Perché “Il garofano rosso” di Vittorini è un romanzo giovanile (involontario)

Nella prefazione alla prima edizione in volume del Garofano rosso, nel ’48, Vittorini riconosce come, in seguito al cambiamento che ha coinvolto la sua ispirazione stilistica, il romanzo «gli diventava ad un tratto composito, intermittente, discontinuo; gli diventava giovanile…» <48. L’autore non è più in grado di scrivere, dice, «guardando all’indietro» <49. In effetti, il Garofano è disorganico: alterna parti narrative a parti diaristiche ed epistolari, al punto di vista dominante del protagonista Alessio Mainardi si affianca quello dell’amico Tarquinio, in alcune sue lettere. Anche a livello tematico, lo spettro è ricco: amore, amicizia, politica (nell’impasto confuso tra comunismo e fascismo), violenza; rapporti familiari, sesso, morte.
L’essenza giovanile del Garofano riguarda lo scarso controllo stilistico, a detta dell’autore, nonché, in generale, i contenuti della vicenda: il romanzo racconta la storia di un giovane liceale acceso dai vapori rivoluzionari del fascismo squadrista, impreparato in amore, però innamorato, legato al migliore amico Tarquinio (nei confronti del quale ammirazione, invidia e affetto si alternano e confondono), accecato infine dalla bellezza di Zobeida, donna di malaffare investita di fascino esotico e potere esoterico.
Dunque, da un lato, il primo romanzo di Vittorini propone un’idea “sana” di giovinezza: confusa, vivace, intensa, illusa, romantica. Proietta senz’altro uno «scenario da libri d’avventura adolescenziali percorso da figurine di giovanile irruenza» <50. Il finale, inoltre, è aperto e ottimista. Alessio ritrova infatti il suo «grande amico», e le ultime parole di Tarquinio marcano la confidenza ritrovata, delineando nuove possibili intese:
“Ma Tarquinio mi condusse via sottobraccio. «Andiamo!» diceva. «Non devi dispiacerti se sono così con Giovanna. Dopotutto tu l’avevi solo baciata. Non hai avuto quell’altra tu? Forse non è vero che non ti importa nulla di quell’altra»”. <51
Potrebbe essere la versione diversa, opposta, del finale flaubertiano de L’educazione sentimentale. Due amici che, congedando le vecchie avventure, guardano al futuro prossimo, in un percorso di crescita che non è completato ma, almeno sembra, ottimisticamente avviato. D’altronde, a differenza di Frédéric e Deslauriers, Alessio e Tarquinio sono ancora giovani e hanno già avuto Zobeida; i personaggi flaubertiani, invece, sono adulti disillusi, ricordano il momento in cui sognarono di possedere la turca Zoraïde, e il modo in cui tutto si risolse in fuga e imbarazzo. Il ricordo nostalgico segna l’ultima, definitiva negazione di una felicità partecipata, e l’episodio, trasfigurato nella memoria, rimane «la cosa più bella che c’è toccata» <52. In linea con quanto detto fino ad ora circa le Bildung degli anni Trenta, Il garofano rosso potrebbe allora fornire un’eccezione. Così, in realtà, non è. Non totalmente almeno.
La rappresentazione della giovinezza dal modernismo in poi tende a trasmutare la condizione fisiologica e transitoria del giovane in stato esistenziale perenne. È il caso, in Italia, di Federigo Tozzi e dei suoi personaggi incapaci di crescere, vincere le figure opprimenti dei padri, sordi alle responsabilità, passivi alle occasioni della vita. La figura dell’inetto, quindi, presenta spesso i tratti del giovane-vecchio. Questa tendenza attecchisce nelle rappresentazioni degli anni Trenta, come si noterà in seguito, affiancandosi ad altre soluzioni narrative. A questo proposito si pensi, ad esempio, a un testo che eccede i confini cronologici cui abbiamo scelto di aderire (anche se di pochissimo, perché è pubblicato nel ’44 ma scritto nel ’42), ossia Agostino di Moravia. Il protagonista tredicenne affronta quelli che Gadda definì «tre drammi in uno» <53, interni alla più ampia scoperta del sesso: l’esistenza della madre come donna e la perturbante curiosità di riscoprirla in quanto tale; «la rivalità-sodalità con i maschi coetanei, nella quale è occluso uno spirito di emulazione-simpatia» <54, l’incontro con la perversione altrui (la pedofilia di Saro). Ciò che il romanzo realizza nettamente, inoltre, è il senso di stallo entro il quale Agostino si trova, dal momento che l’iniziazione non accenna a concludersi. Si veda il finale del libro:
“«Tu mi tratti sempre come un bambino» disse ad un tratto Agostino, non sapeva neppur lui perché. La madre rise e gli accarezzò una guancia. «Ebbene, d’ora in poi ti tratterò come un uomo… va bene così? e ora dormi… è molto tardi.» Ella si chinò e lo baciò. Spense il lume, Agostino la sentì coricarsi nel letto. Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse.” <55
Le ultime battute sono del narratore, che chiosa il pensiero del protagonista. Il «molto tempo infelice» è quello dell’adolescenza, cui corrisponde la lunga fase che Gadda definisce «narcissica» <56, imperniata sulla proiezione egotica che il giovane esercita sul mondo. È l’età, cioè, in cui risulta difficilissimo proiettarsi al di fuori di sé, in un movimento empatico in base al quale distanziare e oggettivare l’esperienza personale. È per questo motivo che i drammi adolescenziali acquisiscono, tendenzialmente, un’estensione irreale e angosciante. Quindi, il narratore di Agostino sa che il lasso di tempo cui il protagonista va incontro – che, in proporzione all’incidenza cronologica, è in realtà breve – risulterà «molto», nonché «infelice» <57.
Anche La confessione di Mario Soldati, scritto nel ’35, presenta modi e contenuti simili: Clemente è un giovane e diligente scolaro; frequenta un istituito di Gesuiti e progetta di unirsi all’ordine. La vocazione serve a giustificare l’impaccio di fronte al mondo del sesso e del femminile; porta fino in fondo il suo rifiuto – che è in realtà imbarazzo e inettitudine – e riesce infine a superarlo nel rapporto con Luisito, perché, come dice l’amico, «non facciamo mica niente di male, sai. Fra di noi ragassi non è male» <58.
Il finale del romanzo, in un punto, arriva addirittura a coincidere con la chiusa di Agostino. La nonna, rivolta al nipote Clemente, afferma infatti: «Adesso puoi giocare e divertirti […] L’estate è tanto lunga ancora» <59. L’accento è quindi posto sulla durata di un’età transitoria. Nel romanzo di Soldati il messaggio è affidato al punto di vista inconsapevole della nonna, carico d’ironia nella misura in cui il lettore sa quanta poca innocenza (così come viene intesa dalla donna) conterrà il tempo successivo. D’altro canto, però, così come accade al personaggio moraviano, l’incomprensione si prolunga; e nonostante alla fine «la vita era chiara, la vita era bella» <60, Clemente è consapevole di vivere nell’illusione di «una truffa alla propria coscienza» <61.
In generale, il punto di vista esterno e ulteriore segnala, ma non risolve, la consistenza problematica dello spazio giovanile; spazio che, così rappresentato (in particolare nei finali), non suggerisce in alcun modo il passaggio continuativo con l’età successiva, cioè la maturità, insieme con la risoluzione dell’impasse esistenziale entro la quale i protagonisti stallano <62. Questa tipologia di racconto giovanile, quindi, riguarda giovinezze di tipo anagrafico (i protagonisti sono adolescenti), caricate però di questioni che, in quanto invalicabili, prolungano le impasse esistenziali di un’età – che dovrebbe essere – transitoria.
Si aggiunga che in Agostino e ne La confessione lo statuto eterodiegetico del racconto non esclude la partecipazione o l’adesione al punto di vista dei personaggi, senza che l’intervento del narratore risolva tuttavia la carica problematica della loro condizione. In ogni caso, è sufficiente che la voce narrante occupi una posizione ulteriore (che si esplicita negli interventi di carattere onnisciente <63, o nell’astrazione del discorso <64), affinché il lettore percepisca lo spazio di maturità – ossia l’incidenza di un livello conoscitivo più alto – a partire dal quale il racconto è condotto. Per questo motivo, tra l’esperienza del personaggio e l’esperienza che il lettore fa della storia resiste uno scarto di tipo interpretativo a vantaggio di chi legge, che si trova in empatia conoscitiva col narratore.
I due romanzi inscenano dunque formazioni mancate, o rimandate, e raccontano una storia giovanile in virtù di un discorso che giovanile non è. Nel Garofano rosso, invece, le configurazioni di storia e racconto coincidono. Il protagonista, infatti, riporta in prima persona la sua storia, e lo scarto prospettico tra personaggio e narratore viene meno. Quest’aspetto riguarda la caratterizzazione espressiva dell’istanza narrativa. Come già per Delia ne La strada che va in città, il protagonista del Garofano ha uno stile tutto suo, ingenuamente lirico, romantico, a tratti irriverente e retorico. Si veda, ad esempio:
“Crescevo così, ed ero in grembiule, aspettando un giorno in cui avrei potuto staccare quel fucile dal muro e sparare fuori dalla finestra su qualcuno. […] Sognavo zolfo, zolfo, e gialla polvere da sparo sulle mie mani”. <65
Alessio sogna l’iniziazione alla violenza con indole lirica e ispirazione futurista. Il linguaggio cerca poi il simbolo, intorno al quale il protagonista tenta d’inverare e trasformare i suoi gesti:
“E in quel punto preciso oltre tetti e tetti, c’era l’amore di Giovanna: nell’immenso mondo di sole. […] e sarebbe bastato esserci, in quel punto, starci quieto, calmo, abbracciandomi le ginocchia, per sentirmi d’un tratto felice. “La cava” era qualcosa di simile… Una rimessa di felicità. E quand’ero bambino, nella casa di campagna dello zio, avevo un mio posto speciale”. <66
In questo caso Alessio traccia una linea di continuità spirituale lungo il corso della sua vita. Giovanna, “la cava” (ossia il luogo in cui era solito incontrarsi con gli amici e parlare di politica), il nascondiglio dell’infanzia sono i punti in virtù dei quali si configura uno spazio più ampio, trasversale al tempo e all’immaginazione.
Il lato prettamente lirico del discorso di Alessio tende poi a coagularsi intorno a un nucleo di idee, che tornano e si scambiano, ma non vengono mai specificate. Si tratta delle idee d’intenso, di bene e di verità. La prima volta che il protagonista vede Zobeida, nota:
“C’era qualcosa di intenso e di diverso della solita cosa che si poteva ottenere da una donna. […] Il suo contatto, risvegliando in me il pensiero dell’intenso, aveva anche acceso questa certezza in me, che lei poteva darlo. E come ora sapevo che si poteva averla, lei che poteva darlo, credevo necessario come una salvezza andare e ottenerlo”. <67
Successivamente la donna diventa «un senso di spiaggia» che ritirandosi e negandosi impedisce ad Alessio «dire il bene che aveva sentito di gridare» <68. Il controllo di Zobeida viene quindi ricondotto al terzo termine: «Essa si ritraeva con selvaggio pudore al minimo contatto con delle cose vere. Voleva restarsene fuori del tutto, dalla verità» <69.
La triade – intenso bene verità – rappresenta lo spazio astratto entro il quale Alessio finisce per sovrapporre e alternare Tarquinio, Giovanna e Zobeida. L’operazione sintetica fallisce; si misura in tal modo l’inadeguatezza dello sforzo poetico di Alessio nei confronti della realtà: Giovanna è a tal punto idealizzata da divergere totalmente dalla persona reale, Tarquinio, nel tempo che il protagonista trascorre nella casa d’infanzia, «diventa grande», mentre Zobeida è infine arrestata per spaccio di droga.
La vicenda di Alessio è continuamente orchestrata sulla base di un dato lirico che stride col suo oggetto. Si registra insomma l’affettazione del discorso, il quale, entro certi limiti, è ancora autorevole; ma è sufficiente l’inserto dialogico, un’ingenuità non controllata o l’interferenza di un punto di vista diverso da quello del protagonista perché si percepisca in modo netto l’inadeguatezza delle sovradeterminazioni simbolico-liriche. Si veda il passo seguente, in cui Alessio ripensa alla confessione di Zobeida, la quale è «più di quello che [egli] crede»:
“A questo sorridevo di sapere che potevo rispondere: “ma sono anch’io una specie di ladro… Quella rivoltella che ho seppellito non era mia. E sono anch’io una specie di assassino. Meditavo un assassinio quando ero ragazzo, e una volta ho quasi ammazzato il Rana”.” <70
L’accostamento è ingenuo, tradisce gli intendimenti infantili, sostanzialmente immaturi di Alessio. Nel tentativo di spacciarsi per adulto, il protagonista finisce dunque col confermare il suo essere ragazzo. In un’altra occasione, raccontando l’occupazione notturna della scuola, scrive nel suo diario: «Mi credevo il Pirata delle Filippine alla Riscossa, altro che scolaro; e che ci fosse stata una nostra flotta schierata nei mari attorno in linea di fuoco» <71.
Lo scarto diventa evidente quando Zobeida riceve una lettera, scritta dal capo di un gruppo (il protagonista dice «una Massoneria») intenzionato a recuperare il garofano rosso di Alessio. Lo scimmiottamento è chiaro agli occhi della donna, che dopo aver letto la missiva «corrucciata», la passa ad Alessio «ridendo» <72. Il giovane, all’opposto serio e «furente», non capisce come mai lei sembri «piuttosto divertita della lettera e del suo furore».73
Qualcosa di simile accade in relazione all’amico Tarquinio, nel momento in cui egli diventa grande, ossia adulto. Il cambiamento <74 non è compreso dal protagonista, che può averne solo una visione negativa: può dire ciò che il compagno ha smesso di essere, senza capire cosa è diventato e perché («Ecco: Tarquinio non era più un ragazzo» <75).
È in questa direzione che il punto di vista omodiegetico della narrazione vincola il discorso a una prospettiva giovanile, ossia ingenuamente lirica, inconsapevole e infantile, saldamente egotica («Ma è certo che un respiro profondo mi occupa tutto, e sono come un gallo che sta per cantare, se mi dico: IO») <76. Si noti anche, a quest’ultimo proposito, con che spirito Alessio chiede a Zobeida di raccontargli la sua storia: «Lei dovette capirlo che non cercavo spiegazioni della sua vita ma una fiaba con lei dentro per principessa o per schiava» <77.
In altre parole, tutto ciò che il protagonista fa o si aspetta è motivato dalla volontà di confermare sé stesso nel mondo traducendo in tal modo il desiderio, speculare, che il mondo si rifletta in lui. È il frutto di una tensione prettamente giovanile, cui si è accennato, che mira ad assolutizzare lo spazio esperienziale. Quindi, nel caso del Garofano rosso e del suo protagonista, la tensione è rappresentata dalla volontà di raccontarsi in un determinato modo. La giusta narrazione – come quella che Alessio vuole sentire da Zobeida – ha infatti il potere di aumentare la realtà, innestandovi un valore senza il quale tutto risulterebbe banale.
Per questo motivo Alessio non comprende come mai Tarquinio abbia lasciato il convitto («È possibile che te ne sia andato così, per nulla proprio?»78): il passaggio dalla giovinezza all’età adulta – così l’amico giustifica il cambiamento («Sai che ho diciannove anni? Un giorno o l’altro dovevo pur cambiare» <79) – comporta nessi che non rientrano più nel tipo di narrazione che il protagonista fa di sé e della propria vita. Il cambiamento, quando è doveroso e necessario, scardina dunque le connessioni che Alessio s’impegna ad allacciare in via lirica e simbolica. Si tratta di connessioni significanti, narrative in senso lato: ogni gesto, cioè, è giustificato nella misura in cui vivifica il senso complessivo del racconto. In altre parole, è necessitato dalla sua giustificazione: l’amore innocente per Giovanna è adempiuto in quello per Zobeida, in occasione del quale Alessio misura e comprende il valore del primo; entrambi sono poi avvalorati dall’influenza di Tarquinio, che è insieme, continuamente, punto di partenza (come modello-rivale) e punto di arrivo (in quanto conferma e specchio di sé).
Questo schema è destinato a fallire. Alessio, alla fine del romanzo, afferma infatti: «Mi sono così affannato a dirle il bene. E ora è come se non mi importi nulla e la questione sia altrove». Tarquinio chiosa: «è vita, questo», ma il protagonista non è ancora pronto a credergli (si sentì «confuso, com’egli fosse in estraneo» <80); non è cioè pronto ad accettare la casualità de-liricizzata della vita dei grandi.
L’esito fallimentare della formazione di Alessio (similmente avviene ne La confessione e in Agostino) implica la collocazione del suo compimento, che corrisponde alla conquista della maturità, in uno spazio successivo e inattingibile. Il fallimento, quindi, è condizione necessaria alla giovinezza di Alessio, poiché quest’ultima funziona esclusivamente nei circuiti di una ricerca: finché reggono «speranza» e «confusione» – perché il protagonista è confuso dalle spiegazioni di Tarquinio, e tuttavia si sente «pieno di speranza» <81 – allora si è giovani; dopo di che, quando si smette di cercare un senso unico e globale (che attraversi amore politica e amicizia), subentra il mondo dei grandi, che è giustificato dalla sua necessità e non viceversa («dovevo pur cambiare», dice Tarquinio).
Nel Garofano rosso, il racconto della giovinezza si basa sullo sforzo di replicare, sulla base delle proprie regole interne, un nucleo fisso di senso. Anche in questo caso, come per Erica e i suoi fratelli, si può parlare di falso movimento. Non più per l’andamento regressivo, bensì per l’immobilità dei componenti: tutta la vicenda, insieme con le sovrapposizioni semantico-simboliche (Tarquinio-Giovanna-Zobeida, cava-campo <82-camera di Zobeida, bene-intenso-verità) finisce per confermare il fatto che Alessio è e rimarrà «il ragazzo che era stato amico di Tarquinio e che voleva bene Giovanna» <83 (ossia, appunto, un «ragazzo»). Emblema della chiusura del cerchio, che porta a completa significazione lo spazio del passato e del presente, senza tuttavia illuminare un futuro di crescita, è la figura della Madonna a cavallo: Alessio ricorda vagamente di averla vista raffigurata da bambino, ad una festa di paese che non riesce più a collocare nel tempo e nello spazio; la ritrova nell’amante, che diviene così la proiezione concreta di una memoria infantile. La connessione non sblocca nulla: uscito dalla stanza di Zobeida, il protagonista ripiomba nella routine liceale; ascoltando il progetto di un ragazzo sconosciuto sulla possibilità di scrivere un velleitario (dal piglio infantile e dittatoriale <84) «Codice d’Amore» <85, sente che gli argomenti «rispondevano bene o male a una sua confusa esigenza, e l’atteggiamento di Tarquinio [da uomo adulto], la sua muta disapprovazione […] gli riuscivano antipatici» <86.
La vicenda del Garofano rosso esemplifica dunque la tendenza letteraria a dilatare in forma limbale e con valenza esistenziale la rappresentazione della giovinezza anagrafica. Alessio, come Agostino e Clemente, rimane «nell’opaco impaccio di questa sgraziata età di transizione» <87, a metà tra l’«orrore di tornare ad essere bimbo» e l’impazienza «di diventare grande del tutto» <88.
L’effetto di assolutizzazione prospettica e la coincidenza tra mondo raccontato e modi del racconto derivano dall’impostazione omo- e autodiegetica del racconto; è sulla base di quest’elemento che la narrazione del romanzo di Vittorini differisce dalle altre (La confessione di Soldati e Agostino di Moravia), per le quali, si ripete, si può parlare di contenuto giovanile ma non di modi (narrativi, espressivi e rappresentativi) giovanili.
C’è un ulteriore livello testuale entro il quale l’adesione mondo-modo si rinsalda, in accordo all’impostazione autodiegetica del romanzo. Si è già parlato di meccanismi narrativi a proposito dell’inclinazione, da parte del protagonista, a ricondurre la sua esperienza a una rete di connessioni pensate e intese come necessarie, quindi significanti. Si aggiunge un altro aspetto, ossia che Alessio Mainardi sceglie sempre i modi letterari del racconto tradizionale, lineare e condotto al passato. In che modo quest’aspetto si coniuga con la resa giovanile del racconto?
Il romanzo inizia con una segnalazione: «Avevo sedici anni, quasi diciassette; mi piaceva ormai fare il “grande” e stare coi grandi veri, tutti dai diciotto in su»89. Pare quindi che la voce del protagonista si collochi ad una certa distanza dai fatti narrati; il giudizio retrospettivo sul “fare il grande” sembra inoltre marcare un più sottile grado di consapevolezza da parte di Alessio-narratore nei confronti di Alessio-personaggio. Poco più avanti il protagonista informa: «Erano i tempi dell’affare Matteotti», quindi giugno 1924.
I capitoli I, II, III, IV e V coprono i fatti che avvengono tra il maggio e il giugno del ’24, periodo relativamente breve dopo il quale il protagonista torna in campagna, dalla famiglia, in occasione delle vacanze estive. I capitoli VI e V riguardano i giorni durante i quali Alessio occupa la scuola con gli amici della cava.
Entrambi i capitoli hanno impostazione diaristica: si tratta del «diario di Mainardi», prosieguo del già «Diario di uno stratega», che, come nota Alessio, «erano due anni che non lo tirava fuori e non ci scriveva più nulla» <90. Gli avvenimenti del ’22 son ricondotti ad una giovinezza lontana, iniziatica, in cui Alessio apprende dagli amici più grandi i dettami di un fascismo confusamente rivoluzionario, in cui Rosa Luxemburg e la Marcia su Roma convivono nell’idea di un movimento che «deve essere qualcosa di più e di meglio di un comunismo e non qualcosa di meno del liberalismo»91. I fatti del ’22 vengono quindi percepiti dal protagonista come fondativi di un’esperienza che fa già parte della storia, nazionale e personale <92. I capitoli successivi, VI, VII, VIII, riguardano il periodo trascorso in famiglia. Gli ultimi, dal IX al XV, coprono il segmento che va dalla fine dell’estate (quindi dal rientro in città) all’inizio dell’autunno e, in particolare, raccontano l’avventura con Zobeida.
Si registra la tendenza, da parte di Alessio-personaggio, a dilatare il tessuto cronologico della vicenda: «Meditavo un assassinio da ragazzo, e una volta ho quasi ammazzato il Rana» <93, afferma il protagonista per riferirsi ad avvenimenti che precedono appena di qualche mese la sua confessione a Zobeida. Per quanto riguarda, invece, la prospettiva del protagonista-narratore, si registra un’ostentata difficoltà a collocare in modo preciso, nel tempo e nella memoria, i fatti: «C’era un gran caldo, sebbene fosse solo maggio, o giugno» <94; altrove: «Non ricordo bene del mio dolore di partire» <95. In base a questo indizio si è portati ad immaginare, ancora una volta, una distanza piuttosto ampia tra il tempo della storia e quello della narrazione. È anche vero, però, che Alessio non sovra-determina mai i fatti, non crea cioè un’escursione prospettico-conoscitiva a tal punto evidente da giustificare la distanza cronologica e memoriale che la trattazione verbale e discorsiva del romanzo lascia supporre <96. Il racconto predilige inoltre l’impiego del passato remoto (e del passato prossimo nei capitoli diaristici) e tende così a rinsaldare l’illusione di uno scarto cronologico che in realtà non esiste <97.
L’idea d’inesistenza può sembrare azzardata in un discorso che riguarda testi letterari, che sono spazi creativi autonomi in cui il tempo narrativo segue regole sue proprie, diverse da quelle del tempo reale, e in cui i tempi verbali hanno valore indipendente dall’istanza cronologica concreta. Tendenzialmente, i rapporti tra tempi verbali all’intero di un romanzo veicolano significati che superano o trascendono la denotazione cronologica, così come il montaggio temporale agisce sulla linearità di base innestandovi prospettive di senso ulteriori <98. In riferimento al Garofano rosso si nota che la trattazione temporale è imprecisa, quindi ambigua: i capitoli IV e V, in quanto diaristici e in virtù del loro stesso statuto, riassorbono in parte lo scarto cronologico tra fatto vissuto e fatto raccontato. Rispetto alle altre parti del romanzo (con narratore omodiegetico che riporta i fatti al passato remoto senza adottare modi diaristici) <99 si collocano in continuità temporale e logico-rappresentativa; non scardinano, cioè, la linearità cronologica dei fatti e sono organici ai modi espressivi impiegati da Alessio altrove: le parti riflessive sono limitate, il racconto è vivace, narrativo, incentrato sull’alternanza, equilibrata, tra azione, dialoghi e riflessioni, lo stile è fondamentalmente lirico-simbolico. L’unica differenza riguarda la gestione e gli effetti dei tempi verbali: il passato prossimo suggerisce cioè un avvicinamento alla resa simultanea del racconto.
La tensione alla simultaneità, in generale, costituisce uno spazio narrativo prossimo alla caratterizzazione reale del punto di vista: vale a dire che rende con precisione narrativa maggiore il distanziamento, non solo cronologico ma conoscitivo, che intercorre tra il protagonista e i fatti raccontati. La correttezza si definisce sulla base di quanto detto poco sopra: non ci sono indizi testuali in virtù dei quali supporre che Alessio-narratore sia evoluto in modo sensibile rispetto al suo personaggio. Quindi, la rete verbale al passato prossimo invera formalmente il fatto che le esperienze in cui è coinvolto Alessio-personaggio non hanno smesso di esercitare senso e conseguenze sul presente di Alessio-narratore.
In generale, dunque, la dimensione logico-temporale del testo è lineare. Il romanzo rende conto, in modo completo e continuativo, dei fatti che avvengono tra il giugno del ’24 e l’autunno dello stesso anno. Il protagonista-narratore attua alcune analessi che riguardano il ’22 (inizio dell’amicizia con Tarquinio) e il periodo dell’infanzia. Queste ricorrono con maggiore frequenza nei capitoli VI e VII, vale a dire nelle parti del racconto in cui l’ambiente familiare-campagnolo asseconda la resa lirica e le divagazioni memoriali (in cui rientrano riflessioni ingenue di carattere politico e premarxista <100) del discorso di Alessio. In ogni caso, la coerenza logica e stilistica del racconto non risente delle variazioni espressive, che rimangono minime. Il protagonista-narratore istituisce quindi un racconto apparentemente non problematizzato dal punto di vista delle scelte tecnico-rappresentative: la storia è al passato, coi dovuti innesti retrospettivi, c’è un buon equilibrio pensiero-azione, le connessioni causali sono trasparenti.
Chiarito questo, si deve poi considerare il fatto che, per quanto riguarda i contenuti e il senso complessivo del racconto, la dimensione rappresentativa fin ora descritta serve – crea lo spazio espressivo per – la vicenda di Alessio, che è la storia della sua formazione mancata. Considerando insieme i due aspetti (modi del racconto e storia raccontata) si nota quindi che la postura narrativa del protagonista entra in risonanza con il senso di non-evasione che il rinvio della formazione imprime alla vicenda. In che modo? Il racconto tradizionale al passato si pone in contraddizione con la caratterizzazione dell’istanza narrativa. Da un lato Alessio adotta le forme di un discorso – quello della narrazione lineare al passato (lineare sia dal punto di vista logico sia dal punto di vista cronologico) – che suggerisce la padronanza conoscitiva dei contenuti, mentre, dall’altro lato, tradisce la vicinanza, se non l’adesione, alle problematiche esperienziali ed esistenziali impostate nel racconto.
Il movimento, si diceva, è impreciso e contraddittorio. Tuttavia, la contraddizione funziona poiché tende ad assolutizzare la vicenda, riportandola in tal modo al senso di espansione che si è precedentemente notato in rifermento alla resa soggettiva (dal punto di vista dei “ragazzi” Agostino, Clemente e Alessio) della giovinezza. Detto diversamente: il fatto che Alessio Mainardi racconti la sua esperienza attraverso i modi narrativi di una storia conclusa, nonostante la storia, in realtà, non arrivi a concludersi, crea uno sfasamento che amplifica, assolutizza e, anche, eterna le risonanze esistenziali di una condizione temporale transitoria <101.
[NOTE]
48 Elio Vittorini nella prefazione all’edizione del 1948 per la MEDUSA DEGLI ITALIANI, ora nell’Appendice a Il garofano rosso, Mondadori, Milano 2014, p. 190.
49 Ibidem.
50 Andrea Gialloreto, Il fiore simbolico e i miti della gioventù. Il garofano rosso tra Bildungsroman e testimonianza, «Chroniques Italiennes», 2-3, 2007, n. 79/80, p. 32.
51 Ivi, p. 184.
52 Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale, trad. it. di Marina Balatti, Feltrinelli Editore, Milano 2002, p. 420.
53 Testo originariamente pubblicato su «Il Mondo», a. I, n. 15, del 3 novembre 1945, pp. 6-7. Poi in Carlo Emilio Gadda, I viaggi la morte, Milano, Garzanti, 1958 (ora in Opere, vol. III: Saggi giornali favole I, edizione diretta da Dante Isella, Milano, Garzanti 1992, p. 608).
54 Ibidem.
55 Alberto Moravia, Agostino, Bompiani, Milano 2014, p. 169.
56 Carlo Emilio Gadda, Opere, vol. III: Saggi giornali favole I, cit., p. 609.
57 Il finale di Agostino avviene quindi all’insegna del «passaggio della formazione dal piano della storia a quello del discorso» (Valentina Mascaretti, Agostino e i suoi fratelli. Una ricerca tematica sull’adolescenza nella narrativa del Novecento, «Poetiche», 7, fascicolo 2/2005, p. 249).
58 Mario Soldati, La confessione, Garzanti, Milano 1955, p. 145.
59 Ivi, p. 161.
60 Ivi, p. 158.
61 Ivi, p. 157.
62 Si noti brevemente che in questo periodo sopravvivono anche formazioni riuscite. Si pensi al Paradiso dei quindici anni di Antonio Aniante, edito nel ’29 (come Gli indifferenti). Il protagonista affronta esperiente simili a quelle vissute da Alessio, Agostino e Clemente, che delineano una serie di tappe ricorrenti (almeno nelle formazioni letterarie maschili): l’amore platonico, la scoperta di quello sensuale, l’esperienza omosessuale come sfogo e schermo; il rapporto con l’amico-modello, che funziona da specchio e rivale alla propria mascolinità; la presunzione e la ribellione, l’esperienza frustrante della propria incomprensione, l’esclusione dal mondo adulto. Ciò che cambia, però, è il valore che l’intera formazione acquisisce alla fine del romanzo. Vale a dire che gli errori commessi sull’onda del furore giovanile sono infine serviti a svelare la strada da seguire per approdare a un’adultità virtuosa. Per Nino l’esempio dell’amata, che si è votata suora missionaria, informa il «pensiero di volere essere degno di lei» e, così si chiude il libro, «il ricordo indimenticabile del suo primo amore racchiude il polline della virtù fecondatrice» (Antonio Aniante, Il paradiso dei quindici anni, Casa Editrice Ceschina, Milano 1929, p. 231). La formazione riesce, ma, come s’intuisce dai passi citati, è frutto di un sentimento letterario diverso: lirico, stucchevole, anche didascalico. Complessivamente, quindi, il successo della formazione si lega all’idea di un’adultità virtuosa sulla base dell’introiezione di ideologie culturali e letterari ancora ottocentesche (in linea, a loro volta, con intendimenti romantici). Negli anni Trenta, le autrici e gli autori nati nel primo decennio del Novecento non sono più nella posizione di credere al valore positivo, progressivo e causale di una crescita stereotipata, promotrice di motivi e valori non più condivisibili.
63 Esemplificativa la chiusa di Agostino, di cui si è detto.
64 Ne La confessione, ad esempio, leggiamo: «Le sue parole […] si ripetevano rapide, monotone, astratte ed isteriche, pari alla litanie che, col superstizioso terrore di castighi oscuri e immediati, l’abitudine impone a tanti deboli» (Mario Soldati, La confessione, cit., p. 62). In altri casi il narratore guida in modo esplicito l’interpretazione del lettore: «Non bisogna però pensare, perché faceva queste constatazioni, che Clemente si fosse del tutto freddato, e fosse ormai distaccato dalla Confessione» (ivi, p. 51).
65 Elio Vittorini, Il garofano rosso, cit., p. 11.
66 Ivi, p. 19.
67 Ivi, p. 111.
68 Ivi, p. 139.
69 Ivi, p. 143.
70 Ivi, p. 149.
71 Ivi, p. 41.
72 Ivi, p. 163.
73 Ivi, p. 164.
74 Cambiamento che significa smettere di «giocare», avere il desiderio di «fare» qualcosa di puntuale, tangibile e sicuro («Sai, una volta lì, non c’è differenza, non ci sono borghesi; si è grandi e basta…», ivi, p. 103). Anche le guerre e rivoluzioni, come Tarquinio illustra, sono giochi. Il personaggio fa l’esempio di Napoleone, che «rimpiangeva i campi di battaglia in una situazione che a un uomo vero, il quale avesse conosciuto l’intimità, avrebbe fatto rimpiangere l’ora del caffelatte» (ivi, p. 104).
75 Ibidem.
76 Ivi, p. 29. O ancora: «E io rimasi solo, di nuovo travolto dal mio interno turbine di io-io-io» (ivi, p. 6).
77 Ivi, p. 155.
78 Ivi, p. 102.
79 Ivi, p. 100.
80 Ivi, p. 183.
81 Ibidem. E Tarquinio adulto, infatti, non capisce: «Di speranza? Che speranza?».
82 Così Alessio e Tarquinio chiamano la residenza di studenti dove alloggiano.
83 Come nota Fiorillo, questo è un refrain che torna con ritmo martellante per tutto il romanzo (Francesca Fiorillo, L’officina narrativa dei primi romanzi vittoriniani, «MLN», Jan. 1982, 97, 1, Italian Issue, p. 78). La studiosa parla inoltre del gesto che «rallenta la consapevolezza di un’avvenuta crescita» (ibidem): il fatto che Alessio non riesca a posizionarsi al di fuori del cerchio di relazioni e significati ch’egli stesso s’impegna a delineare corrisponde all’impossibilità di concepire un’alternativa adulta alla configurazione giovanile della sua esistenza. Volendo parlare di consapevolezza serve quindi mettere l’accento sulla sua potenzialità inattuata.
84 «“Scrivi: abolire prostituzione e tradimento […] tanto la prostituzione che il tradimento vanno colpiti con la pena di morte”» (Elio Vittorini, Il garofano rosso, cit., p. 179).
85 Ivi, p.177.
86 Ibidem.
87 Alberto Moravia, Agostino, cit., p. 168.
88 Elio Vittorini, Il garofano rosso, cit., p. 124.
89 Ivi, pp. 3-4.
90 Ivi, p. 27
91 Ivi, p. 29.
92 «Tarquinio Masséo che ha dato olio di ricino a tutti i suoi professori, nel ’22, come la storia racconta» (ivi, p. 42).
93 Ivi, p. 148.
94 Ivi, p. 5.
95 Ivi, p. 55
96 Notazione confermata anche dal fatto che alla fine del romanzo, come si è cercato di mostrare, la formazione di Alessio non si compie.
97 L’inesistenza riguarda ovviamente i circuiti del racconto, ed è quindi sempre un effetto narrativo (non si sta quindi supponendo una distanza temporale reale).
98 Il riferimento è ovviamente al lavoro di Harald Weinrich per il significato dei tempi verbali (Tempus, Il Mulino, Bologna 2004) e a quello di Gerard Genette per il montaggio temporale del racconto (Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 2006, in cui le relazioni fra tempo della storia e pseudo-tempo del racconto sono studiate sulla base dei concetti di ordine, durata e frequenza).
99 Si esclude il capitolo VIII che contiene le lettere di Tarquinio.
100 Dico premarxista per la tendenza di Alessio a inscrivere la condizione operaia in una visione bucolica e edulcorata del lavoro: «Li guardavo [gli operai] di mezzogiorno passare da un movimento di lavoro a un movimento di riposo con un semplice alzare il capo verso il lacerio della sirena, mettersi subito a loro agio […] in un’allegria che non riusciva, malgrado le voci grosse, a non essere delicata» (Elio Vittorini, Il garofano rosso, cit., p. 77).
101 Se si è usato il nome proprio di Alessio Mainardi per trattare questioni prettamente narrative, lo si è fatto per economia espressiva (vale per tutti i romanzi di cui si è parlato e di cui si parlerà). La configurazione del racconto, naturalmente, è frutto di scelte rappresentative ascrivibili all’autore. Ora, Vittorini attribuisce al romanzo un’essenza «giovanile», e nel farlo si riferisce alla sua immaturità di scrittore: l’aggettivo è infatti ricondotto alla formulazione composita, intermittente, discontinua del libro. Il nostro discorso, invece, ha considerato l’istanza giovanile del testo in relazione a forme e contenuti. Che questi aspetti dipendano da contingenze autoriali è un dato di fatto, ma è difficile misurarne i presupposti d’impiego (anche perché, di solito, l’autore spiega le ragioni di un testo dopo averlo concluso, all’insegna di una visione nuova e complessiva che è sicuramente, almeno in parte, maturata nel processo compositivo); è inoltre molto probabile che siano l’effetto involontario di uno stile in formazione (almeno assecondando le parole di Vittorini). Quindi, se non è possibile considerare in modo oggettivo e verificabile il complesso intenzionale dell’autore, si può però riflettere sulle modalità attraverso le quali gli aspetti considerati creano effetti che, a prescindere dall’ispirazione iniziale, testimoniano del plusvalore narrativo del testo. In altre parole, in relazione allo specifico del romanzo, il rapporto contraddittorio tra forme e contenuti narrativi attribuisce al Garofano rosso un ulteriore, e probabilmente involontario, livello di senso.
Michela Rossi Sebastiano, Il realismo obliquo nel romanzo italiano degli anni Trenta, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Siena, Université Paris Nanterre, 2023

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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