“Le rondini di Montecassino” è quindi un racconto polifonico

Il romanzo di Antonio Scurati del 2015, “Il tempo migliore della nostra vita”, divide la narrazione fra la parabola pubblica e privata del grande intellettuale Leone Ginzburg, uno dei pochissimi docenti universitari a pronunciare un chiaro e convinto “no” alla richiesta di adesione del Partito Fascista, l’8 gennaio 1934, e il racconto delle vite che potremmo, in confronto, definire minime, di Peppino, Antonio, Ida e Angela, i nonni dell’autore. L’ultimo capitolo del romanzo è un poscritto dal titolo emblematico “La storia finisce” nel quale Scurati prende la parola in prima persona e instaura un dialogo diretto col lettore sottoponendogli una riflessione (che, sul piano teorico, l’autore porta avanti ormai da tempo <162) sulla relazione che il tempo presente intrattiene col passato e che può essere letta come il tentativo di rispondere ad una domanda «semplice, radicale, violenta», cioè: «Dove sono io in quella corrente?» (Scurati, 2015; 257).
Laddove la storia di (e per) Scurati finisce, “Le rondini di Montecassino” di Helena Janeczek (2010), al contrario, inizia. Il romanzo di Janeczek è stato da più parti definito come un mosaico o un labirinto nel quale storie diverse si incastrano, sovrappongono, a volte si sfiorano senza toccarsi ma sono tutte guidate da un’unica corrente sotterranea e inquadrate nella cornice della Battaglia di Montecassino, scontro militare di incredibile violenza che ha rappresentato uno degli snodi principali dell’occupazione alleata dell’Italia nel 1944.
L’architettura del romanzo è complessa e si articola attorno alle storie, vere o inventate poco importa, di chi ha combattuto in Ciociaria o di chi, pur distante nel tempo e nello spazio dalla Seconda Guerra Mondiale, sente ancora gli echi di quello scontro riverberare nel suo presente. I piani temporali si sovrappongono, dal passato dell’azione bellica al presente della scrittura, mentre i teatri degli eventi tracciano le linee di una cartografia globale, dalla Nuova Zelanda al Texas, dalla Polonia occupata alla Siberia, e puntellata di luoghi carichi di morte, come sacrari, campi di concentramento o le pendici stesse delle alture dell’Italia centrale. Tassello fondamentale dell’armonia polifonica composta da Janeczek è la voce narrante che parla dal presente della scrittura, controparte testuale dell’autrice stessa, la quale tenta di ricostruire le biografie di parenti e amici che per Montecassino sono certamente passati, di contro alla scoperta che il racconto paterno di aver partecipato alla presa dell’Abbazia in forze al Secondo Corpo d’Armata polacco del generale Anders <163 era una menzogna.
La voce che introduce la narrazione è proprio quella del simulacro testuale di Janeczek la quale, durante un’animata conversazione con un tassista polacco (originario della città di Kielce) racconta come i suoi genitori si siano conosciuti in Italia dove il padre (anche lui polacco originario di Kielce) aveva deciso di restare dopo aver combattuto con l’esercito polacco in esilio nella Battaglia di Montecassino. Dopo l’inserimento di uno spazio bianco, però, scopriamo che le cose non sono andate così: l’autrice non ha voluto raccontare niente al tassista sull’esperienza bellica del padre e, anziché glissare ha scelto di mentire:
“Arrancavo dietro risposte credibili, […] mi ci impigliavo dentro, rispondendo con mezze verità e scoprendo che l’invenzione riesce male quando sgorga dalla costrizione, che le menzogne nate per caso sono brutte. Forse l’uomo che me le aveva cavate fuori, nemmeno se n’era accorto, soltanto io lo notavo. Notavo quanto fosse abissale il divario fra quel che raccontavo e quel che nascondevo, quanto fragile lo scudo di parole che mi ero posta dinnanzi senza alcun vero bisogno”. (Janeczek, 2010; 12)
Lo scudo di parole dell’io narrante serve a mascherare una verità che emerge solo dopo un ulteriore bianco, segnale anche di un nuovo cambio di tono rispetto alle righe iniziali, un approfondirsi della dimensione riflessiva e interrogativa della prosa che, aggiungendo un altro gradino allo svelamento della storia famigliare di Janeczek, approda al cuore pulsante del romanzo, cioè la riflessione sulle potenzialità dell’intreccio fra realtà e finzione. Scopriamo infatti che proprio quel nome Janeczek, che ha attirato l’attenzione del tassista è in realtà frutto di un’invenzione, una menzogna raccontata dal padre dell’autrice perché lui, ebreo polacco, potesse fuggire da un posto come Kielce, «luogo del primo grande pogrom del dopoguerra» (ivi; 13), o come tutta la Polonia, perché nessun luogo era più sicuro. “Le rondini di Montecassino”, non dissimilmente da “Il tempo migliore della nostra vita” di Scurati, trae la sua origine da una diversa articolazione della medesima domanda: non «dove sono io in quella corrente?» ma «chi sono io che sono nata da quella corrente?»:
“il nome falso di mio padre è il mio cognome. Con quello sono nata e cresciuta, ne ho spiegato mille volte l’origine, […] Come posso considerare falso qualcosa che mi ha impresso il suo marchio? Come può esserlo quel nome a cui mio padre deve la vita e io la mia? Che cos’è una finzione quando si incarna, quando detiene il vero potere di modificare il corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua volta? Cosa diventa la menzogna quando è salvifica? E quali storie, mi domando infine, posso narrare io di fronte a questo? A quale invenzione posso ricorrere essendo testimone in carne e ossa che fra il vero e il falso, fra realtà e finzione, corre talvolta il labile confine che separa la vita dalla morte?” (ivi; 13-4)
Nel romanzo di Janeczek queste domande costituiscono da un lato l’epicentro morale del racconto e, dall’altro, l’espediente per raccontare «a fronte di un’esistenza conservata grazie a un documento falso» (ibidem) le altre storie, quelle di quei nomi veri ma dimenticati, perduti e scomparsi che sono state inghiottite dal gorgo di Montecassino e che figurano ormai solo come incisioni sulle lapidi dei cimiteri militari ai piedi dell’Abbazia.
L’architettura del romanzo è una complessa geometria di incastri e rimandi in cui la voce della narratrice percorre un sentiero autobiografico e metanarrativo fatto di scarti e sfasamenti temporali, dove il racconto del passato e della guerra è scandito da sezioni che, come «punti di fuga verso l’attualità» (Piga Bruni, 2018; 125) riportano al presente della scrittura. La voce della narratrice si alterna a quelle di altri personaggi, realmente esistiti o inventati, che raccontano la presa di Montecassino dalla loro prospettiva, complicando la geografia bellica per restituire al lettore la complessità, spesso ignorata, della composizione dell’esercito Alleato. “Le rondini di Montecassino” è quindi un racconto polifonico, un vortice al cui centro si trovano un luogo e un tempo ben precisi, l’abbazia benedettina e le quattro incursioni Alleate che ebbero luogo fra il 15 gennaio e il 18 maggio del 1944, e un profondo dilemma morale dell’autrice, cioè «Cosa resta del padre?», mentre, dal punto di vista formale, si tratta di un romanzo nel quale realtà e finzione, ricostruzione d’archivio, tematizzazione delle fonti e riflessione metanarrativa si uniscono in una scrittura dell’io consapevole della difficoltà ma, soprattutto, della necessità, di fare i conti col passato. È in questa prospettiva che, nella prosa di Janeczek, invenzione romanzesca e realtà storica entrano in risonanza reciproca generando uno sovraccarico di senso:
“Importa l’urgenza di conoscere che va oltre uno scopo, che non si illude di poter colmare i vuoti né tantomeno sostituirsi all’esperienza, ma è soprattutto un movimento verso, una tensione con cui cerchi di accorciare una distanza che non riguarda più soltanto quello che sai, ma quel che senti e immagini. […] Infondo è così sempre e comunque, che i luoghi o i tempi siano raggiungibili solo attraverso l’invenzione o che sia tua la vita cui attingi. La realtà, la verità di quel che scrivi è un azzardo fondato su un atto di fiducia e di sottomissione alle sue leggi. Credi che esista: per nulla identica e interscambiabile fuori e dentro di te, ma che vi sia una zona in cui la realtà esterna si interseca con quel che hai vissuto, quasi un punto archimedico da cui estrarla e a cui tornare come una presa a terra”. (Janeczek, 2010; 138)
[NOTE]
162 Cfr. A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit; Dal tragico all’osceno, cit.; Gli anni che non stiamo vivendo, cit.
163 Il generale Anders combatté contro i tedeschi nel 1939; ferito, fu fatto prigioniero e incarcerato a Leopoli prima di essere trasferito a Mosca. Dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa fu rilasciato e ricevette l’incarico di formare un esercito dal governo polacco in esilio a Londra. Anders ottenne l’autorizzazione a dislocare il suo contingente polacco in Persia, dove l’esercito di ex prigionieri venne inquadrato nelle armate britanniche. Dopo la fine del conflitto mondiale, a seguito dell’occupazione Sovietica della Polonia, si trasferì in Inghilterra e divenne membro del Governo in esilio. All’esperienza bellica e alla disillusione nei confronti delle promesse fatte dagli Alleati ai combattenti polacchi (molti dei quali scelsero di non tornare in una Polonia occupata, di fatto Sovietica) ha dedicato un libro di grande successo, ‘Un’armata in esilio’ (Capelli, Rocca San Casciano, 1950).
Allegra Tagliani, Storie private e destini collettivi. Prospettive sul romanzo storico del terzo millennio, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Siena, 2021

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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