Per Ottieri la scrittura è una ragione di vita

Tra le varie definizioni attribuite ad Ottiero Ottieri da parte della critica, quella che ricorre maggiormente è l’inclassificabilità. Romanziere, saggista, poeta, sceneggiatore, drammaturgo, Ottieri è stato uno scrittore “camaleontico” che, attraverso un ampio corpus di opere (trenta per l’esattezza) pubblicate tra il 1954 ed il 2002, ha dispiegato il suo eclettico pensiero e molteplici interessi culturali, approfonditi da studi che hanno attraversato la letteratura, filosofia, psicologia, psichiatria, sociologia e politica, in tre grandi aree tematiche, l’industria, la clinica e la politica, scandagliando in profondità uno stato di sofferenza e di malessere privato e pubblico, inscindibile tra l’uomo e la società, con un impegno intellettuale specifico nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento.
Eppure il “sistema” culturale italiano ha relegato Ottieri, inteso come un “caso clinico” più che “letterario”, in un angolo della storia della letteratura italiana dove riesce ad emergere con pochi titoli, nonostante le numerose recensioni, saggi, articoli, profili bibliografici che importanti critici, poeti o scrittori <1 gli hanno dedicato riconoscendo in lui una particolare originalità letteraria.
Ritenuto il pioniere della cosiddetta “letteratura industriale” con la sua tetralogia formata da “Tempi stretti” (1957), “Donnarumma all’assalto” (1959), “I venditori di Milano” (1960) e “La linea gotica” (1963), Ottieri fu il primo ad affrontare, dal punto di vista letterario, le problematiche relative alla condizione degli operai italiani nella società industrializzata durante il “miracolo” economico sviluppatosi nel dopoguerra.
Ottieri si era trasferito a Milano nel ’48 volendo farsi assumere in una fabbrica per partecipare attivamente, dopo aver studiato la condizione operaia soltanto sui libri (soprattutto di Marx e Simone Weil), a un processo storico determinante per l’Italia, quello dell’industrializzazione: «Dovevo capire, vedere con i miei occhi il problema del rapporto tra l’operaio e la macchina così come l’avevo letto in Marx. Sono stato una specie di piccola Simone Weil». <2
Il mondo dell’industria rappresentava una novità significativa nella vita di Ottieri, uomo e scrittore, poiché dal suo retaggio culturale e dalla famiglia di antica nobiltà senese la fabbrica si stagliava come un’immagine rarefatta, quasi irreale, ma proprio per questo motivo affascinante ai suoi occhi: “La mia scelta tra agricoltura e industria. Nella prima ho qualcosa alle spalle, una tradizione, o un’abitudine, una predestinazione. Nell’industria niente. Non c’è un briciolo d’industria in tutta la mia storia o in quella della mia famiglia per secoli. Eppure l’industria concentra i nodi del mondo contemporaneo, guida tutte le risposte concrete alle nostre domande, e infine serve da miraggio per sfuggire una buona parte delle nostre contraddizioni”. (LG, p. 31)
Dalle esperienze dapprima come giornalista per l’Anonima Periodici Internazionali, che lo porta nel ’51 a dirigere la rivista mensile di divulgazione scientifica «La Scienza Illustrata», fino all’assunzione con l’incarico di selezionatore del personale nelle fabbriche Olivetti di Ivrea nel ’53 e di Pozzuoli due anni dopo, Ottieri ricava materia sufficiente per redigere romanzi ambientati nel mondo industriale, pensiero che lo stava assillando fin dall’arrivo a Milano (il primo “approdo” fu nel ’47).
Ottieri ha aperto in questo modo la breccia su una tematica, ovvero il rapporto tra letteratura e industria, che si svilupperà soprattutto negli anni Sessanta, come dimostrano i lavori di Volponi, Parise, Bianciardi e Mastronardi, rimanendo per molto tempo, suo malgrado, “imprigionato” nell’etichetta di scrittore industriale per eccellenza, quando il seguito della sua produzione dimostrerà invece un percorso differente.
Ed infatti a metà degli anni Sessanta, Ottieri, avvertendo la conclusione dell’esperienza industriale, cercò una nuova materia letteraria che potesse esplorare «gli spazi cosmici soggettivi che stanno nell’uomo e nella donna fra la disperazione e la ragione» (IS, p. 15), per indagare sia la malattia dell’anima che la ricorrenza di inquietudini comuni tra gli individui.
Questa sorta di “speleologia” nei meandri del Male fu resa possibile dai ripetuti disturbi psichici che caratterizzarono la sua vita, dalla depressione cronica alla bipolarità all’alcolismo, considerati come l’essenza preminente della sua letteratura. È vero che dall’”Irrealtà quotidiana” (1966) all’ultimo romanzo “Una irata sensazione di peggioramento” (2002) le malattie mentali si presentano nelle sue opere in molteplici aspetti e con sintomi differenti quali la depressione, sentimento d’irrealtà, depersonalizzazione, schizofrenia, alcoolismo, angoscia, nausea, pazzia, allucinazioni, alienazione, diventando spesso le coprotagoniste accanto al personaggio autobiografico rinchiuso in un manicomio. Eppure erroneamente si è dato maggior risalto al “caso clinico” di un uomo che esprime la propria sofferenza mentale attraverso la scrittura, rispetto al “caso letterario” di un autore che, per la sua originalità, complessità e unicità, rappresenta in Italia un’inconsueta testimonianza letteraria nel secondo Novecento.
Nelle opere di Ottieri la malattia mentale parla, vive, soffre, agisce mentre lo scrittore prova a distenderla in prosa per spiegarla e farne risaltare la sofferenza, dando voce al personale malessere psichico che si trasforma in gioco, invenzione, manipolazione infinita, contatto con persone e cose attraverso libri-pastiche, romanzi, poemi, poemetti, poesie, pseudo-sceneggiature, commedie teatrali. Ottieri riesce, per mezzo di numerosi alter ego, a somatizzare i vari disturbi mentali ponendosi come personaggio che si osserva e si racconta attraverso un’auto-vivisezione analitica di se stesso: «Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per scrivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà» (CC, p. 21). Per Ottieri la scrittura è una ragione di vita, o meglio l’unica “vita” possibile, un’autoanalisi riflessiva che scava nelle profondità della malattia, esponendolo di continuo alla stessa, per perlustrarla, scandagliarla fino a scioglierla in parole attraverso una debordante volontà espressiva che lo rese già nell’adolescenza un grafomane (lo stesso Ottieri parla a tal proposito di «graforrea»).
Mediante l’esperienza del malessere psichico, partendo dalle proprie idiosincrasie mentre parla di sé, Ottieri scruta in modo viscerale il mondo esterno per comprendere il volto sfuggente della realtà; e per questo l’indagine minuziosa della sua sofferenza non gli ha mai fatto trascurare le situazioni storiche e culturali contemporanee. La malattia, intesa come uno strumento di conoscenza della realtà esterna e di se stessi, è dunque per Ottieri anche un passaggio obbligato per comprendere l’esistente insieme al Male che corrode la società.
Per Ferroni «la sua opera si rivela allora come un “entretien infini”, un continente dai mille tentacoli» <3, che registra la malattia dell’io e quella del mondo.
Ottieri ha bisogno di scrivere per restare in vita e contemporaneamente necessita della malattia per capire il proprio io. L’«infezione psichica» è per lui l’unica essenza vitale senza la quale non sarebbe vissuto tanto a lungo; mentre le cure, i medicinali, gli “sciroppi”, le terapie, le «lotte analitiche», l’alcool, si dimostrano nel tempo strumenti validi per condurre quest’introspezione nelle profondità della sua mente lucida e macerata. Il “cancro dell’anima”, ovvero la depressione, non debilita l’ispirazione, anzi riesce a generare una scrittura che zampilla dalle zone inesplorate dell’animo umano, e che solo una “speleologia” costante e senza remore può far risalire in superficie (sulla pagina) poiché lo scrivere non è un atto successivo allo studio del Male, cioè il vivere, bensì un procedimento simultaneo: «Il problema del vivere e dello scrivere ha pesato su tutta la mia vita. Non l’ho mai risolto, o scrivendo troppo o vivendo “troppo” (senza vivere)» (CC, p. 14).
La letteratura di Ottieri, che sembra all’apparenza ripetitiva quando affronta il tema della malattia mentale, riesce a configurare in forme diverse la materia narrata grazie ad uno studio incessante sul “Male di vivere” che gli consente di proiettare tutto se stesso, uomo e scrittore, anima e corpo, verso nuovi orizzonti da esplorare: «Quanto più il suo Io si disgregava, tanto più egli esaltava la vita. Nel massimo della autodistruzione, egli esaltava e sospingeva, spingeva alla vita, pedagogicamente» (ISP, p. 56).
In questo progetto, scrivere del Male che è la sua vita, Ottieri è “favorito” dalla conformazione fisica del Male stesso, o meglio dal luogo del corpo in cui esso vive, alberga, prospera, si rigenera, si riproduce: il cervello. «Gli uomini hanno un cervello, organo fisico come tutti gli altri organi, che tuttavia può pensare anche alla metafisica» (ISP, p. 20). A questo si aggiunga che alcuni additivi, come il vino, la birra e gli alcolici (a “360” gradi), o anche le varie pasticche o “sciroppi” miracolosi, possono influenzare materialmente la scrittura, dilatando il cerchio maligno della creazione letteraria: chi è costui che scrive? Un malato, un depresso, un alcolizzato, un poeta, un tossicodipendente, un «autore minore»? La situazione, già ingarbugliata, si complica ulteriormente se quest’uomo è uno scrittore che, oltre ad analizzare il proprio Male, si fa portavoce nelle sue opere di un malessere pubblico, sociale e storico, tentando di afferrare con spasmodica voracità il “Male del mondo”: «Sono un’antenna scorticata / che riceve da tutto il mondo» (DSP, p. 87).
Di clinica in clinica si svolgono le “avventure” dei personaggi malati, rinchiusi in una «prigione», condannati all’«inferno» o anche annullati in un «campo di concentrazione»; la clinica si presenta come un microcosmo con i suoi tempi (spesso morti), le sue regole e le sue illusioni; dunque un locus poco amoenus in cui Ottieri fa riflettere poeticamente le proprie vicende autobiografiche come nel “Campo di concentrazione”, “Contessa”, “La corda corta”, “I due amori”, “L’infermiera di Pisa”, “Cery”, “Una irata sensazione di peggioramento”.
Ottieri riesce ad accumulare una materia multiforme contenente frammenti della realtà storica e sociale in cui gli uomini si trovano indistintamente immersi, mentre affiora dalle sue opere l’immagine di un’enorme clinica (il mondo moderno) che è in realtà un “campo di concentrazione” ben camuffato, costruito da un Potere tecnocratico e consumistico che, grazie all’uso massiccio della televisione e della pubblicità, riesce a manipolare il corpo e la mente degli uomini fino a renderli dei cloni o degli automi omologati. La clinica è dunque una metafora della società, recintata dal filo spinato di un immenso lager da cui non si uscirà mai; e non a caso Ottieri, per descrivere la vita all’interno di un manicomio, utilizzerà un titolo emblematico come “Il campo di concentrazione”.
Nell’analizzare il proprio Male, Ottieri rivolge una particolare attenzione alla psicoanalisi che accompagna il suo percorso letterario, dall’incoscienza iniziale delle “Memorie” fino all’”Irata sensazione”, in cui si narra della vita
quotidiana nelle cliniche tra depressi, alcolizzati e schizofrenici che s’interrogano intorno alla malattia, conoscenza, amore, morte, realtà, irrealtà.
“Così si descrive l’irrealtà univocamente, come una difesa contro il dovere maturo di rassegnarsi al finito; e poi come una rinuncia all’infinito, all’infinità possibilità, da parte di un uomo che si fa adulto e impara faticosamente l’esame di realtà. Senza ancora volerlo siamo scivolati in una interpretazione di tipo psicanalitico della irrealtà”. (IQ, p. 28)
La psicoanalisi, «il lavoro di analisi è un buco che si fa nel profondo, buco che viene continuamente ricoperto da detriti, che sono i sintomi» (CC, p. 18), è dunque una componente imprescindibile della poetica di Ottieri il quale, fin dalla giovinezza, s’interessa proprio di psicanalisi intesa come strumento per analizzare gli spazi interni, soggettivi e ancora inesplorati dell’animo umano: “Il freudismo intende spiegare anche la scelta di se stesso. Analizzerà il
mio arrivo alla psicoanalisi nel lontano 1940, tramite un amico. Quale amico? Perché le sue parole mi impressionarono? La psicoanalisi rincorre il suo a priori”. (IQ, p. 183)
“Ho cominciato presto a leggere Freud e ho avuto i primi contatti con un analista nel ’46, appena finita la guerra. Sono stato fra i primi in Italia”. (CC, p. 91)
La psicanalisi viene studiata e “vissuta” da Ottieri sul proprio corpo, dentro l’anima, diventando una costante della sua vita ed il perno intorno al quale ruotano molti lavori.
Musatti, Zapparoli e Cassano sono alcuni psicoanalisti che lo hanno avuto in cura per molti anni e con i quali egli ha “lottato” per contendere il primato dello scavo profondo nel suo animo. Gli studi di psicoanalisi e l’autodiagnosi, inoltre, hanno spinto Ottieri a trasformarsi nel medico di se stesso, iniziando con l’analista curante di turno delle «lotte analitiche» interminabili, accuratamente descritte nell’”Irrealtà quotidiana”.
Ma oltre all’industria e alla clinica, Ottieri rivolge grande attenzione al tema politico; in ogni sua opera la cronaca è sempre attuale, con una dettagliata trattazione della storia italiana dal fascismo delle “Memorie dell’incoscienza” (1954) alle elezioni politiche del 2001 dell’”Irata sensazione di peggioramento” (2002). Si potrebbe, infatti, ricostruire la storia italiana del Ventesimo secolo attraverso i suoi testi poiché essi si presentano come un documento letterario degli eventi accaduti in Italia dagli anni Quaranta al Duemila, passando attraverso l’infatuazione per il Duce, il fascismo adolescenziale, la seconda guerra mondiale, la Resistenza, la ricostruzione, il boom economico, la rivolta contro i Padri, l’esaltazione socio-marxista, la delusione storica, l’illusione del socialismo, il Sessantotto, la corruzione della politica italiana, Tangentopoli, il crollo del sistema sovietico, l’ascesa di “Sua Emittenza” Berlusconi, l’inabissamento della democrazia in Italia.
Con uno sguardo fortemente critico, lo scrittore osserva nel tempo i cambiamenti della società italiana, ne avverte le nefandezze e non lesina attacchi, a volte anche feroci e attraverso una scrittura dura, limpida, eccessiva e sorprendente, contro chi si è reso partecipe, riuscendovi nel corso dei decenni, della dissolvenza della Repubblica italiana. L’attualismo accompagna l’engagement personalissimo di Ottieri, spinto da un enorme amore per la realtà
che secondo Silvio Perrella è «così eccessivo da arrivare dall’altra parte, fino all’interesse profondo per l’irrealtà quotidiana». (Convegno, p. 33)
Dopo l’incoscienza giovanile legata al fascismo, Ottieri diventa un «picchiatore di sinistra» (PO, p. 53), s’iscrive al PSI ma senza rinnovare la tessera per un bisogno di piena autonomia, mentre per alcuni anni collabora anche all’«Avanti!». Non è un caso che proprio al PSI Ottieri dedicherà la sua autobiografia politica con il poemetto “Storia del PSI nel centenario della sua nascita” («Aveva sempre ritenuto il politico tema di poesia» ISP, p. 21), in cui ripercorre «la marcia d’avvicinamento alla condizione operaia di quell’operaista fanatico che era un piccolo agrario» (PSI, p. 12). Ottieri si legherà, più idealmente che politicamente, al PSI dagli anni Quaranta fino al suo scioglimento, non abbandonando la “baracca” nemmeno quando la tempesta di Tangentopoli stava polverizzando la granitica struttura del partito; al contrario il collasso del PSI equivalse per lui ad una crisi d’identità personale che andava oltre le “regole” di partito. Ottieri si ribella alla corruzione devastatrice del PSI ed in primo piano pone «Asdrubale» Craxi, il «Satrapo», il Padre del partito, fautore in primis di una politica “ottimista” dedita alla pantagruelica abbuffata della derelitta amministrazione pubblica, ed in seguito sostenitore della scalata all’empireo politico dell’homo novus Berlusconi.
A questo proposito è indicativa la raccolta di poesie che Ottieri scrisse negli anni Ottanta, “L’estinzione dello Stato”, titolo che qualche decennio dopo si circonderà di un’aurea drammaticamente profetica: un paese cadaverico dominato dalle immagini e dalla pubblicità in cui la televisione frantuma il pensiero, omologando i desideri e i bisogni di tutti: «L’avanzante frantumazione delle immagini, alla tele, Italia 1 in testa, ci frantuma l’occhio e il pensiero. Il consumismo non si sgretola. Ci sgretola. Ha ragione la mafia. Chi non spara, non mangia. Il video spara» (PO, p. 98).
Alla “Storia del PSI” segue un breve poemetto “Il Padre”, sul complesso rapporto avuto col genitore, agrario e fascista con cui instaura una «pugna» incessante fin dall’adolescenza. La politica s’intreccia per Ottieri con l’inconscio, il sociale con l’individuale, il plus-dolore con il plus-valore, Freud con Marx: «Il filo che lega la psicoanalisi e il marxismo si ritrova sempre: la “presa di coscienza”, l’idea limite di libertà come superamento concreto (cioè economico nel marxismo ed emozionale nella psicologia analitica) della necessità» (LG, p. 34).
«Sono pazzo?» chiede frequentemente Ottieri a tutti i medici e le infermiere che lo curano. La sua disponibilità tragica ad accogliere il Male in modo totale e coinvolgente lo conduce a trasformarsi in un contenitore assoluto e con pochi filtri (tra i quali la scrittura), assorbendo quello che di comune accordo “est mis à l’écart”. Vorrebbe una risposta che non arriverà mai. Tuttavia la follia e l’ossessione non appartengono a lui soltanto, ma, a quanto sembra, alla società intera dedita all’apparenza, alla volgarità delle merci e ai quiz televisivi: “Il peggioramento del paese è tale da travolgere tutto. […] L’Italia è una Repubblica sfondata da Berlusconi – come recita il primo articolo della
nuova Costituzione – mentre lo Stato, e figuriamoci il senso dello Stato, si squaglia come un bel gelato impotente, invendibile (la cultura non è economica, quindi deve sparire a favore non dell’antiromanzo, bensì dell’anticultura), al cosiddetto Presidente del Consiglio non resta che impiccarsi. […] Con sei televisioni il Potere oggi è assicurato per sempre e non lascia il minimo pericoloso spiraglio di libertà. […] Il popolo schiavo dei soldi disprezza i propri diritti e doveri civili”. (ISP, pp. 52, 70, 165)
Progetto letterario
La scrittura di Ottieri nasce da uno stato di malessere che non permette agevolazioni, dove il coinvolgimento per le vicende narrate, dentro una fabbrica come in clinica oppure all’interno delle mura domestiche, è profondo e sofferente. Ottieri, che Stefano Mauri efficacemente definisce uno «speleologo della sofferenza» (Convegno, p. 7), ricerca all’interno di se stesso e della società contemporanea quelle profonde lesioni non più rimarginabili; e come uno scandaglio che cala dalle prore in fondo al mare, la scrittura di Ottieri sviscera il male profondo vissuto dall’uomo in un mondo alienante dove l’unica costante è la sofferenza. Ottieri, come esempio della sindrome di bipolarità, si sdraia sul
lettino di uno psicanalista o di un chirurgo, analizza e nello stesso tempo si fa analizzare, viviseziona e si fa vivisezionare nell’alternativa di ruoli presente nell’”Irrealtà quotidiana”. Da queste premesse metodologiche, Ottieri ci offre la possibilità di intraprendere un allucinante viaggio letterario all’interno della psiche, attraverso esperienze vissute in prima persona nell’industria dove ha lavorato, nelle cliniche dove ha trascorso molti anni della sua vita, e nella politica in cui ha riversato il proprio engagement corrosivo e lungimirante, a volte vernacolare come nel “Poema osceno”, dall’incosciente fascismo adolescenziale al più maturo socialismo di derivazione marxista.
Oltre ad aver introdotto la “letteratura industriale” in Italia, Ottieri affronta la tematica della malattia mentale sotto ogni aspetto, dai sintomi, ai ricoveri, alle terapie, alla “lotta” con i medici, alla vita dentro le cliniche. E nel panorama della letteratura italiana è stato uno dei pochi che per intensità narrativa abbia descritto i propri disturbi psichici in modo avvolgente, estremo, drammatico e a volte ironico, esplorando le disfunzioni della mente e del cervello senza filtri o rappresentazioni attenuate.
[…] La forma diaristica è per lui quella più diretta per esprimere la pulsione primaria degli eventi nel momento in cui accadono nella stretta quotidianità, catturando con le date e sviscerando giorno dopo giorno le situazioni (a volte insostenibili) della sua vita. “Donnarumma all’assalto”, “La linea gotica”, “Il campo di concentrazione”, “Il diario del seduttore passivo” sono, in diverse forme, dei veri e propri diari.
L’autobiografia, non solo attraverso i diari, è evidente quando si constata che dai ricordi giovanili derivano “Le memorie dell’incoscienza”, dall’esperienza di Pozzuoli “Donnarumma all’assalto”, dal soggiorno a San Rossore “L’infermiera di Pisa”, dal ricovero nella Klinik am Zürichberg “Il campo di concentrazione”, dalla stagione mondana “I Divini mondani”, dai mesi trascorsi alle Betulle “La corda corta”, dagli “arresti domiciliari” “Le guardie del corpo”, dalla clausura di Via San Primo “Il Poema osceno”, dal ricovero all’ospedale di Losanna “Cery”, dalla terapia seguita a Padova con Gallimberti “Una irata sensazione di peggioramento” etc. […]

[NOTE]
1 Tra i tanti si possono ricordare Albinati, Baldacci, Benedetti, Calvino, Colombo, Contini, Corti, De Michelis, Ferretti, Ferroni, Giudici, Gramiglia, Magrelli, Manica, Mauro, Montesano, Nesi, Onofri, Pampaloni, Pannunzio, Pasolini, Pedullà, Perrella, Petronio, Pompilio, Raboni, Salinari, Segre, Siciliano, Soldati, Spagnoletti, Vittorini, Zanzotto.
2 Dall’intervista rilasciata a Lea Vergine in Gli ultimi eccentrici, Rizzoli, Milano 1990, pp. 231-237. Per le prossime citazioni ci si limiterà ad indicare tra parentesi il titolo del libro (Gli ultimi eccentrici) con il numero di
pagina a cui si farà riferimento.
3 FERRONI Giulio, Ottieri, l’ultimo assalto, in «L’Unità», 26 luglio 2002.

Fabrizio Di Maio, L’Opera di Ottiero Ottieri, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Anno accademico 2009/2010

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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