L’impressione era che, dovunque lo sceneggiatore vagasse nel labirinto hollywoodiano, saltava fuori il produttore a sbarrargli il cammino

Del resto, per parafrasare il titolo originale di un altro celebre film coevo a “Viale del tramonto”, “In a Lonely Place” (Il diritto di uccidere, 1950) di Nicholas Ray, gli sceneggiatori sembrano aver occupato un “posto solitario” all’interno dell’industria fin dai tempi in cui l’introduzione del sonoro rende necessaria la presenza costante a Hollywood di scrittori in grado di fornire sceneggiature filmabili provviste di dialogo.
Larry Ceplair e Steven Englund riassumono così le difficoltà esperite da tale categoria professionale:
“A Hollywood ogni sceneggiatore – sia che stendesse le sue sceneggiature a Normandy negli uffici della Fox organizzati come un villaggio, o negli asettici e angusti locali della MGM, o nelle malconce ma comode stanze della Paramount […], o nella speciale versione del Château d’If allestita dalla Columbia – scopriva subito una triste verità e prima o poi si doveva abituare a vivere con essa: il rapporto di cui doveva tener conto non era quello tra lui, sceneggiatore, e il pubblico che andava a vedere il film, bensì tra lui e il produttore. […]. Gli scrittori erano sì incoraggiati a presentare soggetti originali ma la forma mentis dei produttori era così rigida che solo raramente uno sceneggiatore riusciva a “piazzare” più di cinque o sei soggetti originali nell’arco della sua carriera. […]. Tutto dunque ruotava sul rapporto tra lo scrittore e il suo produttore. L’impressione era che, dovunque lo sceneggiatore vagasse nel labirinto hollywoodiano, saltava fuori il produttore a sbarrargli il cammino. Era lui che si doveva affrontare e soddisfare. Perciò lo scrittore doveva imparare subito che quel che contava era l’idea che il produttore, e non lui personalmente, aveva di una buona sceneggiatura” <117.
Sebbene i film autoreferenziali spesso denuncino una deliberata assenza di verosimiglianza nel descrivere il lavoro degli sceneggiatori all’interno dello studio system (ad esempio, molte volte è passato sotto silenzio il fatto che il loro principale compito consistesse di norma solo nell’adattare materiale già selezionato dall’ufficio-soggetti, e che di rado qualcuno riuscisse a far realizzare un progetto proprio), l’abisso di potere, che davvero separava questa categoria dai produttori, è sempre posto al centro del dramma. Se “Il diritto di uccidere” è senz’altro poco realistico quando ci descrive il lavoro di scrittura del protagonista Dix Steele (Humphrey Bogart) come un lavoro solitario e condotto in casa propria agli orari più improbabili, non lo è, però, quando ci comunica la frustrazione che questo stesso personaggio prova essendo costretto dalla sua professione ad adattare soggetti dozzinali per lo schermo. In tal senso, la violenza fisica di Dix e la sua sospettosità paranoide (evidenti soprattutto nel rapporto con l’altro sesso) non sono solo concessioni ai canoni del genere noir in cui il film di Ray s’inscrive, ma servono a tematizzare l’incapacità del protagonista di adeguarsi al modus operandi hollywoodiano.
Come osservano ancora Ceplar ed Englund, «gli scrittori che resistettero a Hollywood impararono a fare del loro meglio con qualsiasi materiale avessero a disposizione cercando di evitare allo stesso tempo (per quanto possibile) ogni coinvolgimento del proprio io nella sceneggiatura che avevano sotto mano. In generale questo tipo di sforzo è estraneo al processo creativo, ma la sopravvivenza degli scrittori impegnati nel processo produttivo dell’industria cinematografica richiedeva questa capacità e così molti di loro impararono in un modo o nell’altro ad adattarsi» <118. A Dix Steele quest’adattamento non riesce perché equivale per lui, psicologicamente parlando, a essere declassato dal ruolo di artista a quello di semplice funzionario di livello medio all’interno di una grossa impresa produttiva.
Successivo di soli due anni a “Il diritto di uccidere”, “Il bruto e la bella” di Vincente Minnelli esamina, almeno in parte, questioni analoghe, ma lo fa mettendo al centro della diegesi proprio il personaggio del produttore, vale a dire la figura solitamente accusata di tutti i mali degli sceneggiatori hollywoodiani. Curiosamente, qui il personaggio di Jonathan Shields (Kirk Douglas), con ogni probabilità modellato sulla biografia reale del grande producer indipendente David O. Selznick, ha molti tratti in comune con Dix: ambizione, creatività, rabbia, desiderio di rivalsa sul milieu hollywoodiano, ma anche e soprattutto la medesima difficoltà a stabilire una relazione sentimentale non contrassegnata dalla violenza e dalla manipolazione psicologica.
Insomma, sebbene Dix Steele e Jonathan Shields muovano da posizioni professionali opposte (il primo non tollera le restrizioni creative dettate dal suo produttore, mentre il secondo cerca, in tutti i modi, di controllare il lavoro e perfino i sentimenti dei suoi sottoposti), i due personaggi esibiscono problematiche psicologiche davvero affini. L’immagine di Hollywood come ambiente professionale che esige dei temperamenti particolarmente ossessivi è di antica memoria e di grande forza drammatica. Peraltro, essa non ricorre soltanto nei film ma anche nella letteratura: “Gli ultimi fuochi” di Francis Scott Fitzgerald, scrittore che non a caso trascorre l’ultima fase della sua vita lavorando infelicemente come sceneggiatore, e “Perché corre Sammy?” (What Makes Sammy Run?, 1941) di Budd Schulberg, anch’egli sceneggiatore e figlio di un magnate dell’industria, ne sono una buona dimostrazione. Tuttavia, va notato come la figura del produttore spietato non faccia la sua comparsa nel cinema autoreferenziale fino agli anni Cinquanta (nei film degli anni Trenta, come “A che prezzo Hollywood” ed “È nata una stella”, i moguls del racconto sono figure pittoresche e bizzarre, ma tutt’altro che sadiche o egocentriche).
È solo nel 1952 che “Il bruto e la bella” inaugura questo genere di caratterizzazione psicologica, che sarà poi ripresa più e più volte nelle opere immediatamente successive. Di nuovo, notiamo come il decennio dei Cinquanta si caratterizzi per una spiccata negatività nel tratteggiare il mondo dell’industria. Le contaminazioni noir in una cornice sostanzialmente melodrammatica, l’atmosfera di soffusa paranoia, la narrazione costruita per flashback che sembra rievocare, sulla falsariga del celebre modello di “Quarto potere”, il senso di una detection sulle vere ragioni del protagonista, sono solo alcuni dei tanti elementi che contribuiscono all’idea di Hollywood come luogo che distrugge qualsiasi felicità personale in nome dell’ambizione, del successo e del denaro. E tuttavia, il personaggio di Shields, pur nella sua negatività, risulta troppo affascinante, creativo e titanico perché si possa parlare, anche in questo caso, di una completa demistificazione del mondo del cinema.
Siccome gli sceneggiatori erano solitamente indicati come “gli intellettuali di Hollywood” e spesso provenivano da precedenti esperienze nell’ambito della letteratura, del teatro o del giornalismo, non sorprende se la tensione tra desiderio di libertà creativa da parte del singolo e potere schiacciante e indifferenziato dell’apparato economico sia molte volte rappresentata come scontro tra questa categoria professionale e quella dei producers. Talvolta, può accadere anche che a fare le spese del potere debordante dei magnati della Hollywood classica sia il personaggio del regista. A tal proposito, si veda l’esempio di “La contessa scalza”, dove il regista di talento Harry Dawes (Humphrey Bogart) è costretto a una posizione di sudditanza rispetto al sadico e mediocre Kirk Edwards (Warren Stevens), che si ritrova a capo di una major unicamente per questioni ereditarie. Anche in casi simili il conflitto è solitamente
descritto come quello fra un’intelligenza creativa, che ambisce a emancipare la qualità dei progetti in cui è coinvolta, e un atteggiamento invece ottuso, rigido, incapace di riconoscere il vero talento se questo rischia di mettere in discussione la sua autorità.
Un’interessante variazione sul tema – su cui ci si soffermerà più volte tanto nelle pagine dedicate al film di Ray quanto in quelle dedicate al film di Minnelli – è rappresentata da “Il grande coltello” di Robert Aldrich dove lo scontro si consuma tra Stanley Shriner Hoff (Rod Steiger), tipica figura di tycoon spietato fino al punto di rasentare la malattia mentale, e Charlie Castle, star hollywoodiana stanca di interpretare film mediocri, e desiderosa di tornare all’esperienza del teatro d’impegno politico da cui proviene. Oltre a spostare per una volta l’attenzione dall’immagine della star femminile a quella maschile, e in particolare alla capacità anche del divo maschio di esprimere, attraverso il corpo, un ideale di bellezza ed erotismo (Charlie non è solo una stella ma anche un sex symbol), questo film ci ricorda uno degli aspetti più controversi dell’organizzazione economica dello star system classico. Infatti, come sottolinea Mark Cerisuelo, «il film [di Aldrich] è probabilmente l’unico del filone ad insistere sull’importanza del contratto settennale che legava gli attori alla loro casa di produzione» <119. Pratica strenuamente osteggiata da alcune delle più importanti celebrità della Golden Age (tra cui Bette Davis e Olivia de Havilland), tale forma contrattuale ha consentito all’industria di esercitare un vero e proprio predominio sul suo star system per tutti gli anni Trenta e Quaranta.
Paul MacDonald spiega bene gli aspetti ambivalenti e oppressivi di questa prassi nel seguente passo:
“Onde garantirsi il completo controllo sul loro talento, gli studios mettevano le star sotto un tipo di contratto che poteva durare per un massimo di sette anni, e che era di solito formulato in modo tale da consentirgli di dirigere e sfruttare appieno la loro immagine. Sottoposti a questo genere di controllo, i divi stessi capivano che erano impossibile per loro lavorare al di fuori dello studio system. Tuttavia, se le star avevano bisogno degli studios, anche gli studios avevano bisogno delle star. Il potere dello star system era riconosciuto non sole dalla case di produzione ma anche dagli stessi divi, e non è un caso che il periodo sia contrassegnato da episodi di scontro tra le star e gli studios” <120.
Inoltre, si consideri che mentre i produttori avevano la possibilità di rescindere il contratto dei loro performers, questi invece non disponevano di alcun potere legale che consentisse di romperlo. Per tutta la durata dell’obbligazione, lo studios decideva non solo la retribuzione della star ma anche a quali produzioni dovesse partecipare o soprattutto quali tipi di ruolo dovesse incarnare. A questo squilibrio di potere si aggiungeva poi la diffusa abitudine delle otto grandi a “prestarsi” fra loro gli interpreti che avevano sotto contratto. Il che poteva nuovamente avvenire senza il consenso dei diretti interessanti. Sebbene durante gli anni Cinquanta queste condizioni contrattuali rimangano sostanzialmente inalterate, il decennio si segnala per una maggiore ricerca di indipendenza e controllo sulla propria carriera da parte delle star. Significativamente diretto nel 1955, “Il grande coltello” rievoca la prassi del contratto settennale (che il protagonista del film è costretto a rinnovare perché ricattato dal suo produttore) al fine di suggerirci l’idea di Hollywood come di un moderno Leviatano. Un mostro che lega a sé per anni e anni le sue vittime, e ne divora sogni e ambizioni declassandole a pure materiale di merchandising. Il fatto che la sceneggiatura sia mutuata da un pièce teatrale del 1949 di Clifford Odets e che ne conservi l’atmosfera claustrofobica tipica del dramma da camera risulta una scelta ottimale per esprimere la condizione di asservimento e costrizione cui Charlie è sottoposto dalla macchina hollywoodiana. Diversamente da quanto accade in altri film autoreferenziali, qui Aldrich non ci conduce in nessuno degli ambienti tipici del cinema americano. Non vediamo gli esterni di alcun teatro di posa o di alcuna importante strada o località di Los Angeles, non veniamo ammessi nell’ufficio del dispotico ma potente Stanley Hoff e neppure in alcun ricevimento mondano (tuttavia, sentiamo parlare delle feste come di una pratica ricorrente e ossessiva); quanto al lavoro di Charlie come attore ci viene mostrata molto sinteticamente solo la fine di una sessione fotografica pubblicitaria e nulla più. In maniera non dissimile da quanto avviene in “Il diritto di uccidere”, il dramma di Charlie, anch’egli uomo di cinema come Dix, si consuma nell’intimità domestica della propria casa, una villa hollywoodiana provvista di ogni agio (come la mitologia del successo esige), ma esposta alle invasioni continue di opportunisti e nemici (oltre al produttore crudele, giornaliste pettegole e vendicative, starlet incapaci di discrezione, tentatrici senza scrupoli, etc.).
Inoltre, entrambi i film, attraverso l’atmosfera cupa e paranoica che li connota, alla presenza nel primo caso di un delitto irrisolto sullo sfondo e nel secondo di un’oscura trama di ricatti che avvolge il personaggio fino a stritolarlo, sembrano porsi come potenziale metafora del coevo fenomeno della caccia alle streghe, lasciando così intravedere un’altra direzione che il cinema di ambientazione hollywoodiana segretamente abbraccia nei primi anni Cinquanta.
Più in generale, come vedremo nell’ultimo capitolo, film come “Il diritto di uccidere” e “Il bruto e la bella”, attraverso le vicissitudini di due categorie professionali (sceneggiatore e produttore) considerate agli antipodi, tracciano un’altra sfaccettatura del lato oscuro di Hollywood. I film incentrati sulla stardom femminile, da quelli più ottimisti a quelli più negativi, espongono, in fondo, la vulnerabilità del costrutto mitico della diva a causa di avvenimenti sentimentali infelici, dell’inevitabile trascorrere del tempo, o del semplice fatto di essere donna. Condizione, quest’ultima, la cui universale problematicità prescinde dallo statuto divistico. Invece, questi ultimi due titoli, parlando di professionalità solitamente considerate maschili (almeno nel secondo caso), espongono più il lato oscuro del business hollywoodiano, con un’attenzione maggiore per l’apparato produttivo. Naturalmente, si può obiettare che le questioni alla radice rimangano le medesime per tutte queste opere (anche l’interruzione della carriera di una star per sopraggiunti limiti di età è chiaramente spia non solo di implicazioni culturali ma anche di logiche industriali discutibili) e che cambi solo l’angolazione da cui il film ci vuole comunicare la sua idea dominante: nessuno show business è tanto affascinante quanto crudele come quello hollywoodiano. Ci troviamo così di fronte alle tessere di un
mosaico o alle schegge di un riflesso speculare che restituiscono solo una visione contraddittoria e frastagliata del mondo del cinema.
In una recensione al monumentale volume di Sam Staggs “Close-up on Sunset Boulevard” apparsa su «Kirkus Reviews», il capolavoro di Wilder viene definito “[a] poisoned love letter to the movies” («un’avvelenata lettera d’amore ai film») <121. Una bellissima definizione, questa, che può applicarsi perfettamente a tutto il cinema su Hollywood del periodo classico dato che riassume quei due atteggiamenti dicotomici che da sempre lo caratterizzano e di cui parlavamo all’inizio: trasfigurazione mitica da un lato, contemplazione disincantata dall’altro.
Infine, resta da comprendere – e questo tenteremo di farlo in ciascun capitolo – se questa missiva innamorata e pungente insieme non sia soltanto diretta a Hollywood, ma anche all’America stessa. In altre parole, si tratta di scoprire quanto il riflesso su Hollywood messo in atto da questi film valga anche come riflesso più generale del paese, del suo sistema valoriale, dei suoi miti, dei suoi poteri e strapoteri culturali. O come ha affermato più sinteticamente il produttore cinematografico Irvin Winkler: «Noi guardiamo a Hollywood per comprendere l’America. Del resto, tutti noi siamo un prodotto dei suoi film» <122.
[NOTE]
117 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema Americano 1930-1960, trad. it. Riccardo Duranti, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 15-7. (ed. or. The Inquisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960, Doubleday, Garden City, N.Y. 1980).
118 Ivi, p. 19.
119 Marc Cerisuelo, op. cit., p. 287.
120 Paul McDonald, The Star System: Hollywood’s Production of Popular Identities, Wallflower, London 2000, p. 42.
121 Kirkus Reviews, Close-up on Sunset Boulevard by Sam Staggs, «Kirkus Reviews», 3 May, 2002, https://www.kirkusreviews.com/book-reviews/sam-staggs/close-up-on-sunset-boulevard/.
122 Cit. in Patrick Donald Anderson, op. cit., p. 309. Irwin Winkler è stato produttore di due importanti opere autoreferenziali degli anni Settanta: Vecchia America di Peter Bogdanovich e Valentino di Ken Russel.
Diletta Pavesi, Poisoned Love Letters to the Movies. La contraddittoria rappresentazione di Hollywood nel cinema americano classico (1932-1962), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2014

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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