«Racconti? Ma no! E dove ve li hanno pubblicati?» così chiedeva la protagonista della storia dal titolo La signora Romilda al giovane scrittore suo ospite. Il giovane scrittore era proprio Ennio Contini, l’autore di quel racconto e di molti altri, allora pubblicati sulla terza pagina di diversi quotidiani italiani e oggi raccolti per la prima volta in un unico volume per volontà della figlia Vittoria.
Negli anni che erano seguiti alla sua scarcerazione avvenuta alla fine del 1953, per procurarsi da vivere Ennio Contini si era dedicato alla scrittura di racconti che l’amico Garibaldo Marussi, attraverso la sua agenzia, inviava a diverse testate della penisola. I racconti di Contini erano stati infatti pubblicati, tra il 1954 e il 1957, su: il «Meridiano di Roma», la «Gazzetta di Parma», la «Gazzetta di Mantova», «L’unione sarda» di Cagliari, «Ultimissime» di Catania e «Il Piccolo sera» di Trieste. Ennio Contini, poeta ancora sconosciuto ai più, fino a questo momento aveva dato alle stampe due raccolte di poesie; Magnolia, nel 1939 presso la casa editrice Emiliano degli Orfini di Genova e L’Alleluja con Ezra Pound, nel 1952, per i tipi della Società Editrice Siciliana di Mazara. Negli anni ’50 il giovane poeta aveva appena finito di scontare la sua lunga reclusione per collaborazionismo: nel luglio del 1945 il tenente Ennio Contini era stato infatti condannato a morte – pena poi tramutata in ergastolo e infine a nove anni di reclusione – per delitti legati alla sua militanza nelle Brigate Nere ‘Francesco Briatore’ di Savona. Nel periodo seguito alla sua scarcerazione, per ritrovare se stesso e ricominciare a vivere, Contini si era trasferito in un piccolo paese dell’entroterra savonese dove si era dedicato alla stesura dei racconti e di molte poesie che poi verranno pubblicate nel 1962 dalla casa editrice Carpena con il titolo di Schegge d’anima, arricchite dalla prefazione di Adriano Grande. La recente ferita del carcere, che come lui stesso scrive «rimarrà per sempre uno dei miei fantasmi», una di quelle «zone d’ombra che mi trascino dietro», aveva lasciato nel giovane scrittore una forte urgenza di scrivere, di raccontare la propria esperienza e il proprio dolore. Si tratta di racconti brevi, essenziali, quasi dei trompe l’oeil narrativi che restituiscono al lettore scorci di vita vissuta. La matrice autobiografica, che è alla base di tutti i racconti, a volte è velata da nomi fittizi e luoghi di fantasia ma quella che traspare è la vita di Contini; lui stesso era solito ripetere che le sue parole erano «sentite, scritte con il sangue» e che nulla avevano di quella fredda composizione a tavolino che ravvisava in tanti altri scrittori. Dalla lettura di questi racconti emergono con chiarezza quelle che sono le tematiche care all’autore, alcune già trattate nelle raccolte di poesie pubblicate in precedenza, quali la solitudine, la speranza, l’amore per la madre e la dolorosa esperienza del carcere. Sono racconti alle volte amari, che descrivono un’umanità meschina e senza scrupoli – come quella incarnata dal secondino che nega una visita a due anziani genitori che non vedono il figlio da molti anni – alternati da slanci di amore incondizionato. La narrazione sembra estrapolata dalla linea del tempo, inizia e finisce perché l’autore ha deciso di farci conoscere quella data storia e quel dato personaggio. Noi non sappiamo chi siano i protagonisti e non ci viene spiegato, ma alla fine del racconto, anche se spaesati, entriamo in confidenza con il mondo dell’autore, con i suoi personaggi e con le sue storie. Quelli di Contini sono racconti di vita, in cui il lettore è immediatamente chiamato a farne parte, catapultato fin dall’inizio nel bel mezzo della narrazione.
«Uno steccato divideva il campicello di Boika dal mio. Era proprio un campicello»: siamo a Teheran, una Teheran arida e inospitale, asciutta come la terra che nutre I melograni di Boika. Contini, in questo racconto dà prova di una grande capacità narrativa ed evocativa, dove la vicenda autobiografica si cela dietro frasi che non lasciano dubbi: «scuoteva la testa per la tristezza della terra e per quella profonda della sua carne». L’incedere della narrazione, scandito da frasi brevi e dialoghi essenziali, richiama la siccità della terra e l’aridità dei rapporti umani. Qui Contini ricorda il Pavese della Luna e i falò e di «quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto». Ma Pavese si nasconde anche dietro un altro episodio, quello della morte di Saru – «Mi inseguiva ed è caduto […] e si è infilzato nella propria forca» – che riporta alla memoria l’episodio dell’uccisione di Gisella per mano di Talino armato di tridente in Paesi tuoi.
Come in un gioco beffardo del destino la siccità finirà, i melograni fioriranno e con loro i frutti, solo quando il sangue di Boika farà da nutrimento alla terra «e infine la felicità tornò in esse, e i frutti». Il racconto si conclude, come Contini è solito fare, con una frase secca, spesso accompagnata da una breve desrizione paesaggistica «non rispose e indicò la terra. Ritornando a casa, nel tramonto di fuoco».
Boogie-Woogie e Domenica in portineria sono due racconti autobiografici ambientati nel carcere di Civitavecchia dove Contini aveva scontato gli ultimi anni di reclusione. Ancora una volta il racconto parte in medias res e delimita un ben preciso avvenimento. Nel primo Contini racconta la reazione di un vecchio ergastolano alla notizia di un concerto di jazz, avvertito come un qualcosa di estraneo e di anomalo nella giornata dei condannati, scandita solamente dalle ore d’aria abituali. La vita, quella che si svolgeva al di fuori delle mura del carcere – e qui simboleggiata da un concerto inaspettato – entra con violenza nel cortile e porta scompiglio, apprensione e rabbia: «Dimmi un poco, scrivà, cos’è ‘sta romanne giazze bande?». Lo scontro tra Don Luigi che non conosce il jazz e il giovane Filosa, che lo sbeffeggia dicendo «Io ballo americano Don Luì», si trasforma, entro i confini della cella, in una rissa, scongiurata solamente dall’arrivo del secondino. Anche in questo caso il racconto, come sospeso, si conclude brevemente «nella polvere, là dove l’aveva abbandonato Filosa».
Intriso di nostalgia, il pensiero di Contini va alla sua casa lontana e basta il rumore di un treno per disturbare la sua Domenica in portineria: «strinsi le palpebre per non vederlo». Contini non vuole cedere al ricordo e non concede nulla all’immaginazione, la realtà torna subito viva e con lei, il racconto. In un pomeriggio assolato due visite interrompono – anche in questo caso – il ritmo piatto delle giornate trascorse in carcere e fanno emergere la natura più misera dell’essere umano. Il secondino, descritto come «un gallo messicano», eccessivamente ligio al dovere, nega a due anziani genitori la visita al figlio, che non vedevano da cinque anni dopo aver fatto «ore di mulattiera e poi ore sul fuligginoso trenino a scartamento ridotto». Domenica in portineria è un racconto giocato in modo speculare su due visite negate a due detenuti differenti. L’amante di Labiase e i genitori di Politano intrecciano le loro storie in un gioco di specchi di cui solo Contini conosce la verità. Amara, e taciuta.
Quando nel 1956 Contini pubblica su «Il Corriere della Liguria» il racconto Due chiacchiere mai avrebbe immaginato di ricevere, poco tempo dopo, la minaccia di una querela:
Caro Contini,
il suo elzeviro Due Chiacchiere da noi pubblicato il 10 aprile ci sta procurando dei guai. Il proprietario dell’alberghetto Rosa Fiorita ritiene di individuare chiaramente il suo locale in quello da Lei descritto, e adesso, per mezzo del suo legale, minaccia una querela. […] La prego […] di non prendere nessuna iniziativa personale relativa alla vertenza in corso, in attesa di mie comunicazioni.
Cordiali Saluti
Giannino Marescalchi.
Il caso era nato da una frase che nel racconto il proprietario del Nazionale aveva pronunciato nei confronti del Bellavista: «Ci rispettiamo, insomma. Ma, detto tra noi, la gente preferisce il mio albergo. È più pulito». Senza alcuna indicazione geografica precisa l’incontro tra un frettoloso viaggiatore e il gestore dell’albergo Nazionale era avvenuto in una piazzetta, dove sorgeva anche un altro albergo, il Bellavista. Forse per un lettore valbormidese che poteva conoscere Contini, era ovvio pensare che la piazzetta in questione si trovasse a Carcare, nell’entroterra di Savona, dove ancora oggi, uno di fronte all’altro, esistono i due locali in questione. E così doveva aver pensato il gestore del Rosa Fiorita, riconoscendo nel racconto la propria attività. Due chiacchiere è un racconto fugace, fatto di battute brevi e di circostanza – così come avviene nella realtà tra un avventore e un gestore. Il discorso si eleva solo quando il frettoloso cliente (dietro cui si cela Contini) inizia a parlare di pittura e dell’amico maestro Edo Paluzzi, in realtà il pittore Eso Peluzzi. Ma dura poco, giusto il tempo dell’arrivo della corriera.
Accomunati dalla somiglianza del titolo e dalla stessa ambientazione Il fiume rosso e Vino rosso costituiscono un preludio al racconto più lungo raccolto nella presente edizione, Non c’è posto quaggiù, dove i protagonisti sono tre fascisti condannati a morte in attesa della fucilazione. I racconti sono due tranche de vie in cui il lettore si ritrova, suo malgrado, a vivere a fianco di Paolo, Marcello e del narratore. Il fiume rosso è una dissertazione sull’immortalità dell’anima (suggerita a Contini dalla lettura dei Pensieri di Pascal) unica ancora di salvezza in una condizione senza via d’uscita: «Oh, ma non capisci che, se sparano, essi uccideranno solo la carne e l’anima continuerà a vivere?». Ma all’immortalità dell’anima Contini contrappone un più terreno «fiume rosso di sangue» come consolazione di fronte alla morte: «Dopo di me vi saranno i figli dei miei fratelli, sangue del mio sangue… Quella magnifica illusione». La dicotomia tra spiritualità e bisogno di un contatto con aspetti più concreti ha sempre caratterizzato anche la ricerca poetica di Contini, in bilico tra sacro e profano, tra luce e oscurità, tra innocenza e peccato. In Vino rosso i protagonisti sono gli stessi de Il fiume rosso ma i nomi, in questo caso, sono scritti alla francese e i partigiani diventano maquis. Ancora una volta il lettore è chiamato subito in causa, ad ascoltare e osservare. Il dialogo dei tre condannati a morte è interrotto dall’arrivo di alcuni maquis che incutono terrore: ad ogni passo, ad ogni movimento i reclusi credono che sia giunto per loro il momento di morire. Solo l’illusione di un fiasco di vino rosso riesce a spezzare la tensione, che si allenta, e che lascia riprendere la conversazione là dove si era interrotta.
L’esperienza del carcere, lunga e dolorosa, ha bisogno di emergere, di essere scritta, condivisa. Anche Don Luigi o’ finfere e Morte di Adamo sono racconti legati agli anni di reclusione, intorno ai quali Contini riesce a costruire episodi e personaggi memorabili. Il vecchio ergastolano Don Luigi, detto o’ finfere per via della sua eleganza e già incontrato in Boogie-Woogie, è destinato a rimanere impresso nella mente del lettore così come Adamo «anche se non si chiamava Adamo. Il suo era un nome qualunque: Salvatore forse, oppure Antonio, Pietro». Ma Contini sceglie Adamo perché Adamo è stato il primo uomo e la morte di Adamo simboleggia quella di ognuno di noi. Non si può rimanere indiffirenti di fronte alla morte, chimera di ogni essere umano, anche se, per dirla con Céline «è il nascere che non ci voleva».
Nell’anno seguente alla scarcerazione, nel 1954, per paura di dover tornare in carcere, Ennio Contini si era rifugiato, grazie al fratello Manlio, a Millesimo, un paese dell’entroterra savonese. La signora Romilda è il racconto sincero di Contini ormai libero ma costretto ancora a nascondersi ospite della protagonista del racconto. La signora Romilda, una donna che «amministrava bene i suoi settantacinque anni» e che vedeva di cattivo occhio i letterati perché carmina non dant panem. Alle prese con lavoretti saltuari per guadagnarsi da vivere e con il poco cibo che la famiglia gli spediva Contini conosce però in questo periodo quello che sarà l’amore della sua vita, Maria: «Bella come una regina. No, non bella come una regina, ma come un angelo». Nel matrimonio, nella famiglia e nella nascita delle due figlie Contini troverà finalmente pace e rinnovato slancio e dal dolore saprà trarre nuova ispirazione.
La figura della madre, che ha accompagnato Contini per tutta la sua produzione letteraria emerge con forza dal racconto L’ultima infanzia che narra del commovente ritorno a casa di un figlio dopo nove anni di assenza. L’illusione di potersi «riallacciare là dove s’era interrotta la sua giovinezza» svanisce subito a contatto con la realtà: nulla è più uguale a prima «anche la casa era diversa; anche la voce di sua madre». Il tempo sembra aver cancellato tutto, disperso la memoria e svanito ogni cosa. Ma l’iniziale soggezione, l’imbarazzo e la tristezza vengono spazzati via di un colpo. Una vecchia usanza – quella della vigilia di Natale, una calza sul comodino ricolma di caramelle, mandarini «e sul fondo una banconota da cinquemila» – porta Contini a rivivere, intensa ed effimera, la sua ultima infanzia.
E proprio l’infanzia fa da filo conduttore tra questo raccontoe l’inedito Il lungo giorno di Natale, quasi una favola dal sapore buzzatiano e dall’atmosfera onirica e straniata. Una famiglia affacendata nei preparativi del presepe, un padre – Contini – ancora bambino che insieme alle figlie rivive la magia del Natale («Che cosa hanno i miei bambini, oggi? Nei “suoi bambini” sono incluso anch’io, seppure i capelli canuti abbiano già cominciato a disperdersi con le foglie del bosco») e una moglie, che è anche, e soprattutto, madre: «tranquilla. È la più forte di noi tutti». La felicità familiare ha però un lugubre metro di paragone: «quasi che la nostra felicità venisse misurata sul metro della morte» scrive Contini, e a parlare forse sono i suoi fantasmi interiori.
Ad un certo punto una presenza misteriosa li sorprende e le statue del presepe iniziano a parlare, «starnazzano le pollastre» e «cigola la ruota del mulino». Dal principio solo Contini sembra udirle ma poi capisce che anche le bambine le stanno ascoltando: «compresi che non ero più solo a partecipare al mistero». Come nei racconti di Buzzati, anche qui il mistero scaturisce da un episodio della quotidianità che all’improvviso si trasforma in qualcosa di surreale, di fantastico. Ma di quale mistero si tratta? Spetta a Maria, alla figura materna, riportare il fantastico entro limiti reali, spiegarlo e renderlo possibile come un prodigio dell’amore: «È l’amore» – disse allora mia moglie – «che vi ha fatto udire le voci. Anch’io, del resto, le ho udite. Ed è del tutto naturale, ripeto». L’amore, l’unica insondabile verità.
Non c’è posto quaggiù, il racconto più lungo di Contini, inedito e dedicato alla madre era stato ispirato all’autore dalla sua reclusione nella cella dei condannati a morte. Dal suo arresto, avvenuto nel luglio del 1945, alla conversione della pena in ergastolo nel 1947, Contini aspettava di essere fucilato. L’attesa della morte, più che la paura, logora la mente dei reclusi. I protagonisti della narrazione sono tre fascisti, catturati dai partigiani, processati e condannati alla pena capitale. Enrico Biddau (psuedononimo dell’autore), Marcello Caviglia e Paolo Zangani (nome fittizio dietro cui si cela Romeo Zambianchi, tristemente noto per le vicende legate al “boia di Albenga”, Luciano Luberti) sono chiusi in una «cella di punizione» in cui «in due ci si stava piuttosto stretti» e incrociano i loro destini tra le mura di un carcere. Scritto tra il 1947 e il 1950 – come si apprende dal dattiloscritto ritrovato nell’archivio privato del poeta – il racconto sembra essere il rovescio della medaglia del ben più famoso Il muro, pubblicato da Jean-Paul Sartre nel 1939 in Francia e tradotto nel 1947 in Italia da Giulio Einaudi. In Sartre i condannati a morte erano tre antifascisti, oppositori del regime totalitario franchista durante la guerra civile spagnola; in Contini invece i tre reclusi sono fascisti, ultimi rappresentanti di un regime dittatoriale ormai caduto. Per ironia della sorte anche un personaggio di Contini, Paolo, ha lo stesso nome del protagonista de Il muro, Pablo Ibbieta. Vista da due prospettive poste agli antipodi la morte è la stessa, e uguale la riflessione sulla vita. Scrive Sartre: «qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta che si è perduto l’illusione d’essere eterni. Non temevo più niente»; e Contini dopo la fucilazione di Paolo afferma: «Ormai non lo temevo più… […] Che però non è facile dimenticare, anche se si sarà costretti a vivere…». L’inevitabilità della morte, promessa non mantenuta per i due protagonisti Enrico e Pablo toccherà invece – e anche in questo caso le affinità tra i due racconti sono evidenti – a uno dei loro compagni: è la morte la vera protagonista, che aleggia per tutta la narrazione e dalla quale rinasce la vita. Enrico, come Pablo, riflette sull’insensatezza dell’esistenza ed è proprio in quel momento che, istintivamente, continua ad aggrapparsi alla vita: «Ed in quel punto, io ero solo contento di rimanere e di vivere».
Amore, mistero, morte e rinascita si alternano nei racconti di Ennio Contini, accomunati da una matrice comune che è la vita vissuta. L’amore – per la madre, per la vita, per la letteratura – e la morte, declinata in tutte le sue espressioni, sono i due poli entro i quali si muove il Contini narratore, in bilico tra disperazione e speranza. Brevi testi, estrapolati dal tempo e dall’esistenza, senza intento moralistico se non quello di mostrare la natura dell’uomo per come si presenta, in condizioni alle volte disperate. La fucilazione di Paolo e la bellezza di Maria sono lì per ricordarci che la felicità, anche se «misurata sul metro della morte», esiste, nascosta tra l’eco di un treno che passa e un fiasco di vino rosso solo immaginato. Tra echi e richiami letterari lo stile continiano trova una sua originale espressione nell’esperienza dell’uomo che non può non trasformarsi in parola, in frase, in poesia. In “racconti sospesi”.
Francesca Bergadano, «Il pensiero s’è confuso col sogno». I racconti “sospesi” di Ennio Contini. Ennio Contini, Racconti, Genova, De Ferrari, 2016. Letteratura Italiana Del Novecento. Postfazione al volume di Racconti di Ennio Contini, Genova, De Ferrari, 2016