Elena rappresentava il tempo della poesia

Vi sono piccole storie di grande poesia che il tempo ha nascosto e che casualmente riemergono dal silenzio. Sugli scaffali della Biblioteca Angelo Monteverdi per gli studi filologici, linguistici e letterari della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma non è difficile rinvenire alcuni ex libris provenienti dalla collezione del professore Mario Costanzo, docente presso la Facoltà dal 1967 di Storia della critica letteraria, scomparso nel 1993. Uno in particolare riveste un interessante aspetto storico-letterario legato a Camillo Sbarbaro, poeta ligure della prima metà del ’900, di cui nel 2017 è ricorso il cinquantenario della morte: si tratta della piccola, rara pubblicazione “Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante da sue lettere”, a cura di Camillo Sbarbaro, Verona, Stamperia Valdonega, 1963, con dedica autografa a matita di Sbarbaro a Mario Costanzo.
Sin dagli anni cinquanta Costanzo si occupò di poesia del primo ’900 e nel 1955 diede alle stampe, Giovanni Bardi Editore, un prezioso volumetto intitolato “Studi critici” (Rebora, Boine, Sbarbaro, Campana) ripubblicato nel 1969 per le Edizioni di Storia e Filosofia, Roma, con un nuovo titolo (Critica e poetica del primo novecento, n.d.r.) ma senza modifiche sostanziali o aggiornamenti nel testo e nelle note (Avvertenza dell’autore alla seconda edizione).
Sempre nel 1955 curò, nella Galleria degli scrittori italiani della Fiera Letteraria n. 46, anno X, 19 novembre 1955, «un numero di omaggio per Camillo Sbarbaro», come lo stesso Costanzo scrisse alla poetessa Giovanna Bemporad, amica di Sbarbaro, il 31 marzo 1955. Il nome della Bemporad fu dato al curatore proprio da Sbarbaro, il quale, tuttavia, non dimostrò molto entusiasmo per l’iniziativa, che considerò «onoranze pre-funebri» (nella lettera alla Bemporad del 12 aprile 1955) <1.
Costanzo, nel suddetto volume “Critica e poetica del primo novecento”, dedicò a Sbarbaro il terzo capitolo: “Solo la poesia potrà dare a Sbarbaro il modo di lasciare un segno di sé…per entrare a un tratto, con improvviso stupore e sgomento metafisico, nel vivo della realtà” <2.
Nel numero de “La Fiera Letteraria” dedicato al poeta ligure, Costanzo raccolse gli interventi critici di diversi studiosi e letterati e chiese anche a Giovanna Bemporad una sua testimonianza: “in collaborazione con l’amico dr. Cibotto redattore della ‘Fiera Letteraria’, sto preparando per questo settimanale un numero di omaggio per Camillo Sbarbaro. Sarà, io spero, un utile contributo alla discussione critica sulla sua opera e un qualche riconoscimento a uno scrittore così schivo. Io ho già una certa esperienza come “curatore” di numeri unici della “Fiera”: e vedrò di metterla a frutto. Ora, vorrebbe Lei scrivere qualche cosa per l’occasione? Un articolo o, come si dice, una “testimonianza”: della misura che crederà e per…diciamo: settembre (voglio fare tutto con la dovuta calma). Che cosa ne dice? Io penso che il sig. Sbarbaro avrebbe assai caro un Suo intervento. Voglia farmi sapere qualcosa; e gradisca intanto i migliori saluti ed auguri di buon lavoro – suo Mario Costanzo” <3.
Giovanna Bemporad non partecipò al numero unico su Camillo Sbarbaro, che, tuttavia, vide gli interventi di Giorgio Barberi Squarotti, Angelo Barile, Luigi Capelli, Lino Curci, Giuseppe De Robertis, Enrico Falqui, Alberto Frattini, Giovanni Giudici, Adriano Grande, Giacomo F. Natta, Sergio Solmi, Giuseppe Tedeschi.
La dedica a matita di Sbarbaro a Costanzo sulla copia dell’Autoritratto donatagli recitava: «a Mario Costanzo, per bene chiudere – C. Sbarbaro – II, ’64»: evidentemente il poeta considerava la pubblicazione di questa raccolta dei brani di lettere di Elena De Bosis un ultimo importante tassello della propria opera. Egli desiderava lasciare un’ulteriore testimonianza dell’amica scrittrice e pittrice, scomparsa nel 1963, che era l’immagine stessa della donna ideale, in cui ci si riconosce, e che ci aspetta, oltre le cose, gli avvenimenti, le passioni <4.
Nessuna introduzione alla raccolta da parte di Sbarbaro, solo una frase: «perché chi la conobbe la senta ancora parlare». Elena rappresentava un tempo lontano e irripetibile di vita agreste e letteraria, il tempo della poesia”.
I primi frammenti pubblicati da Sbarbaro sono tratti dalle lettere inviate da Villa Solaia, nella campagna senese, di proprietà della famiglia Vivante De Bosis: Elena, moglie di Leone Vivante, filosofo e scrittore, conobbe Sbarbaro attraverso il marito, divenuti amici in tempo di guerra. Figlia del letterato e poeta Adolfo De Bosis, aveva creato a Solaia uno stile di vita semplice e colto: la villa era frequentata da pittori e poeti, in particolare da de Pisis, Martinelli e, dagli anni ’30, da Sbarbaro, che divenne il suo interlocutore abituale e più caro, una sorta di confessore laico in cui ci si abbandona, certi di non venire giudicati, liberi come quando si è soli con se stessi, nella verità nuda da convenzioni e obblighi sociali, l’amico accanto a cui si può anche tacere, e il silenzio è sempre vivo di pensieri condivisi <5.
Le lettere non sono quasi mai datate, ma la pubblicazione dei frammenti ripercorre fedelmente l’intera esistenza di Elena, trascorsa a lungo nella villa, ma spesso interrotta dai viaggi a Viareggio, Firenze, Roma e al mare del Conero. La descrizione poetica che, attraverso le lettere, Elena De Bosis fece della vita quotidiana a Solaia è un ulteriore affresco della sua vena pittorica: “Che giornata! Non c’era stecco che non paresse un gioiello, e oggi, tutto il mondo una festa – e che crepuscolo e che notte di diamante, ora! Sono stata sempre fuori, la mattina sopra un greppo della via maestra, a dipingere. Vedevo meraviglie e se pure non ne saprò uscire, quelle le ho viste!” <6.
[…] Per qualche tempo, tutto sembrò essere tornato come prima dell’esilio inglese: nelle lettere, la minuta descrizione del susseguirsi delle stagioni: “E adesso che notte profumata! ne avevo perso il ricordo – il giardino con la luna, le stelle, le lucciole, la casa silenziosa e tutte le belle voci dell’estate… ” <12, ma il progressivo distacco dai figli, in particolare dall’ultimogenita Charis, giovane pittrice sempre in giro per il mondo, la compagnia sempre meno partecipe del marito Leone e la consapevolezza che l’entusiasmo degli anni giovanili era ormai scemato, resero i giorni a Solaia più malinconici: “Mi sento addosso una tremenda provvisorietà – mi sembrano belle tutte le cose, ormai troppo tardi per me” <13, anche se la natura che la circondava le forniva sempre lo spunto per l’ispirazione poetica: “Che sere incantate coi prati falciati qui di fronte. Ci risono le rane e la notte si leva il canto dell’usignolo, altissimo nell’altissimo silenzio… Sono contenta e penso spesso come bello sarebbe scender giù all’alba… Ma sono anche stanca: stanca e vecchia (perdono, allora…)” <14.
Elena si ammalò gravemente e negli ultimi mesi della sua esistenza fu costretta a recarsi spesso a Roma per sottoporsi a due operazioni. Infine il ritorno a Solaia, ove si spense nell’aprile del 1963, lasciando Sbarbaro, che durante la malattia era andato più volte a trovarla, in un profondo e silenzioso dolore, «…poi decise di salvare dalla morte Elena, nel solo modo che sapeva» <15: trasse dalle sue lettere i brani che reputò più significativi per tratteggiarne la figura di grande vitalità intellettuale.
L’Autoritratto rappresenta, infatti, un importante documento del clima culturale italiano nel lungo periodo che va dagli anni difficili del regime fascista al dopoguerra, ma, il suo valore è soprattutto letterario: Gina Lagorio, in “Sbarbaro controcorrente” riporta una definizione della poesia, attribuita al padre della De Bosis, anch’egli poeta e traduttore di classici, che corrisponde perfettamente all’atmosfera di Solaia, ovvero «aristocratico ed impareggiabile otium, che solo fa degna la vita» <16. Poesia, quindi, intesa non solo come espressione letteraria, ma soprattutto come concezione di vita. E’ poesia il rapporto stesso di Elena con Sbarbaro, che in “Fuochi fatui” così lo descrive:
“Tante cose tra noi, note a noi: un fascio di fiori di campo che non si arriva a abbracciare: quanti ne andran persi per via! Tante cose che in due non riusciremmo a ricordarle tutte, ma una dimenticata si affaccia e mi riempie di luce” <17.
Gli anni di Solaia furono gli anni di una giovinezza senza tempo, che si rifletteva sia nei dipinti che nelle lettere di Elena e, solo nelle ultime, le sue descrizioni dell’alternarsi delle stagioni nella natura della campagna senese coincisero più mestamente con quelle della vita, che, a poco a poco, sentiva allontanarsi: la sua prematura scomparsa fu discreta, come tutta la sua esistenza, volta sempre a coglierne l’aspetto più semplice e più vero, quello poetico.
[NOTE]
1 Cara Giovanna, Lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanna Bemporad (1952-1964), con uno scritto di Gina Lagorio, a cura di Anna Benucci Serva, Milano, Edizioni Archivi del ’900, p. 62.
2 Mario Costanzo, Critica e poetica del primo novecento (Boine, Campana, Sbarbaro, Rebora), Roma, Edizioni di Storia e Filosofia, 1969, p. 105.
3 Cara Giovanna, Lettere di Camillo Sbarbaro a Giovanna Bemporad (1952-1964), cit., p. 114.
4 Gina Lagorio, Sbarbaro controcorrente, Parma, Guanda, 1973, p. 232.
5 Gina Lagorio, Sbarbaro controcorrente, cit., p. 130.
6 Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante da sue lettere, a cura di C. Sbarbaro, Verona, Stamperia Valdonega, 1963, p. 12.
12 Ivi, p. 47.
13 Ivi, p. 100.
14 Ivi, p. 102.
15 Gina Lagorio, Sbarbaro controcorrente, cit., p. 313.
16 Ivi, p. 228.
17 Camillo Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa (a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller), Milano, Garzanti, 1985, p. 461.
Bruno Bonifacino, Le lettere di Elena De Bosis a Camillo Sbarbaro, Critica Letteraria, Anno XLVII – Fasc. II – N. 183/2019

    Gli anni Venti sono un periodo di grande ispirazione letteraria. Nel 1920 Sbarbaro collabora con «La Gazzetta di Genova» e con «Azione» con numerose prose e articoli. Conosce Eugenio Montale, di poco più giovane, che dedicherà la sua prima recensione su «Azione» ai Trucioli apparsi nel 1920. In più, Montale dedicherà a Sbarbaro due Ossi di seppia (Caffè a Rapallo ed Epigrammi).
    Nella sua vita schiva, di letture, di studio, allietata da poche e profonde amicizie, verso gli anni Trenta, diventa fondamentale la relazione e lo scambio intellettuale con Elena de Bosis Vivante per la quale sente una forte ammirazione e alla quale dedicherà molte delle sue opere <5. Alla morte di lei, Sbarbaro raccoglierà in “Autoritratto (involontario) di Elena de Bosis Vivante da sue lettere” (1963), frammenti di epistole per ricordarne i pensieri e perché chi la conosceva possa riascoltare la sua voce.
    [NOTE]
    5 Sul rapporto di Sbarbaro con la De Bosis Vivante si rimanda a GINA LAGORIO, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, cit. e a CRISTINA MARCHISIO, Sbarbaro e Montale a Villa Solaia, in Vicente González et alii (eds.), De los albores a nuestros días: un recorrido por las letras italianas en busca del Humanismo, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca (in stampa).
    Irene Pérez Enes, La notte, il sonno e il sogno in “Pianissimo” di Camillo Sbarbaro, Traballo de fin de grao, Universidade de Santiago de Compostela, Ano académico 2018/2019

    Elena De Bosis Vivante (Roma 1905-Siena 1963) è stato un personaggio magnetico della storia culturale italiana degli anni intorno all’ultima guerra. Figlia del dannunziano Adolfo De Bosis, sorella dello shelleyano Lauro perito nel 1931 in un gesto simbolico di protesta contro la dittatura, visse nella campagna senese accanto a un marito pensatore, Leone Vivante, e fu fulcro luminoso di un gruppo internazionale di letterari e pittori, da Herbert Read a Shirley Hazzard, da De Pisis a Montale (che la celebra nelle sue tarde poesie) a Sbarbaro. Proprio Sbarbaro le fu legato da una corrispondenza intima di spiriti acuti e innamorati degli aspetti del mondo ma anche vigili sulle proprie e altrui debolezze. Sbarbaro, che non si sposò mai, trovò a Siena un ambiente familiare che lo sollevava dall’aridità della vita del letterato, traduttore e lichenologo. A Solaia, questo il nome della mitica villa senese, tutto fioriva, i colori erano incantevoli, la conversazione rilassata e animata dal vinello aspro del luogo. Si conobbero verso il 1935, e fu un’amicizia profonda, senza sensualità, ma non per questo meno intensa. In seguito alle leggi razziali, i Vivante (Leone era ebreo, figlio di un padre giurista famoso e fascistissimo) si rifugiarono in Inghilterra, ed Elena fece di tutto, dai lavori domestici alle corrispondenze per la BBC, salvo rientrare nell’Italia tanto rimpianta passata la buriana, non ritrovandovi però l’ambiente e il fuoco degli anni giovanili. Ed Elena si spense precocemente, lasciando un buon numero di tele (dipingeva e affrescava), lasciando soprattutto le lettere a Sbarbaro.
    Il quale, gravemente colpito dalla perdita di quella che era stata il sole della sua vita, volle farla ancora parlare scegliendo dalle lettere (che pare Elena non datasse) brani di descrizione e osservazioni di luoghi paesaggi e persone. Sbarbaro naturalmente era un maestro del frammento in prosa, che a quel tempo raccoglieva, dopo Trucioli, in vari volumetti. Nelle lettere nitide e concise ma vibranti di Elena trovò già pronti dei frammenti perfetti e spontanei, da grande pittrice di parole. Ed entro l’anno della morte di lei, il 1963, pubblicò, complice Vanni Scheiwiller, il frutto del suo lavoro amoroso: “Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante da sue lettere”. Oggi, a cinquant’anni dalla prima edizione e dalla scomparsa di Elena, ne esce un’ottima edizione annotata e arricchita, a cura di Riccardo Donati (Fondazione Devoto, pp. 211, €22,00).
    Elena potrebbe essere definita una Dickinson italiana, tale è l’intensità delle sue impressioni e comunicazioni (“Questa è la mia lettera al mondo / che a me non scrisse mai”). L’Autoritratto si legge con meraviglia, se abbiamo occhi e orecchie per seguirne il rapido percorso. “…bello cenare in giardino, tutto pare buono e una benedizione che ci sia. Arriva il profumo di quel gelsomino bianco rampicante e c’è la luna crescente e le lucciole verdoline… Che annata di cicale! assordano addirittura…” Oppure: “… da una bella osteriola (a sfondo del cortiletto celeste con pergola, incannucciata gentilissima che pare un lavorino del tempo di Giotto – o meglio un delizioso de Pisis…), stupenda visione delle Alpi Apuane, fantastiche e incorporee nella luce della sera”.
    L’altro lato della medaglia è l’incompatibilità occasionale con ospiti o familiari: “Bruttarello, sentirsi tanto sollevati dalla partenza di persone care… ma anche il rimorso di non fargli migliore compagnia, di non poter quasi parlare certi giorni (come chi ha male istintivamente si muove in modo da non farlo dolere)”. Ed ecco la pittrice: “Che giornata! non c’era stecco che non paresse un gioiello, e oggi, tutto il mondo una festa – e che crepuscolo e che notte di diamante, ora! Sono stata sempre fuori, la mattina sopra un greppo della via maestra, a dipingere. Vedevo meraviglie e se pure non ne saprò uscire, quelle le ho viste!”.
    Poi ci sono i letterati, a volte maltrattati, o gustati per la loro autenticità (Ungaretti). L’Autoritratto è anche una galleria di quegli anni ricchi e dolenti per la nostra cultura, come rivela anche l’antologia delle recensioni che nel 1963 accolsero la prima edizione inserita opportunamente da Donati: Bertolucci, Betocchi, Montale, Prezzolini… Cioè c’è molto materiale per lo storico e il lettore avvertito. Ma è soprattutto la storia minima di un’esistenza lucidissima, appassionata, senza indulgenze per sé o altri, a far dell’Autoritratto (involontario) di Elena una lettura indimenticabile.
    Massimo Bacigalupo, Elena Vivante, interni di una villa senese, “Il manifesto-Alias”, 4 luglio 2014, ripubblicato in biblioteca dell’egoista, Circolare 2015

    Pubblicato da Adriano Maini

    Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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