Il romanzo vuol mantenere viva la differenza tra gli ideali della Resistenza e la realtà pratica della guerra civile

Nell’ultimo decennio, il mercato dell’editoria ha visto la pubblicazione di moltissimi romanzi di consumo nei quali la Resistenza, nodo centrale della trama, diventa un tempo di misteri, delitti e misfatti su cui i personaggi del presente devono indagare.
A differenza dei testi incontrati finora, nei racconti in questione la narrazione assume esplicitamente le sembianze tipiche del romanzo giallo: vi è una figura cui spetta il ruolo dell’investigatore, con il compito di scavare nei fatti alla ricerca di una verità che le apparenze e le spiegazioni più evidenti e semplici invece vogliono nascondere. Al loro interno la guerra partigiana, vista come il tempo in cui si è consumato il delitto al centro dell’indagine oppure come il contesto che spiega il movente profondo del fatto di sangue, assume un significato del tutto negativo, poiché viene sempre interpretata come una realtà nella quale si sono scatenati gli istinti animaleschi dell’uomo, causando così una catena infinita di ingiustizie e di morte.
Il romanzo di Dario Buzzolan, “I nostri occhi sporchi di terra”, <60 poggia su una trama molto articolata che però si può ridurre, nelle sue linee essenziali, a quella di un romanzo giallo.
Il ruolo dell’investigatore è assolto da Marianna, che indaga sulla vita del padre Davide, ex partigiano e poi docente universitario, recentemente suicidatosi. Marianna scopre che l’uomo ha inscenato la propria morte ed è fuggito in Amazzonia per evitare le ingiuste accuse di Giulio; quest’ultimo l’ha infatti pubblicamente additato quale colpevole dell’omicidio del fratello Achille, avvenuto a ridosso della Liberazione e interpretato dall’opinione pubblica come una vendetta personale di un ex partigiano nei confronti di un ex fascista. Scavando nel passato delle persone coinvolte, Marianna scopre tutta la complicata verità e gli intrecci di odi e vendette che si nascondono dietro il finto suicidio. Al tempo della Resistenza il padre di Davide aveva violentato la madre di Achille: Giulio è il frutto di quello stupro. Achille ha tentato di vendicare la violenza subita dalla madre su Davide, allora partigiano, uccidendolo in un agguato con l’aiuto di Vomere Giuliani, un fascista dei più violenti. È convinto di essere riuscito nell’impresa ma in realtà ha ucciso Roberto, un ribelle che indossava, al momento dell’agguato, il cappello di Davide. Ignari di tutto ciò, dopo la Liberazione Vomere e Achille decidono di tornare in quei luoghi per recuperare le ricchezze sottratte ai civili e per infierire su quello che credono il cadavere di Davide; quest’ultimo li attende e li uccide entrambi per vendicare i compagni, morti nell’agguato, e tutti i civili che hanno sopportato le angherie dei due fascisti. Con l’accusa pubblica e infamante di omicidio contro Davide, molti anni dopo i fatti, Giulio conclude il progetto di vendetta avviato dal fratello, costringendo l’uomo a difendersi per mantenere il prestigioso ruolo di docente universitario. Quest’ultimo, però, si chiama fuori dalla vicenda e, con il finto suicidio e la fuga in Amazzonia, mette fine alla contesa.
In un tessuto così congegnato, la guerra partigiana è declinata in due direzioni: appare come un contesto di sangue in cui tutto può avvenire e ogni violenza è possibile, sia da parte repubblichina sia da parte dei ribelli, ma è descritta anche nei suoi attributi positivi attraverso il personaggio di Davide. Per lui, “Resistenza” significa la scelta morale di lottare per la libertà e per la giustizia che, fatta una volta, deve condizionare il corso di un’intera esistenza. Non così la pensa Giulio, per il quale le due possibilità – combattere con i partigiani o unirsi ai repubblichini – si equivalgono.
Questo il brano in cui Davide racconta a Marianna del confronto avuto con il fratellastro: “Io so soltanto che quando ha sentito le parole giusto e sbagliato ha perso il controllo. Si è messo a gridare che la mia scelta e quella di suo fratello, io partigiano lui repubblichino, si equivalevano. Tutti e due combattevamo per degli ideali. A quel punto ho gridato anch’io. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto…e la storia non la raccontano i vincitori, come dici tu…ma semplicemente chi ha buona memoria…» Si stringe nelle spalle. «Non volevo convincerlo. Solo fargli capire che, all’epoca, mi erano bastati pochi secondi per decidere. Mi sembrava la scelta naturale…l’unica vera…perché una scelta può essere soltanto libera…e cos’aveva di libero chi scattava sull’attenti davanti ai nazisti…? Chi li aiutava a sterminare gli ebrei…? Volevo spiegargli che mai più nella vita ho saputo con tanta chiarezza quello che dovevo fare. Mai più. È stato una specie di momento magico.» China il capo, raccoglie una pietra bianca e levigata, la esamina. «Non credo abbia capito. Ha detto che nessuna scelta poteva giustificare quello che ho fatto.»”. <61
Nel confronto tra i due vediamo celato un dibattito che ha animato la nostra contemporaneità e riguarda l’interpretazione storiografica della guerra civile: Davide rappresenta la posizione di chi difende i partigiani contro storici e intellettuali revisionisti i quali vorrebbero invece equipararli ai volontari della Repubblica Sociale. Escludendo la sua voce, il romanzo nel suo insieme disegna un passato di errori, contraddizioni e falsità, in cui la guerra di Liberazione, nonostante gli ideali alla sua base, non ha saputo seminare che lutti, incomprensioni e vendette, senza riuscire a costruire niente di positivo.
Questo il dialogo in cui, un anno dopo la Liberazione, il giovane partigiano che aveva combattuto per «cambiare il mondo» <62 si rende conto dell’inutilità di quella lotta: “Davide lo ha fermato per un braccio, senza troppa delicatezza. «Dimmi la verità. In quanti se la caveranno?» Il giovane ha scosso il capo. «Che ti devo dire. In due giorni hanno scarcerato quasi tutta la squadraccia di quel Finizio, più un’altra ventina di fascisti. Gente che ha mandato a crepare su in Germania un sacco di poveri cristi. Domani pare che succederà anche di peggio.» «È vero che usciranno anche quelli di Koch?» «È probabile. Togliatti dice che la clemenza è segno di forza e di fiducia nei destini del Paese.» «Questo l’ho letto anch’io. Rispondi alla domanda. Quanti la faranno franca?» «Molti, temo.» Ha chinato il capo. «Quasi tutti.» Davide ha fatto un passo indietro, il volto scolorito dallo smarrimento. «Ma allora…allora così…»”. <63
Traditi gli ideali che hanno mosso la Resistenza, di quel momento storico resta solo la memoria del sangue versato. Il romanzo mette in scena appunto gli omicidi e le vendette scaturite proprio da quel tempo senza regole, e sottovoce vuol suggerire che questa – la violenza, il sangue – è l’unica eredità lasciata dalla guerra partigiana. Attraverso i personaggi contrapposti di Davide e di Giulio, il romanzo vuol mantenere viva la differenza tra gli ideali della Resistenza e la realtà pratica della guerra civile.
Se l’utopia prometteva una lotta giusta in nome di libertà e democrazia, la realtà ha invece costruito un contesto di sangue che ha acceso focolai di successiva violenza. È questa l’immagine della guerra civile che il romanzo offre al lettore, sebbene il personaggio di Davide, con i suoi ideali e la sua successiva disillusione di fronte al fallimento di essi, contribuisca ad alleggerire il giudizio definitivo.
[NOTE]
60 DARIO BUZZOLAN, I nostri occhi sporchi di terra, Milano, Baldini-Castoldi Dalai, 2009, da cui cito.
61 Ivi¸ pp. 299-300.
62 Ivi, p. 48.
63 Ivi, pp. 68-69.
Sara Lorenzetti, Narrativa e resistenza: “invenzione” della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” – Vercelli, Anno Accademico 2014-2015

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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