L’esperienza personale come fonte per un romanzo in terza persona: Moravia e Morante

Come Tempo di uccidere, anche La Storia di Elsa Morante e La ciociara di Alberto Moravia devono molto all’esperienza diretta dei loro autori. Si tratta di due casi assunti come esemplificativi di una categoria ben più ampia – comprendente senz’altro testi anche più rappresentativi; su tutti, quelli di Primo Levi, da porre in realtà su un livello diverso perché implicanti un’idea molto forte di testimonianza sofferta riferita direttamente all’autore <184 – che rende conto di come la “vita” dell’autore reale possa, con tutte le esperienze da essa derivanti, servire da fonte allo scrittore e diventare materiale per le sue opere, a partire quindi dall'”ispirazione autobiografica” definita da Lejeune il caso in cui «lo scrittore […] utilizza materiale preso a prestito dalla sua vita personale». <185
Sono inoltre la dimostrazione del fatto che, pur essendo la prima persona un buon indicatore di autobiografismo o autoreferenzialità, la terza persona non esclude la presenza di spunti autobiografici in un romanzo.
Indipendentemente dalla focalizzazione adottata, capita che l’autore attribuisca ai personaggi caratteristiche che gli sono proprie o, come nel caso di La Storia di Morante e La ciociara di Moravia, inserisca nel congegno romanzesco avvenimenti che ha vissuto in prima persona, trasfigurati e mediati dall’immaginazione in una misura che è impossibile stabilire, e tuttavia aventi la propria fonte nell’esperienza diretta e personale degli autori, dunque in un terreno che sta al di fuori del congegno letterario.
Nel caso di questi due romanzi, poi, disponiamo di una circostanza davvero poco frequente e molto preziosa dal punto di vista analitico: un’esperienza comune fa da base a due declinazioni dissimili.
Dopo l’armistizio del 1943, il paese versava in una condizione di confusione terribile e con l’occupazione tedesca la repressione nei confronti degli ebrei mise in allarme i due scrittori, l’uno ebreo di padre e l’altra ebrea di madre <186. Il clima teso li spinse a fuggire in treno verso Napoli, nell’intento di raggiungere Malaparte a Capri, ma il viaggio fu interrotto in aperta campagna, i binari furono bombardati e i passeggeri costretti a fuggire sulle colline tra Roma e Napoli, non lontano da Montecassino, nei pressi di Fondi, dove, come informa Ceccatty, la coppia trovò alloggio «in una stalla con il pavimento di terra battuta affittata loro da un contadino, Davide Marocco» <187.
I nove mesi trascorsi nelle colline di Fondi hanno fornito materiale utile per i romanzi La Storia e La ciociara: Morante ha conservato il cognome del contadino che li aveva ospitati attribuendolo alla famiglia che nel romanzo ospita Ida e Useppe nel quartiere del Testaccio a Roma; in La ciociara, Moravia ha raccontato il dramma della seconda guerra mondiale dal punto di vista di Cesira, costretta a cercare rifugio con la figlia Rosetta sulle montagne della Ciociaria per fuggire dall’esercito tedesco. Nei due inserti che precedono il romanzo in edizione Bompiani, intitolati rispettivamente “Vita nella stalla” e “Fuga in montagna”, l’autore dà notizia della natura autobiografica delle esperienze contenute, descrivendo sia le circostanze che lo portarono a raggiungere Sant’Agata, sia la quotidianità vissuta presso la stalla dei Marocco.
Sia per La ciociara, sia per La Storia non si tratta di autobiografismo in senso stretto: gli autori non narrano in prima persona né espongono gli accadimenti riferendoli dichiaratamente a loro stessi.
I due romanzi sono stati scritti dai due autori in tempi diversi e comunque a distanza di molti anni dall’esperienza, che necessitava evidentemente di un sufficiente distacco e di una buona dose di trasfigurazione. Le lunghe note di puntuale ricostruzione storica che precedono ogni capitolo de La Storia potrebbero rappresentare un tentativo di oggettivazione. Inoltre, in entrambi i casi, l’utilizzo della terza persona è indicativo dell’imposizione di una distanza, anche maggiore in La ciociara, la cui voce narrante è addirittura una donna.
Il fatto che Morante e Moravia abbiano aggiunto dettagli romanzeschi alle narrazioni di esperienze da loro realmente vissute non inficia il valore documentario dei due romanzi. Il loro ancoraggio alla realtà storica ne garantisce, se non la completa e puntuale veridicità, il senso dell’esperienza vera. Per questa ragione non è necessario capire quali fatti gli autori vissero sulla loro pelle e quali siano il risultato di un’astrazione, di una dissimulazione, di una trasfigurazione o addirittura di un atto immaginativo: dal momento in cui si riesce a stabilire la natura “reale” dell’esperienza vissuta dagli scriventi il valore documentario continua a sussistere.
Si aggiunga che per Garboli, La Storia è «il solo romanzo della Morante a essere raccontato da Elsa Morante ipse, proprio da lei, con l’intonazione e il timbro della sua voce e non con una voce imprestata ad altri» <188: che i nomi di uomini e donne incontrati siano diversi da quelli che furono, che specifici accadimenti siano stati inseriti nella narrazione romanzesca pur non essendo effettivamente accaduti o, al contrario, che i due autori abbiano tralasciato, com’è plausibile, molti fatti accaduti nei nove mesi della loro permanenza a Fondi, non fa dei romanzi documenti di valore minore e prova che, per narrare, lo scrittore può sempre partire da se stesso, come sosteneva infatti Elsa Morante: “Ogni vero romanzo è un dramma psicologico, perché rappresenta un rapporto dell’uomo con la realtà. E il primo termine di questo rapporto è, in partenza, sempre l’autore del romanzo, giacché è il suo diverso orientamento psicologico a determinare la scelta del suo itinerario nella esplorazione del mondo reale”. <189
In casi come questo, la trasfigurazione e l’invenzione non annullano il valore dell’esperienza diretta: sicuramente la filtrano, la rendono più “leggibile”, la inseriscono nella trama complessiva dei romanzi, la rendono più adatta a esigenze specifiche del genere, ma la base di “vicende esemplari” rimane, accentuata dall’ancoraggio residuo con una realtà effettivamente vissuta dal soggetto scrivente.
Una volta entrato nella finzione narrativa, il fatto autobiografico specifico si disgrega e ciò che ne rimane è solo larvatamente connesso con quanto accaduto all’autore, ma questo non elude il principio sotteso alla creazione romanzesca per Morante, per la quale “Romanzo sarebbe ogni opera poetica nella quale l’autore – attraverso la narrazione inventata di vicende esemplari (da lui scelte come pretesto, o simbolo delle “relazioni” umane nel mondo) – dà intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo, nella sua realtà)”. <190

[NOTE]
184 Rientrerebbero in questa categoria in maniera molto più prepotente altri testi. Si sono scelti La Storia e La ciociara per la comune base storico-autobiografica derivante dall’esperienza vissuta insieme dai due scrittori, allora coniugi. Sarebbe interessante uno studio contrastivo che analizzi le differenti modalità di trasfigurazione del medesimo vissuto. Un’altra categoria di testi “latamente autobiografici” potrebbe essere costituita almeno da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963), Il gioco dei regni di Clara Sereni (1993) e Vita di Melania Mazzucco (2003), scritti da tre autrici donne che hanno inteso porre al centro delle loro narrazioni romanzesche non propriamente se stesse ma la loro famiglia.
185 P. LEJEUNE, Il patto autobiografico, cit., p. 189.
186 È impossibile, a questo proposito, non leggere nel terrore di Ida Ramundo il sentimento di inquietudine che poteva animare Elsa Morante. Nella prima parte del romanzo, la donna è costantemente sopraffatta dal timore di essere arrestata: «quando, verso la primavera del 1938, l’Italia intonò, a sua volta, il coro ufficiale della propaganda antisemita, essa vide la mole fragorosa del destino avanzare verso la sua porta, ingrossandosi di giorno in giorno. I notiziari radiofonici, con le loro voci roboanti e minatorie, già sembravano invadere fisicamente le sue stanzette, spargendovi il panico; […] E passava le giornate e le sere all’erta, dietro agli orari dei radiogiornali, come una piccola volpe sanguinante che si tiene rintanata e attenta fra l’abbaiare di una muta» (E. MORANTE, La Storia, Torino, Einaudi, 1995, pp. 46-47); «Tutte le forme intraviste di persecuzione prossime e future, anche le più turpi e disastrose, le si confondevano nella mente come spettri vacillanti, fra i quali il faro terribile di quell’unico decreto la agghiacciava con suo bagliore! Al pensiero di dover dichiarare lei stessa, pubblicamente, il proprio segreto fatale, sempre da lei nascosto come un’infamia, senz’altro si disse: è impossibile» (Ivi, p. 47). «Si aspettava di venir chiamata agli uffici comunali a render conto della sua trasgressione. […] Non uscì più di casa, nemmeno per la spesa giornaliera, incaricandone la portinaia» (Ivi, p. 48). Questi sono solo alcuni esempi di passi del romanzo in cui viene descritta la paura di Ida. Va aggiunto un sogno, estrema figurazione onirica del sentimento persecutorio più volte rappresentato: «Una notte, poco prima di un allarme, sognò che cercava un ospedale per partorire. Ma tutti la respingevano, come ebrea, dicendole che doveva andare all’ospedale ebraico, e indicandole un edificio bianchissimo di cemento, tutto murato, senza finestre né porte». (Ivi, p. 92)
187 R. CECCATTY, Alberto Moravia, trad. it. di S. Arecco, Milano, Bompiani, 2010, p. 342. Se ne trovano i dettagli anche in T. TORNITORE, “Introduzione” a A. MORAVIA, La ciociara, Milano, Bompiani, 2001, pp. XVII-XXXIII.
188 C. GARBOLI, “Introduzione” a E. MORANTE, La Storia, cit., p. XXV.
189 E. MORANTE, Inchiesta sul romanzo in ID., Opere complete a cura di C. Cecchi, C. Garboli, Vol. II, Milano, Mondadori, 1988, pp. 1503-1504.
190 Ivi, p. 1504.
Cristina Michielon, Riflessioni sul ruolo dell’autore nel panorama letterario italiano contemporaneo, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2013-2014

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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