Attraverso la figura fiabesca della donna-mito e gli oggetto-feticcio ad essa legati, Orengo afferma l’importanza della trasmissione del ricordo

Bordighera (IM): il Chiosco della Musica “Evita Peron” sul Lungomare Argentina

Nel romanzo “Le rose di Evita” (1990) di Nico Orengo viene sviluppata la stessa idea. Il protagonista, il quindicenne Marco, ricostruisce una storia attraverso la memoria altrui. Si tratta di una storia duplice, ovvero di una Storia, <145 quella di Evita Peron, che entra nella storia di una famiglia di floricoltori liguri. A questo intreccio fa riferimento un breve brano che apre il romanzo e precede l’incipit vero e proprio: “«Storie…» Dissero «storie» con l’aria di voler dire che erano cose che accadevano e si dimenticavano, avevano l’importanza che avevano: vale a dire nessuna. Almeno per chi non era stato preso in mezzo. Per Lisa, Marco e Giuseppe quelle non erano «storie» ma una Storia che si era trasformata in vita, con la violenza di una mareggiata. E loro stavano lì, tra un’onda e l’altra, senza riuscire a vedere la riva o una luce all’orizzonte”(RosE, 3).
L’elemento che scatena la curiosità di Marco e fa iniziare le sue ricerche è una «fotografia incorniciata a fianco della madia» che ritrae una «signora bionda, con il lungo vestito nero e una collana di perle al collo», ed è attraversata da una scritta: «A Giovanni Alborno per le sue rose, con i ringraziamenti di Evita» (RosE, 29). Marco la legge «come fosse stata la prima volta» (RosE,29) e, per la prima volta, si interroga sull’identità della donna e sul legame di costei con il defunto nonno, Giovanni Alborno. Prova a chiedere alla mamma, al padre e alla nonna paterna, ma questi ultimi due in particolare, che la vicenda riguarda più da vicino, si dimostrano reticenti: non capiscono il motivo del suo improvviso interesse per un fatto del passato, il cui ricordo sembra essere doloroso per entrambi. Rifiutano di rispondere alle sue domande, sorvolano, oppure gli forniscono solo qualche brandello della storia: «Come la fai lunga con questa storia, – rispose la nonna, con una punta di fastidio nella voce […] La vecchia voleva cambiare discorso» (RosE, 77). Marco non si perde d’animo anche se le versioni che raccoglie sono contrastanti. Ognuno sembra avere una visione diversa dell’accaduto: «Ah, le rose di Evita […] Io quella storia non te la saprei proprio raccontare, tua nonna e tuo padre l’hanno sempre raccontata in modo diverso» (RosE, 40) gli dice la madre. Poi gli spiega che il nonno aveva vinto un concorso per la rosa più bella indetto dai floricoltori di Bordighera in occasione della visita di «Rosa Evita» (RosE, p. 30). Per il padre «non ci fu nessun concorso», Evita aveva visto la rosa del nonno dipinta in un quadro del pittore Piana e aveva espresso il desiderio di avere «un mazzo delle rose originali» (RosE, p. 53). La mamma racconta che il Ministero dell’Agricoltura aveva chiesto al nonno di andare in Argentina a coltivare le sue rose per Evita, mentre la nonna dice che fu Evita stessa a chiedergli di «andare a Buenos Aires, in Argentina, a farne una coltivazione» (RosE, p. 100). Le opinioni divergono anche sul motivo della partenza: per la nonna il marito accettò di partire perché stregato da Evita e dalla sua bellezza, per la madre colse un’occasione: «la vita gli ha aperto, inaspettatamente, un passaggio e lui ci si è infilato» (RosE, p. 88). Oltre a quella dei familiari Marco raccoglie anche le versioni di alcuni conoscenti, che lo indispettiscono. Quella del dottore, nipote del pittore che aveva dipinto un quadro con una rosa per Evita, lo irrita «perché gli sembrava che non si rendesse abbastanza merio al fatto che la rosa fosse del nonno» (RosE, 58). Quella del meccanico Fantino, invece, perché condanna la scelta del nonno di partire («Le rose, le rose, per lui al mondo esistevano solo quelle maledette piante con le spine» RosE, 84) allo stesso modo della nuova compagna del padre che introduce lei stessa l’argomento chiedendogli: «La conosci la storia dell’Argentina?» e per convincerlo a riappacificarsi con il burbero genitore gli racconta di come quest’ultimo avesse sofferto per la partenza del padre, di come giovanissimo avesse dovuto lavorare duramente per non perdere tutto quello che la famiglia possedeva e di quanto si fosse vergognato e avesse dovuto sopportare le derisioni dei compaesani quando il padre, un vecchio socialista, era andato a nascondere «con l’aiuto dei preti e dei fascisti, la bara di Evita». (RosE, 124). Le diverse versioni dei fatti vengono così esposte da Orengo per rendere conto delle fattezze della memoria, fatta di brandelli disparati e di ricordi soggettivi. A causa di questo ondeggiamento memoriale Marco ha difficoltà a «mettere insieme non tanto i movimenti quanto gli affetti di quella storia» (RosE, p. 100), ma pian piano riesce a ricostruire la vicenda. Scopre che Evita Perón in visita ufficiale a Bordighera aveva apprezzato la bellezza delle rose del nonno. In seguito, quest’ultimo era andato in Argentina per coltivarle nel giardino della residenza dei Perón. Era partito nel 1947, abbandonando il figlio (il padre di Marco allora quindicenne), la moglie e le sue terre. Era tornato dopo cinque anni, completamente cambiato: ridotto a un automa, non faceva che ripetere «Non saranno mica le 18 e 25» (RosE, 99) che, come gli spiega la nonna, era l’ora in cui Evita era morta il 26 luglio del 1952 «e, per l’Argentina, immediatamente passata a immortalità» (RosE, 99). Sempre la nonna gli aveva raccontato che da Unzué, dove si trovava, di tanto in tanto il nonno scriveva una lettera e parlava di Evita: «Scriveva che [Evita] era sicura che la sua vita dipendesse da quelle rose. Era così pallida e stanca che solo le rose del nonno le davano calore e forza» (RosE, 101). Ancora grazie alla nonna Marco può aggiungere l’ultimo tassello alla storia: nel 1957 il nonno aveva aiutato un colonnello dei servizi segreti argentini a trasportare in gran segreto la bara di Evita a Milano, dove era restata fino a «quando nel ’71 Perón tornò a governare l’Argentina [e] la riportarono indietro» (RosE, 117). Dopo quest’ultima esperienza il nonno era completamente impazzito e cantava continuamente: «Come carovane i ricordi passano con una scia dolce di emozione» (RosE, 118). <146
Ricostruire la storia del nonno e di Evita, contrariamente a quanto sostiene la nonna, <147 a Marco serve, come riconosce lui stesso, ragionando tra sé e sé: “Pensò che le persone se ne vanno e lasciano dei ricordi che non sempre sono visibili, che bisogna cercarli. E questi ricordi sono vivi e crescono mentre li si ignora e s’intrecciano con ricordi di altre persone e diventano grandi, diventano un mondo. E bisogna inseguirli quei ricordi, altrimenti “il mondo si fa sconosciuto e ostile”. Lui, pensò Marco, si era arrampicato su quei ricordi e un frammento di mondo ora gli apparteneva e non gli faceva più paura (RosE, 137)”. <148
I verbi di movimento cercare e inseguire insistono sulla necessità di informarsi attivamente, mentre la gradazione crescente sono vivi, crescono, diventano grandi sottolinea la fiducia nella capacità di resistenza della memoria, già espressa in altre occasioni, per esempio nel Salto dell’acciuga, dove leggiamo: «La memoria è come una goccia d’olio buttata nell’acqua. Può scomparire per un istante ma poi se ne torna su, sta lì, galleggia come uno sguardo su ciò che è stato» (Sa, 40). La conoscenza del passato permette all’adolescente protagonista delle “Rose di Evita” di capire il suo mondo e di poter così orientare il suo destino, fino a quel momento in sospeso. Per Marco la salvezza è la memoria anche per un altro motivo, recuperarla significa raccontarsi una storia che lo distragga dalla sua: la crisi matrimoniale dei genitori, le loro scelte difficili da comprendere, quella del padre di sacrificare tutto al lavoro della terra, dal sonno agli affetti, quella della madre di abbandonarli e di lavorare in un’area servizi in autostrada. Difatti, a partire dai vari elementi che riesce a recuperare dai ricordi di familiari e conoscenti, Marco non smette di fantasticare, di aggiungere particolari alla storia e di ricamarla con l’immaginazione. Dapprima fa «un sogno colorato e lunghissimo» (RosE, 69) in cui Evita esce dal mare come Venere, ma anche da sveglio «si racconta la storia» (RosE, 79), e alla nonna chiede continuamente di parlargli del nonno «come se avesse bisogno di una storia per scaldarsi» (RosE, 116). La vicenda del nonno e di Evita è per lui una favola consolatoria. Questo è possibile perché nella storia è presente Evita, cioè un personaggio idealizzato e ammantato di fiabesco dalla fantasia popolare fino ad essere allontanato dal piano della realtà. Dalla madre gli viene presentata come «l’attrice Rosa Evita e poi la moglie del presidente di un paese oltreoceano», ma quando gliene parla in seguito la realtà si confonde con la leggenda: «era come una regina, una encantadora. Pare che viaggiasse con centinaia di bauli pieni di vestiti ricchissimi, di velluto, seta, taffetà» (RosE, 50). Per spiegargli perché le furono riservati grandi onori a Bordighera e perché ci fosse una folla numerosa ad accoglierla, usa il termine «apparizione» e dice: «Tutti accorrono da Ponte San Luigi a Imperia, da Badalucco a Perinaldo. Vogliono vedere la donna che guida un paese, grande nove volte l’Italia, che aiuta i poveri, chi lavora la terra, le donne. È come se domani dicessero che arriva la Madonna. Ma una madonna che fa miracoli, capisci?» (RosE, 89). Il suo arrivo viene presentato come un’epifania soprannaturale ed Evita è paragonata alla Vergine Maria. Non a caso, Marco se la figura come «una donna-rosa, capace di attirare il suo profumo sugli altri» (RosE, 125). Infatti, la rosa è uno dei simboli mariani.
Evita è la prima donna-mito, una figura che compare in almeno altri tre testi: negli “Spiccioli di Montale” (1992) è impersonata da Ava Gardner, nella “Guerra del basilico” (1994) da Grace Kelly e nell’”Ospite celeste da Josephine Baker (1999). Diva dello spettacolo o donna di grande carisma come Evita, la donna-mito è la figura-simbolo dell’immaginario che sconfina nella realtà. Rappresenta una «bellezza irraggiungibile» (SM, 60) eppure a portata di mano. La bellezza irraggiungibile non va intesa come un’idea astratta: è un elemento terrestre, presente nella realtà, come creature terrestri (seppure divinizzate) e capaci di suscitare pulsioni sensuali sono le donne che la incarnano. La donna-mito di Orengo è quindi lontanissima dalla donna-angelo montaliana (con cui, come abbiamo visto, viene messa a confronto negli “Spiccioli di Montale”) che rappresenta una dimensione diversa dalla realtà ed è portatrice di una salvezza possibile solo come fuga dal mondo. Difatti, in tutti e quattro i casi le donne-mito interagiscono con gli altri personaggi, uomini e donne assolutamente comuni, o si trovano fisicamente vicine in quel lembo di Liguria. Negli “Spiccioli di Montale” Adriano [n.d.r.: al secolo Adriano Viale] racconta di quando una sera del 1954 Ava Gardner (già famosa e da tempo habituée del «ristorante “La Mortola” dei fratelli Lorenzi» (SM, 58), dove lui lavorava) era andata dietro al bancone e gli aveva spiegato come preparare «a good Martini dry» (SM, 59). Nella “Guerra del basilico” Martino (pseudonimo con cui Adriano compare nel racconto “La donna venuta dal mare”) trova una donna bellissima svenuta sulla spiaggia della Mortola, con addosso solo un’ampia gonna gialla, se ne prende cura e prova per lei un forte desiderio sessuale che si spinge fino all’abuso. Dopo pochi giorni la donna scompare misteriosamente lasciando «come unica traccia del suo passaggio[…] una corona di foglie di basilico» (Gbas, 111). Adriano la rivede molti anni dopo, come cliente del ristorante dove lavora. Tutto lascia pensare che quella donna fosse Grace Kelly. Infine, nell’”Ospite celeste” Miro è invaghito di Josephine Baker. La ballerina si esibisce al Casinò di Montecarlo, poco distante da casa sua, e lui ogni sera può appostarsi fuori dal locale con la speranza di vederla.
Tuttavia, la donna-mito è irraggiungibile: è un sogno che entra nella realtà, pertanto è impossibile da possedere. Se rimane un sogno inafferrabile rende visibile la bellezza del mondo e permette di riconciliarsi con le miserie dell’esistenza quotidiana. <149 Mentre, se si trasforma in un’ossessione, può essere dannosa: come per Miro che a causa della sua follia amorosa è rimasto invalido, o per Adriano che coltiva ossessivamente il ricordo della Donna venuta dal mare in una mostruosa pianta di basilico e combatte una guerra senza senso ed estenuante per proteggerla da Rosanna che, gelosa, ne strappa le foglie. Solo la gonna gialla, traccia della storia di Martino-Adriano e di Grace Kelly, che nel finale viene donata a Rosanna, metterà fine alla guerra del basilico. <150 L’indumento è trovato da Oscar, di professione «raccoglitore di feticci […] archeologo del passato recente, un cacciatore di reliquie laiche» (Gbas, 50), come spiega agli altri ospiti dell’albergo: “Per dirla breve e senza inganno sono un rigattiere. Vado in giro a cercare oggetti. Ma oggetti particolari; la sedia dove si è seduto, in un certo film, un grande attore, il vestito indossato da una grande attrice, il bicchiere dove ha bevuto un eminente uomo politico…[…] il mondo è pieno di bizzarri collezionisti che darebbero un patrimonio per avere la sedia a sdraio dove si è seduta Grace Kelly nel film “Caccia al ladro”, sulla spiaggia di Cannes con il «gatto» Cary Grant” (Gbas, 50).
Oscar effettua le sua ricerche in Costa Azzurra proprio perché è una terra di miti. Nel romanzo il suo commercio di «reliquie laiche» (Gbas, 50) assume significati contraddittori: da un lato, positivi, in quanto si differenzia dalle attività umane che provocano l’alterazione dell’ambiente naturale perché, dice Oscar, «Non fa male a nessuno. Sono sogni, non inquinano…» (Gbas, 70). Da un altro, negativi, come dimostra l’insistenza sull’inutilità e sul deterioramento degli oggetti. Per esempio, a proposito del parafuoco da camino di Katherine Mansfield, che considera «un oggetto di grande eco sentimentale per il [suo] catalogo di feticci», Oscar racconta di averlo trovato tra le macerie (si noti la ripetizione della parola calcinacci): «giardino è pieno di calcinacci e fra i calcinacci della villa a Garavan in cui visse la scrittrice ho visto un parafuoco da camino» (Gbas, 69). L’utilizzo dell’articolo indeterminativo – un parafuoco – sottolinea invece l’aleatorietà che guida la scelta dell’oggetto. Lo stesso avviene per la sedia a sdraio sulla quale si sedette Grace Kelly al Beach Club di Cannes durante le riprese di “Caccia al ladro”. Oscar, insieme all’amico Louis-Baptiste, ha appuntamento con il bagnino Marion che lavora da più di cinquant’anni nello stesso stabilimento balneare per acquistarla. Marion li conduce al deposito dove sono conservate le vecchie sdraio, ma il loro numero è sorprendente: “E qual è? – chiese, senza aspettarsi una risposta. Intorno c’erano centinaia e centinai di sedie a sdraio, bianche, blu, verdi, a strisce gialle e bianche, bianche e blu, bianche e verdi. […] – Non le usate più? – Di fortuna, cadono a pezzi. […] – dov’è quella della Principessa? – Erano tutte numerate, guardate un po’ voi, seconda fila, la trenta o la trentuno. – Prendiamole tutte e due così non sbagliamo […] – Ecco, disse Marion, – la trenta e la trentuno non sono in condizioni migliori delle altre” (Gbas, 141-142).
Anche in questo caso l’accento viene posto sull’usura dell’oggetto e sulla quasi casualità della scelta per suggerire che quello che conta sono i valori di cui vengono caricati gli oggetti e non gli oggetti in sé. Oscar afferma che per fare il suo lavoro «Basta ricordarsi, è questione di memoria» (Gbas, 138). Anche nelle “Rose di Evita” viene sottolineata la deperibilità degli oggetti in contrasto con la resistenza dei ricordi. Nel finale Marco ritrova a Grimaldi nella rimessa della villa Voronoff l’automobile a bordo della quale Evita era arrivata a Bordighera nel 1947: “Immensa, c’era, rattrappita, la Cadillac coupé de ville, come una bara dimenticata, come se avesse subito un’esplosione. Le gomme erano sgonfie, lacerate, le fasce, una volta bianche, avevano ormai lo stesso colore della lamiera. Le maniglie non erano più d’argento ma arrugginite, come la grande calandra del muso, dove pendeva, schiacciata, una donna in volo. Ruggine e fuoco avevano scavato la vernice e il ferro e la grande automobile era ridotta a una scheggia di morte. Non era come l’aveva immaginata. […] Nella sua inutilità e abbandono era ancora imponente e bella, incuteva un fascino strano, come un animale di altri tempi, un fossile, uno di quei nummuliti che di tanto in tanto si trovano, zappando, in campagna” (RosE, 135).
Diverse metafore riferite alla macchina sottolineano la sua condizione di oggetto-morto. Viene definita una «bara dimenticata», una «scheggia di morte», e paragonata a un fossile. L’immagine è reiterata dopo questa descrizione iniziale: «Marco toccò il volante. Era freddo come la fronte di un morto» (RosE, 136); «Era morta e solo morta, un ammasso di lamiera e pelle senza un soffio di vita, senza possibilità di ritorno […] lo schienale era squarciato e le molle stavano abbandonate come vermi uccisi dal caldo» (RosE, 136). L’insistenza sulla morte dell’oggetto serve ad accentuare il contrasto con i ricordi che invece sono vivi, sopravvivono alle cose e alle persone. Marco, dopo aver trovato all’interno dell’automobile un mazzo di rose secche, sicuramente (pensa) quelle del nonno, si chiede: «Era tutto ciò che rimaneva della storia del nonno e di Evita Perón?» (RosE, 137). Per rispondersi che no: i ricordi restano.
Attraverso la figura fiabesca della donna-mito e gli oggetto-feticcio ad essa legati, Orengo afferma l’importanza della trasmissione del ricordo e allo stesso tempo esprime la problematicità del rapporto con il passato: la memoria del passato, quando non viene reinvestita nel presente è inutile come il venerare oggetti morti. Non a caso, lo scrittore ha affermato in un’intervista che «non si può mai creare una cosa nuova e forte, se non è forte la motivazione della memoria. Memoria che non è nostalgia, ma è proprio qualcosa che indica il movimento». <151
[NOTE]
145 In maiuscolo nel testo: «Per Lisa, Marco e Giuseppe quelle non erano “storie” ma una Storia che si era trasformata in vita, con la violenza di una mareggiata» (RosE, 3).
146 Si tratta del un tango argentino: Mi Buenos Aires querido, parole di Alfredo Le Pera, musiche di Carlos Gardel. La canzone è il sottofondo dei sogni ad occhi chiusi e aperti che Marco fa su Evita (è citata a p. 70 e p. 79) insieme a Melodìa de arrabal degli stessi autori.
147 «La nonna si era alzata, aveva fatto un gesto brusco, come a voler cacciare dei ricordi fastidiosi: – Marco, te lo racconto un’altra volta. Adesso lascia stare. Ti ho già detto troppo e quello che ti ho detto a te serve poco e a me fa male» (RosE, 103).
148 Corsivi nostri.
149 È particolarmente significativa in questo senso la conclusione degli Spiccioli di Montale: «Rimaneva il bagliore di Ava Gardner: aspettare una bellezza misteriosa che appaia, più o meno improvvisamente, per ricordarti quanto sia inafferrabile» (SM, 60).
150 Rosanna incontra Boyd che osserva l’ampia gonna gialla che indossa la donna e pensa che non le appartenga, «Forse aveva un taglio troppo elegante, qualcosa che la rendeva estranea a quel corpo. Lei gli disse: – L’ho avuta. È mia. È sempre stata mia. Ma prima non me la voleva dare. Per questo gli strappavo le foglie del basilico. La teneva per quella donna là» (Gbas, 195).
151 STEFANIA LUCAMANTE, Intervista con Nico Orengo, art. cit., p. 139.
Federica Lorenzi, Il paesaggio nell’opera di Nico Orengo, Tesi di Laurea, Université Nice Sophia Antipolis – Università degli Studi Di Genova, 2016

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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