La questione Biennale finì quindi per assumere, nello scontro Roma-Venezia, i connotati di una vera e propria contrapposizione tra istanze centraliste e volontà autonomistiche

Durante il Ventennio fascista, nell’ambito di quel vasto processo di riorganizzazione e razionalizzazione del settore espositivo messo in atto dal regime per dar vita a un nuovo sistema dell’arte contemporanea, la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano e la Quadriennale di Roma, inizialmente gestite a livello municipale con il concorso di istituzioni locali, associazioni artistiche e società filantropiche, furono autorizzate in forma permanente dallo Stato e trasformate in enti autonomi. La vera svolta in senso “fascista” si ebbe però sul finire degli anni Trenta, quando furono emanati i nuovi statuti, che prevedevano l’inserimento all’interno dei Consigli di amministrazione e delle sottocommissioni tecniche di rappresentanti diretti dell’esecutivo, del Partito e dell’ordine corporativo.
All’indomani della Liberazione, nonostante la grave crisi interna in cui versava il Paese, impegnato in un immane sforzo di ricostruzione sia sul piano materiale che morale, oltre che di ridefinizione del proprio assetto istituzionale, il problema di una organica revisione della legislazione relativa alle grandi mostre d’arte – di una loro “democratizzazione”, come si diceva allora – fu posto all’ordine del giorno e riuscì a guadagnarsi un certo spazio nell’agenda politica del tempo, anche in ragione del fatto che la ripresa delle tre manifestazioni era legata a doppio filo con una serie di interessi più generali, che superavano il versante puramente storico-artistico. La questione della riorganizzazione della Biennale veneziana, in particolare, inizialmente sollevata a livello locale per iniziativa di una ristretta quanto combattiva cerchia di addetti ai lavori, nel giro di un quindicennio finì per valicare gli stretti confini della Laguna, assumendo una dimensione propriamente nazionale. Il 1960 fu, in questo senso, un anno cruciale: l’ennesima nomina ex abrupto imposta dal governo suscitò una vasta eco nell’opinione pubblica, invadendo le terze pagine di tutti i principali quotidiani dell’epoca. Otto anni dopo, le grandi mostre nazionali sarebbero tornate ancor più clamorosamente al centro dell’attenzione mediatica, investite anch’esse, come le università, dal fenomeno della contestazione giovanile, che con le nuove istanze di cui si fece portavoce segnò radicalmente il dibattito intorno ai grandi enti espositivi. Date queste premesse, appare per molti aspetti sorprendente che la legge sul nuovo statuto della Biennale di Venezia dati al 1973, sebbene fin dall’immediato secondo dopoguerra varie proposte si fossero susseguite senza sosta, tanto che al principio degli anni Sessanta si giunse addirittura a parlare di una vera e propria «pioggia di statuti» <1. Sorge dunque spontaneo interrogarsi sui perché di questo iter particolarmente lungo e controverso, in un ambito per certi aspetti marginale della vita pubblica come quello dell’arte contemporanea.
In realtà, la riorganizzazione degli enti espositivi nazionali toccava molteplici interessi, il più delle volte non convergenti tra loro, e ciò fece sì che le varie forze sociali in campo si dessero battaglia, stringendo di volta in volta alleanze l’una contro l’altra, in uno scontro a tratti feroce, che finì inevitabilmente per rallentare il processo di riforma. Si tratta di dinamiche che, al netto delle peculiarità di ciascuna manifestazione, della sua storia e del contesto locale di riferimento, si riscontrano in forme più o meno simili in tutti e tre i casi analizzati, ma con una sostanziale differenza: per giungere alla “riforma” dello statuto della Quadriennale di Roma e della Triennale di Milano si dovettero attendere gli anni Novanta, quando gli enti autonomi furono convertiti in fondazioni di diritto privato. Infatti, se nel corso degli anni Cinquanta il discorso pubblico intorno alla riorganizzazione della Biennale e della Quadriennale era andato sviluppandosi in parallelo, a partire dal decennio successivo la manifestazione veneziana finì per monopolizzare l’attenzione dei riformisti, in particolare sul versante dell’azione parlamentare. L’idea di fondo, da più parti condivisa, era che la Biennale rappresentasse il paradigma di uno stato di crisi più ampio, che investiva tutte le strutture culturali del Paese e che implicava, come vedremo, la costituzionalizzazione dei rapporti tra potere esecutivo ed enti pubblici di cultura. Da ciò discendeva la convinzione che Venezia avrebbe fatto da apripista: una volta raggiunto un accordo sul nuovo statuto della Biennale, la riforma degli altri enti sarebbe necessariamente discesa a cascata. Così non fu, e la stessa legge sul nuovo ordinamento della manifestazione veneziana, giunta tardivamente, dopo decenni di accesi dibattiti e discussioni, continuò a generare polemiche e nuovi tentativi di modifica, già all’indomani della sua approvazione.
Tornando alla serie di conflittualità alla base del ritardo nel processo di riforma, al contrario di quanto avvenne a Milano e a Roma, nel caso della Biennale di Venezia, investita fin dagli albori di una fortissima componente identitaria a livello municipale, gli enti locali ebbero un ruolo particolarmente rilevante, tanto che già in periodo saloino fu avanzata la proposta di smantellare l’ente autonomo e ripristinare la gestione comunale. Un’ipotesi che rimase per lo più confinata in ristretti ambienti artistici, e che divenne via via sempre più anacronistica, pur essendo al centro della prima proposta di legge dedicata alla riorganizzazione della Biennale, presentata alla Camera nel 1957 dal deputato missino Filippo Anfuso. In questo senso, se è vero che i criteri adottati per la riorganizzazione degli enti nazionali di mostre d’arte adottati dal fascismo sul finire degli anni Trenta furono ispirati a un criterio di uniformità, i relativi provvedimenti legislativi finirono inevitabilmente per scontare effetti diversi a seconda del contesto di riferimento: ciò è particolarmente evidente nel caso veneziano, dove le istanze di autogoverno a livello locale furono una componente determinante. In realtà, più che alla soppressione dell’ente autonomo, Comune e Provincia miravano a riacquistare un più diretto controllo sulla manifestazione, che era stato loro tolto in seguito alla centralizzazione operata a seguito dell’approvazione dello statuto del 1938: il loro obiettivo consisteva essenzialmente nel garantire la Presidenza della Biennale al sindaco di Venezia, nonché la possibilità di designare i propri rappresentanti ex officio in seno agli organi direttivi. È importante sottolineare il fatto che l’opposizione a quelli che nel corso del tempo furono percepiti come veri e propri tentativi di “svenezianizzazione” da parte del governo centrale fu fatta propria dalle diverse amministrazioni che si succedettero alla guida del Comune e della Provincia, indipendentemente dal loro colore politico. La stessa DC locale prese più volte posizione contra Roma per rivendicare un controllo nella gestione di una rassegna che costituiva, ormai da decenni, un vanto cittadino, come testimoniano le parole di Rodolfo Pallucchini, storico segretario generale dell’ente:
“Fino alla caduta della Repubblica, il Doge, una volta all’anno, usciva con il Bucintoro fino a S. Nicolò di Lido per compiere il rito delle nozze con il mare. Nei tempi moderni il Capo dello Stato italiano, accompagnato dal Sindaco di Venezia, su una bissona di gala, scortata e seguita da uno stuolo di imbarcazioni pavesate a festa, ogni due anni percorre tutto il Canal Grande, entra nel bacino di S. Marco ed approda ai Giardini, per inaugurare la Biennale. […] Quelle nozze che una volta Venezia celebrava col mare, simbolo della sua potenza economica, dal 1895, ogni due anni (tranne le interruzioni belliche), Venezia le celebra con l’arte e con la cultura” <2.
La questione Biennale finì quindi per assumere, nello scontro Roma-Venezia, i connotati di una vera e propria contrapposizione tra istanze centraliste e volontà autonomistiche. Queste ultime, forti all’indomani della fine della guerra – tanto da sfiorare, in alcuni frangenti, il municipalismo – e legate a doppio filo col tema della “defascistizzazione”, culminarono nel convegno di Ca’ Loredan del 1957, per poi conoscere un vero e proprio ritorno di fiamma tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, sull’onda dell’avvento delle neonate Regioni.
Tra coloro che lamentavano un deficit di democrazia in seno agli enti espositivi c’erano anche gli artisti che, organizzati sindacalmente, si battevano per ottenere una rappresentanza in seno ai relativi Consigli di amministrazione. Le grandi rassegne nazionali rivestivano infatti un’importanza strategica per tener vivo un mercato dell’arte che tendeva a stagnare, offrendo una vetrina per il collezionismo privato ma anche la concreta possibilità di vedere le proprie opere acquistate dallo Stato. Si trattava, in questo caso, di far valere istanze di tipo corporativo che affondavano le loro radici nell’Italia prefascista e che il regime contribuì ad alimentare, facendo sì che transitassero pressoché intatte nel secondo dopoguerra. Tale fenomeno, almeno in relazione al sindacalismo artistico, rappresentò una peculiarità del contesto italiano se posto a paragone, ad esempio, con le realtà inglese o francese, dove peraltro, fin dai primi decenni del secolo, e in particolare nel periodo dell’entre-deux-guerres, si erano andati affermando modelli di policy su base associativa e consorziale. In effetti, l’esperimento corporativo fascista, che lo si consideri un bluff teso a nascondere il tentativo da parte dello «Stato-governo» di esercitare il proprio controllo sul movimento sindacale e operaio, o piuttosto un’occasione mancata di autogestione delle categorie produttive e di eliminazione del conflitto di classe – dandone perciò di volta in volta una lettura in chiave statalista, liberista o sindacale -, non mancò di lasciare tracce nel periodo successivo, in particolare nell’idea che la rappresentanza di interessi potesse trovare legittimo riconoscimento nell’ambito dei poteri pubblici <3. Detto questo, un panorama sindacale frammentato in una miriade di sigle e associazioni, spesso in contrapposizione tra loro anche sulla base di opposte tendenze artistiche, non rappresentò certamente un elemento di forza per la categoria, nonostante i ripetuti appelli all’unità del segretario generale della CGIL Giuseppe Di Vittorio e di Mario Penelope, a capo della Federazione Nazionale degli Artisti, afferente a quel medesimo sindacato: di fatto, due voces clamantis in deserto.
Infine, un ruolo fondamentale nel promuovere il processo di riforma lo ebbero intellettuali e uomini di cultura, i cosiddetti «tecnici-critici», che miravano a salvaguardare l’autonomia della manifestazione dai presunti tentativi di “provincializzazione” degli enti locali, dalla politicizzazione e burocratizzazione imposte dal governo, ma anche dai residui di una certa mentalità neo-corporativa propria degli ambienti sindacali, il cui difetto principale consisteva nell’anteporre i propri interessi di parte a interessi più generali, con la tendenza a respingere ai margini quello che potremmo definire il “consumatore” di cultura, ossia lo spettatore, rispetto alle esigenze dei cosiddetti “produttori”. La crisi delle grandi rassegne espositive fu non a torto percepita da molti intellettuali come il paradigma di una situazione più generale, che chiamava in causa, in maniera diretta ed esplicita, il problema rapporto tra cultura e politica: gli enti autonomi di mostre d’arte, come organi di cultura pubblica, avrebbero dovuto avere la stessa autonomia concessa alle accademie e alle università, così come sancito dall’art. 33 della Carta costituzionale, mentre di fatto rappresentavano uno dei settori in cui, dal punto di vista strutturale, il “tasso di continuità” rispetto al periodo fascista si era mantenuto più elevato. Anche questo fronte, lungi dall’essere compatto, conobbe al suo interno aspre contrapposizioni, a cui non furono estranee rivalità sul piano prettamente personale, oltre a differenti visioni sui contenuti e sui metodi della lotta.
Come si vedrà, le istanze promosse da enti locali, sindacati e fronte della cultura, fin qui brevemente riassunte, trovarono una cassa di risonanza, o per meglio dire una sponda politica in deputati e senatori, per lo più esponenti delle sinistre, che se ne fecero interpreti presso i rispettivi partiti, favorendo così il fisiologico approdo del pubblico dibattito nella sua sede “naturale”, ossia il Parlamento.
[NOTE]
1 L’icastica espressione è da attribuirsi a Carlo Ludovico Ragghianti ed è tratta dal dattiloscritto Pioggia di statuti per la Biennale di Venezia, conservato in FR, ACLR, Biennale di Venezia, b. 4, fasc. 3, che è la bozza dell’articolo, non firmato, uscito su «La Voce Repubblicana» del 23 ottobre 1960 (il ritaglio in ASAC, Fondo storico, Statuti e regolamenti, b. 10). Nella ormai vasta bibliografia sulla Biennale di Venezia, non vi sono al momento contributi specificamente dedicati al problema della riforma dello statuto a partire dal secondo dopoguerra: una sintetica cronistoria, che tocca anche gli aspetti istituzionali, è offerta da C. Rabitti, Gli eventi e gli uomini: breve storia di un’istituzione, in Venezia e La Biennale. I percorsi del gusto, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, 11 giugno – 15 ottobre 1995), Milano, Fabbri, 1995, pp. 26-38; riferimenti anche in S. Portinari, Anni settanta. La Biennale di Venezia, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 227-245 e M.V. Martini, La Biennale di Venezia 1968-1978. La rivoluzione incompiuta, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari Venezia, a.a. 2010-2011, pp. 1-6 e passim. Per una panoramica generale si vedano P. Rizzi, E. Di Martino, Storia della Biennale, 1895-1982, Milano, Electa, 1982; P. Budillon Puma, La Biennale di Venezia dalla guerra alla crisi, 1948-1968, Bari, Palomar, 1995; Le prime Biennali del dopoguerra. Il carteggio Longhi-Pallucchini, 1948-1956, a cura di M.C. Bandera, Milano, Charta, 1999; E. Di Martino, Storia della Biennale di Venezia, 1895-2003: arti visive, architettura, cinema, danza, musica, teatro, Venezia, Papiro Arte, 2003, trad. inglese The history of the Venice Biennale, 1895-2005: visual arts, architecture, cinema, dance, music, theatre, Venezia, Papiro Arte, 2005; Starting from Venice: studies on the Biennale, a cura di C. Ricci, Milano, Et al., 2010; F. Martini, V. Martini, Just another exhibition: storie e politiche delle biennali, Milano, Postmedia Books, 2011. Meritano una considerazione a parte i contributi di N. Jachec, Anti-communism at Home, Europeanism abroad: Italian Cultural Policy at the Venice Biennale, 1948-1958, in «Contemporary European History», 14, 2005, pp. 193-217; quindi ead., Politics and painting at the Venice Biennale (1948-1964). Italy and the Idea of Europe, Manchester, Manchester University Press, 2007, che offrono un’interpretazione della contrapposizione tra arte figurativa e astrazione sullo sfondo della guerra fredda traducibile secondo l’autrice sul piano della politica interna in uno scontro tra DC e PCI. Nell’ansia di ricondurre gli eventi a questo schema, per cui l’appoggio dato dai vertici della Biennale alle tendenze non figurative è spiegata in chiave di anticomunismo e filoamericanismo, Jachec finisce però per cadere in alcune forzature interpretative; al tempo stesso, restituisce la solita immagine di un’Italia divisa a metà, misconoscendo l’apporto, fecondissimo, di componenti non facilmente identificabili con l’uno o l’altro dei due schieramenti, peraltro molto meno compatti ideologicamente rispetto a quanto emerge da questi lavori, che pure hanno il merito di portare all’attenzione degli studiosi una messe notevole di documenti inediti conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato. Per il periodo dalla fondazione al secondo dopoguerra si veda J.A. May, La Biennale di Venezia. Kontinuität und Wandel in der venezianischen Austellungspolitik, 1895-1948, Berlin, Academie, 2009. Tra le fonti utilizzate per l’analisi della riforma dello statuto, si segnala la silloge Disegni di legge presentati al Parlamento per il nuovo Statuto de La Biennale, a cura della Commissione speciale nominata dal Consiglio comunale di Venezia nella seduta del 17 febbraio 1961 per lo studio delle proposte circa la riforma statutaria dell’Ente autonomo La Biennale, Venezia, Tip. Commerciale, 1961; quindi il volume di G. Di Genova, Periplo delle peripezie del cosiddetto ente autonomo La Biennale, Roma, Officina Edizioni, 1972, licenziato alla vigilia dell’approvazione della legge, il cui saggio introduttivo assume in alcuni momenti il tono del pamphlet. Utili anche le testimonianze di alcuni dei protagonisti dell’epoca: R. Bazzoni, 60 anni della Biennale, Venezia, Lombroso, 1962 e R. Pallucchini, Significato e valore della “Biennale” nella via artistica veneziana e italiana, in Venezia nell’unità d’Italia, atti delle giornate di studio (Venezia, Centro di Cultura e Civiltà della Fondazione Giorgio Cini, 13 maggio – 28 giugno 1961), Firenze, Sansoni, 1962, pp. 155-188, riedito con minime variazioni in Storia della civiltà veneziana, vol. III. Dall’età barocca all’Italia contemporanea, a cura di V. Branca, Firenze, Sansoni, 1979, pp. 387-402.
2 R. Pallucchini, Le Biennali Veneziane, testo dattiloscritto in ARP, Documentazione relativa alla Biennale di Venezia, b. 19, fasc. 5.
3 S. Cassese, Lo Stato fascista, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 123. Per una riflessione generale sullo Stato corporativo durante il Ventennio cfr. A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010; Il corporativismo nell’Italia di Mussolini. Dal declino delle istituzioni liberali alla Costituzione repubblicana, a cura di P. Barucci, P. Bini, L. Conigliello, Firenze, Firenze University Press, 2018.
Elisa Bassetto, Contro la “Biennale di Stato”. La riforma degli enti autonomi nazionali di mostre d’arte (1945-1973), Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2022

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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