Dopoguerra bigotto…

Dopo il fascismo e anche una volta destituito l’Indice dei libri proibiti per ragioni che avevano a che fare con l’impossibilità di sottoporre a verifica tutte le pubblicazioni, la censura non ha smesso di essere esercitata.
Senza considerare i secoli precedenti, la lista di autori processati nel dopoguerra è lunga e comprende nomi celebri e personalità meno conosciute: tra i “condannati in via definitiva” si annoverano Giuseppe Murgia con Il ragazzo di fuoco, Luigi Galeazzo, autore di Le memorie di una cameriera, Bernardino del Boca, autore di La lunga notte di Singapore, Giuseppe Iorio, autore di Il fuoco del mondo e Ettore Mariotti, autore di La neofilia. Tra coloro che sono stati assolti in istruttoria o in primo grado si possono citare Bianciardi con La solita zuppa, Curzio Malaparte con Kaputt e La pelle, Pasolini per Ragazzi di vita, Moravia (La mascherata, La ciociara, La noia, La vita interiore), Tondelli per Altri libertini e Busi per Sodomie in corpo <11.
Tra i quarantadue casi descritti da Armano in Maledizioni, le cause per diffamazione e quelle per oltraggio al pudore sono in proporzione abbastanza equa. Se ad esempio si prende in considerazione il quinquennio che va dal 1947 (anno di pubblicazione di Dopoguerra bigotto) al 1952, indipendentemente da assoluzioni e condanne, si incontrano: Iorio con Il fuoco del mondo, segnalato il 23 novembre del 1948 e condannato per oltraggio al pudore il 20 febbraio 1953; Malaparte con La pelle – segnalato il 23 gennaio 1950 da un medico proprietario di un clinica privata per offesa alla dignità dei napoletani, dei quali si descrivevano miserie e abitudini sessuali – e Kaputt, uscito nel 1951 e oggetto di due querele da parte di persone nominate nel romanzo con il loro nome proprio; Del Boca con La lunga notte di Singapore, condannato per oscenità nel 1952; Ettore Mariotti con La neofilia, uscito nel marzo del 1952, accusato di pederastia e assolto definitivamente nel maggio di due anni dopo; Arbasino con il racconto satirico Una persona che non dimenticherò mai, pubblicato in “Coprifuoco” la vigilia di Natale del 1952 e sotto immediato processo per presunta diffamazione nei confronti della famiglia Alpeggiani, e tuttavia assolto come ritratto irriverente ma privo degli estremi del reato di diffamazione.
Ad una più attenta disamina, però, i casi di condanna definitiva hanno riguardato sempre oltraggio al pudore o oscenità, convalidando l’adeguatezza del titolo dell’articolo moraviano.
Dopoguerra bigotto apparve il 15 maggio 1948 sulla “Fiera Letteraria”. Il movente principale dell’articolo fu, nello specifico, l’ingresso dell’opera omnia di Sartre nell’Index. Inoltre, avendola subita fin dai tempi del fascismo, Moravia era molto sensibile al tema della censura: concepito dal 1936 e scritto tra il 1939 e il 1940, il dattiloscritto del romanzo La mascherata oltrepassò indenne la censura fascista, per essere poi sequestrato alla seconda edizione Bompiani, nel 1941. I provvedimenti in atto contro lo scrittore fecero slittare la pubblicazione di Agostino al 1944, a distanza di due anni dalla stesura <76. Prima della pubblicazione integrale in volume con Bompiani nel 1957, la prima parte del romanzo La ciociara, pubblicata sulla rivista “Nuovi Argomenti” nel novembre 1955 e febbraio 1956, fu denunciata dal questore Cesare Musco per oltraggio al pudore. Nel 1961, subito dopo aver vinto il Premio Viareggio, La noia venne denunciato da due privati cittadini e sequestrato, per poi essere scagionato dall’accusa di oscenità nel maggio del 1965, con l’assoluzione di Moravia e Valentino Bompiani. Infine, sul “Corriere della Sera” del 20 ottobre 1979, si annunciava il sequestro di La vita interiore, uscito nel giugno dell’anno precedente.
Come si vede, pur non essendo mai condannato, lo scrittore fu più volte processato e nel 1952 la sua opera subì il medesimo trattamento di quella sartriana: la messa all’Indice.
Come evidenzia la scansione cronologica dei sequestri moraviani, nel 1947, all’epoca di Dopoguerra bigotto, il rapporto dell’autore con le pratiche censorie non era ancora giunto all’apice, eppure la rivendicazione ha già i toni lucidi e coraggiosi dell’intellettuale che difende il proprio operato da principi che, pur essendo estranei alla letteratura, ne giudicano e pregiudicano la libertà. Nel corpo dell’articolo, Moravia negava all’avvocato Carones (coinvolto nel processo a Lemur e ironicamente trasfigurato in “Zeta”) il diritto di «salvare l’anima agli altri» <77, dal momento che la sua comprensione artistica poteva essere «molto scarsa (come in effetti è quasi sempre)» <78 e, anche nell’evenienza che il suo zelo non fosse correlabile a malafede, pur credendo di difendere la comunità, poteva invero arrecarvi «un danno molto maggiore di quello che vorrebbe evitare» <79. Evocando i celeberrimi precedenti francesi, l’autore proseguiva: “Pensiamo un momento se i Fiori del Male o Madame Bovary, per non turbare l’immaginazione di poche donnacole, fossero stati veramente proibiti e soppressi; la cultura europea ne avrebbe ricevuto un danno enorme”. <80 E poi: “Scrivo un romanzo, una novella: e ad un certo momento mi trovo obbligato a descrivere l’atto sessuale. Perché obbligato? […] Diavolo: nella vita c’è l’atto sessuale e se non ci fosse non ci sarebbe la vita. Io voglio che il mio libro sia completo come la vita, ecco tutto. La vita è quello che è e non c’è nulla nella vita che sia di per sé cattivo…” <81 Nelle sue parole si legge, in primo luogo, la messa in dubbio della capacità dei giuristi di comprendere davvero l’arte (l’avvocato Carones/Zeta ha una comprensione artistica “molto scarsa”) e, in secondo luogo, una strenua difesa dell’autodeterminazione della letteratura. Oltre che una dichiarazione di poetica nella quale l’autore esprime la necessità che vi sia corrispondenza tra vita e contenuto delle opere (“Io voglio che il mio libro sia completo come la vita, ecco tutto”), il testo rappresenta una rivendicazione di libertà di espressione attraverso un’argomentazione molto semplice: per Moravia è inammissibile che a suscitare scandalo siano fatti connaturati da sempre all’esistenza umana e non è accettabile che, anziché riconoscere alla letteratura uno stretto rapporto con la realtà, si instauri una automatica corrispondenza tra “realtà scritta” e oltraggio al pudore. Il principio è equiparabile alla necessità di dire il vero che oggi accomuna molti scrittori, ma c’è una differenza sostanziale: Moravia non si discosta dall’ambito letterario e non fa dello scrittore uno smascheratore di menzogne e orditure. Egli sottolinea la necessità di non disgiungere la letteratura dalla vita e rivendica la possibilità di includere nei testi letterari tematiche ed evenienze “reali” cioè connesse alla vita di ogni essere umano, ivi compreso il sesso. Oggi, invece, al concetto di “realtà” si è sostituito quello di “verità”, da intendersi in senso ben più assoluto.
Semplificando moltissimo la questione, si può affermare che, se per parlare (e scrivere) di ciò che è “reale” non è necessario riferirsi a fatti “realmente accaduti” – anzi, il principio costitutivo del romanzo è proprio il suo essere fiction e non necessariamente documento, con la possibilità di rivelarsi comunque documento indiretto in grado di restituire un quadro fedele – l’assunzione del compito di dire la “verità” fa dello scrittore un divulgatore dell’assoluto.
Il concetto di “verità” va riferito non ai fatti “potenzialmente reali” che da sempre permeano le narrazioni, ma a specifici eventi “realmente accaduti”, dei quali è non soltanto possibile ma addirittura doveroso fornire una versione “veritiera”, non deformata dal filtro della finzione, né dal presunto occultamento esercitato da organi esterni. Quando pedagogica, la missione della letteratura non è più quella di parlare della realtà per essere il più vicina possibile all’uomo, ma quella di informare su fatti specifici, disvelando verità taciute <82.
Il celeberrimo verdetto pasoliniano “Io so, ma non ho le prove” del 14 novembre 1974 sul “Corriere della Sera” era già collocata verso la direzione odierna, ma oggi ci si trova in una posizione estrema: se nel 1974, pur sapendo, Pasolini non aveva le prove, nel 2006, l’autore di Gomorra assicura non solo di sapere, ma di essere anche in possesso delle prove. Da uno scrittore che «cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; […] che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero» <83 e che, però, non possiede prove tangibili di quanto afferma, si è passati ad uno scrittore che, dichiarando «Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità» <84 si fa portavoce della verità, proponendosi implicitamente come eroe (e non soltanto «di carta» <85), «uomo che scrivendo o parlando anche agisce» <86.
[NOTE]
76 Cfr. E. ROMANO, “Cronologia”, in A. MORAVIA, La ciociara, cit., pp. XLVII-LVII. Si deve aggiungere la pubblicazione del 1943 a Roma presso la casa editrice Documento, ad opera di un amico di Moravia, Federico Valli, in un’edizione di sole 500 copie, limitata proprio perché l’autorizzazione alla pubblicazione era stata negata.
77 A. MORAVIA, Dopoguerra bigotto, in “La Fiera Letteraria”, 15 maggio 1948. Tutte le citazioni dall’articolo sono riportate da A. ARMANO, Maledizioni, cit., pp.27-38. La citazione è a p. 26.
78 Ibidem.
79 Ivi, p. 27.
80 Ibidem.
81 Ibidem.
82 “Parlare della verità” è il titolo dell’intervento di Mozzi all’incontro intitolato “Scrivere sul fronte occidentale”, organizzato da Moresco dopo l’attentato dell’11 settembre per discutere del ruolo dello scrittore all’indomani della catastrofe che mise in discussione molti equilibri. Cfr. A. MORESCO, D. VOLTOLINI (a cura di), Scrivere sul fronte occidentale, Milano, Feltrinelli, 2002. La questione della “verità” è assai spinosa. Oggi si richiedono al romanzo caratteristiche che non gli appartengono: non più (o non soltanto) invenzione letteraria e applicazione di vis imaginativa connaturata alla pratica scrittoria e alla letteratura, in grado di rappresentare le molteplici ramificazioni del possibile, bensì verosimiglianza mimetica e resoconto di fatti reali; eppure la differenza tra “racconto” e “denuncia” o “cronaca” dovrebbe essere ineliminabile.
83 P. PASOLINI, Che cos’è questo golpe? Io so, in “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974. Ora 14 novembre 1974. Il romanzo delle stragi, in ID., Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. 88-93. La citazione è a p. 89.
84 R. SAVIANO, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2011, p. 247. La formula è in realtà reiterata per molte pagine fino alla fine del capitolo, che si chiude così: «Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri» (Ivi, p. 253).
85 Cfr. A. DAL LAGO è Eroe di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Roma, Manifestolibri, 2010. Romano Luperini ha definito Saviano «piccolo, emarginato e rabbioso eroe» (R. LUPERINI, La condizione degli intellettuali oggi. – Prolusione tenuta in novembre per l’apertura dell’anno accademico 2007-2008 dell’Università degli studi di Siena. (http://www.pasolini.net/saggistica_letteraturaRomanoLuperini.htm).
86 A. TRICOMI, Pasolini: gesto e maniera, cit., p. 139.
Cristina Michielon, Riflessioni sul ruolo dell’autore nel panorama letterario italiano contemporaneo, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari di Venezia, Anno Accademico 2013-2014

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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