Queste esperienze non generarono per la maggior parte opere d’arte tradizionalmente intese, ma nemmeno neo-avanguardistiche

Dopo le contestazioni del Sessantotto, e ancor più con gli avvenimenti del 1969, riprese vigore in Italia l’esigenza di mutamento emersa negli anni precedenti. La denuncia dell’inadeguatezza delle istituzioni culturali e educative si accompagnò alla volontà di ripensare le divisioni disciplinari e all’interrogarsi sul ruolo del lavoro creativo all’interno dei cambiamenti sociali. Tra le diverse posizioni e azioni di dissenso, questa ricerca focalizza l’attenzione su alcune esperienze, individuali e collettive, che cercarono di sviluppare nuovi approcci creativi e nuovi metodi di gestione culturale ponendosi non solo all’esterno dei luoghi e delle occasioni deputate all’arte, ma soprattutto rifiutando qualsiasi forma di mediazione che le separasse dai destinatari del loro operare.
Il coinvolgimento diretto e l’interesse per chi era del tutto estraneo al mondo dell’arte e la ricerca di territori differenti in cui agire caratterizzarono molte vicende tra la fine degli anni Sessanta e quella dei Settanta.
Questa ricerca affronta una prospettiva particolare: quella del desiderio di creare, progettare e immaginare in modo condiviso, sovrapponendo il bagaglio di conoscenze e pratiche delle arti visive a quelle del design e dell’architettura. A partire dalle dichiarazioni più radicali di rifiuto dell’oggetto artistico e della progettazione tecnica di fine anni Sessanta, vengono considerati quei casi in cui la negazione della produzione e del costruire trovò nell’azione partecipata e nel confronto con la città e i suoi margini il proprio terreno di sperimentazione e proposizione.
Per questo motivo, è qui assente un’analisi di tutte quelle pratiche che, in quegli stessi anni, operarono in modo parallelo riformulando i presupposti di teatro, danza, musica e cinema, oppure che tentarono di aprire alla creatività istituzioni totali quali le carceri e gli ospedali psichiatrici. Seppur intrinsecamente legate agli stessi metodi dialogici, le pratiche teatrali e quelle vicine al movimento dell’antipsichiatria richiederebbero uno studio dedicato. Sono anche assenti le commissioni di sculture e monumenti pubblici realizzate in quegli anni, più o meno collettivamente, tra le quali quella del paese di Gibellina (1970-1989) è più nota. Fuori da questo studio ricadono anche vicende personali legate al rifiuto della ricerca artistica per dedicarsi alla militanza politica in toto, come fu quella dell’artista torinese, inizialmente legato al circuito dell’Arte Povera, Piero Gilardi. <1
I casi di studio qui presenti sono caratterizzati dalla volontà di sviluppare progetti, azioni, laboratori e situazioni sperimentali che agissero nel lungo periodo, rifiutando la dimensione del singolo evento straniante o dell’azione corale legata a un momento specifico (happening), sia artistico sia di protesta o manifestazione d’attivismo politico.
La scelta di fare della città, delle sue periferie o dei suoi estremi margini il proprio territorio di lavoro è necessariamente accostata ai mutamenti del “paesaggio” economico e sociale italiano nel corso degli anni Settanta – dall’immigrazione all’emergenza abitativa, dalle inadeguatezze dei piani urbanistici alla graduale crisi e dismissione dei complessi industriali urbani, che lasciò “spazi” vuoti e frammentati non solo nella geografia cittadina, ma provocò importanti cambiamenti nella vita dei suoi abitanti.
Ogni caso di studio è immerso nella diversa situazione della città in cui si colloca, che si tratti di Roma, dell’anello industriale milanese, di Napoli, oppure di Torino.
Queste esperienze non generarono per la maggior parte opere d’arte tradizionalmente intese, ma nemmeno neo-avanguardistiche. Si trattò di laboratori o metodologie sperimentali che proiettandosi nel lungo periodo, o anche solamente progettate, spesso non giunsero a realizzazioni compiute. L’interesse verteva piuttosto sul metodo creativo da applicare, sul sistema di relazioni non canoniche da instaurare, che il più delle volte si rifaceva agli strumenti messi a disposizione da tradizioni italiane e non di “ricerca sul campo”, “maieutica”, “indagine biografica”, didattica “orizzontale”, antiautoritaria e libertaria, che passava attraverso la pratica “del fare” e la rivalutazione della manualità. Anche questi strumenti sono stati rintracciati caso per caso, affidandosi a fonti d’archivio, pubblicazioni minori, come ciclostilati e volantini, ma soprattutto a riviste e bollettini che furono, di fatto, la piattaforma privilegiata di comunicazione, condivisione e prima proposizione d’intenti e progetti.
È importante premettere che si è voluto affrontare queste esperienze, a volte isolate e a volte strettamente interrelate, dal punto di vista della ricostruzione storica del loro orizzonte di conoscenze, relazioni ed esperienze. Si è deciso di non riferirsi o utilizzare gli strumenti di analisi sul tema della “partecipazione” sviluppati dalla critica e dalla storia dell’arte, soprattutto anglofona, in questi ultimi anni. <2
Privilegiando la chiarificazione e la traduzione di situazioni specifiche, spesso necessaria dato il lessico politico di quegli anni, si è lasciato, ad esempio, che l’incontro e il confronto con episodi internazionali di arte site-specific o di land art scaturissero, senza forzature, dalle riflessioni dei protagonisti stessi, rilevandone posizioni originali o fraintendimenti.
Gli stessi concetti di “progetto”, “ambiente”, “educazione”, “metodologia”, creatività “popolare”, “ignoranza”, “scienza”, “manualità”, “tecnica” e “tecnologia”, che ricorrono nei casi di studio, sono stati di volta in volta affrontati attraverso la ricostruzione del dibattito a loro contemporaneo. In particolare, quello che ha coinvolto artisti, architetti, critici e storici dell’arte dalla fine degli anni Sessanta, e che si è interessato alle proposte dell’environmental design, dell’urbanistica, dell’ecologia politica, dell’ambientalismo, ma anche delle pratiche “Do It Yourself” della controcultura giovanile o della riscoperta di utopie comunitarie, piuttosto che di modi di vivere autarchici. Anche le espressioni che segnano il titolo di questa ricerca – la cosiddetta “distruzione dell’oggetto” e poi lo slogan “ambiente come sociale” – provengono, come si vedrà, dalle vicende raccontate: dal rifiuto o parodia della mercificazione, dell’oggetto auratico e “feticcio” commerciale; dalle prime codificazioni critiche delle sperimentazioni extra-artistiche negli anni Settanta.
Anche queste, allo stesso modo, sono “tradotte” per il lettore nei capitoli di questa ricerca, collocandole nei momenti storici che le hanno generate.
Si può dire che lo scopo di questa indagine sia duplice. Ricostruire episodi spesso lasciati fuori dalle principali narrazioni storico artistiche, individuandone i nessi reciproci, le caratteristiche originali e gli ostacoli che si trovarono ad affrontare. Scardinare l’interpretazione di queste vicende da quelle uniche narrazioni, spesso biografiche, che ne hanno dato testimonianza (Crispolti, 1977 e 1994; Pansera, Vitta, 1986); da linee interpretative coeve tendenti a costruire genealogie e auspicare generiche arti “democratiche” (Popper, 1980); ma anche da sommari riferimenti alla “stagione della partecipazione”, o analisi tipologiche a seconda del rapporto “partecipativo” ricercato (complice, d’opposizione, autonomo, vicino alle istituzioni pubbliche, ecc).
Di recente, inoltre, queste esperienze sono state oggetto di un nuovo interesse storiografico (Detheridge, 2010; Pioselli, 2015) e inserite in più ampie narrazioni ed esposizioni riguardo l’arte pubblica, nello spazio urbano o quello “sociale”, dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni.
Questa esegesi – allo stesso tempo ravvicinata e distante – tenta invece un’altra strada. I casi di studio che seguono, indipendentemente dalla riuscita o meno dei propositi iniziali e nella diversità degli approcci, accostarono la pratica artistica al desiderio etico di progettare metodologie per la creazione di conoscenze, esperienze e strumenti per immaginare nuovi modi di con-vivere. Lo fecero ricavandosi spazi di sperimentazione pressoché separati o autonomi dai palcoscenici di promozione deputati alle arti, preferendo situazioni di incontro-scontro diretto spesso non facili, collocazioni marginali e metodi di lavoro conviviali per scarti ed errori, non lineari, né avanguardistici. Lo fecero parlando la lingua – scritta, enunciata, disegnata o assemblata – di quegli anni, di sfiducia verso le soluzioni e utopie tecnologiche del decennio precedente, di disincanto allo svanire delle grandi narrative teleologiche (moderniste o rivoluzionarie) nella contrapposizione di poteri della Guerra Fredda.
Se una restituzione di queste esperienze non può esimersi dal leggerle all’interno degli avvenimenti e del dibattito culturale italiano degli anni Settanta, non di meno possono essere preziose per altre, più attuali, letture. Quando affrontano temi come il rapporto tra la creatività e la produzione e circolazione trasversale di desideri, tradizioni e saperi (“alti” o “bassi”, professionali o non ortodossi), tra la progettazione e l’educazione alla cura condivisa di spazi reali o dell’immaginazione, che siano.
[NOTE]
1 P. Gilardi, Dall’arte alla vita dalla vita all’arte, Milano, La Salamandra 1981.
2 Narrazioni e teorie che attraversano il primo Novecento fino ai nostri giorni includendo casi di studio in Europa e America Latina (C. Bishop, Artificial Hells. Participatory Art and the Politics of Spectatorship, Londra, Verso 2012); analisi legate alla tradizione critica statunitense di fine anni Settanta e che sviluppano o rinnovano definizioni di site-specific art o expanded field (M. Kwon, One Place After Another. Sitespecific art and locational identity, Cambridge, MIT Press 2002); genealogia e inquadramenti critici di pratiche artistiche vicine all’attivismo grassroot e ad approcci dialogici o di rigenerazione urbana, tra Stati Uniti e Inghilterra, dagli anni Novanta in poi (G. H. Kester, Conversation Pieces. Community + Communication in Modern Art, Berkley, University of California Press 2004; Lucy R., Lippard, The Lure of the Local. Senses of Place in a Multicentered Society, New York, The New York Press 1997; R. Deutsche, Evinctions: Art and Spatial Politics, Cambridge, MIT Press 1996).
Sara Catenacci, Dalla distruzione dell’oggetto all'”ambiente come sociale”. Esperienze in Italia tra arte, architettura e progettazione culturale (1969-1978), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno Accademico 2015-2016

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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