) o qualche accento elegiaco (sbucciavano povere arance).
[NOTE]
32 Ha pubblicato: Concessione all’inverno, Bellinzona, Casagrande, 1985 (Premio Montale e Premio Schiller). Bocksten, Milano, Marcos y Marcos, 1989. Le cose senza storia, Milano, Marcos y Marcos, 1994. Danza macabra, Fallopio, Lietocollelibri, 1995. Isla persa, Locarno, Edizioni Il Salice, 1997. Pietra sangue, Milano, Marcos y Marcos, 1999. Folla sommersa, Milano, Marco y Marcos, 2004. Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008, Torino, Einaudi, 2009. Corpo stellare, Milano, Marcos y Marcos, 2010.
33 cfr. Annovi infra.
34 Come le fragili piramidi di sasso, p. 31.
35 F. PUSTERLA, Folla sommersa, op. cit., p. 67.
36 Ivi, p. 40.
37 cfr. Terra di nessuno, p. 22.
38 L. CANNILLO, G. FANTATO, La biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani, Città di Castello, Ed. Joker, 2006.
39 cfr. Giorgio Orelli, dedicatario di Lettura a Basilea in Folla sommersa.
40 cfr. IVANO FERRARI, Macello, Torino, Einaudi, 2004.
41 cfr.: nel balletto a mezz’aria di uncini / brani e cartilagini / ganci // dove i colori esplodono e le arterie / tranciate si disseccano / vuote // nel grido del corpo lacerato / nel silenzio della carne e della merce / nella luce di una lama / quanto di noi / e poi quanto si è impigliato.
Silvia De March, La passione della realtà, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012