Peter Brooks e la ‘trama maestra’ di Freud

Peter Brooks è stato fra i primi a individuare nel modello di trauma elaborato da Freud lo strumento ideale per la comprensione della dinamica narrativa. <64
L’applicazione di “Al di là del principio di piacere” al testo letterario gli ha permesso di superare la concezione statica della narrativa tipica dello strutturalismo. In effetti, secondo Brooks, il testo di Freud incoraggia l’assimilazione del problema della fine della vita umana a quello della fine dei romanzi. <65
Come si è visto, Freud aveva esteso l’analisi delle nevrosi “traumatiche” e “di destino” all’intera dinamica della vita pulsionale. La coazione a ripetere che caratterizza i sogni traumatici determina, secondo Freud, un ritardo nel raggiungimento della morte. L’energia in eccesso, cioè libera (o “non legata”), che col trauma ha fatto irruzione nella psiche è sottoposta a un lavoro di legatura, terminato il quale essa può essere “scaricata”. Questo scarico, a sua volta, permette la morte, che consiste nella realizzazione della pulsione a raggiungere uno stato di quiete precedente. I traumi determinano la pulsione di morte, la intensificano, sono il momento in cui la pulsione di morte è più forte e allo stesso tempo la morte è più lontana. L’organismo è in una condizione paradossale: l’evento traumatico l’ha posto nell’immediata vicinanza della morte, eppure, allo stesso tempo, costringendo la psiche alla legatura, il trauma l’ha ritardata e allontanata. La forza della pulsione è proporzionale alla distanza instaurata dalla legatura tra il momento del trauma e quello della morte. A sua volta, tale distanza (e tale lavoro) è inversamente proporzionale alla distanza dalla morte a cui il trauma ha posto l’organismo.
Secondo Brooks, l’articolazione di inizio, metà e fine in cui consiste la trama romanzesca è determinata dal desiderio della fine. Il testo funziona come un organismo, ed è animato da una pulsione di morte narrativa: tende cioè a ristabilire lo stato di quiete che ne precede la nascita, la cui alterazione coincide con l’avvio della storia. Tuttavia, l’organismo non si accontenta di qualunque fine (di una fine qualunque), ma sceglie la fine adatta <66. Allo stesso modo, gran parte del lavoro della trama consiste nell’evitare il pericolo di una morte sbagliata. In effetti, la deviazione coincide con il pericolo di una morte anticipata. I momenti di pericolo, in cui il romanzo sfiora la morte e la evita, equivalgono a delle esperienze traumatiche. Le diversioni del racconto dalla linea retta che conduce alla morte (alla fine del romanzo) corrispondono cioè alle esperienze traumatiche che determinano la pulsione di morte – che aumentano il desiderio della fine rendendola presente e poi allontanandola, approssimandola e differendola.
In effetti, come osserva Laplanche, il trauma funziona come un détour: “Ogni essere vivente aspira alla morte in ragione della sua tendenza interna più fondamentale, e la diversità dellla vita, come l’osserviamo nelle sue molteplici forme, non fa mai altro che riprodurre una serie di metamorfosi fissate nel corso dell’evoluzione, deviazioni [détours] avventizie provocate da questo o quel trauma, questo o quell’ostacolo supplementare”. <67
Il trauma costituisce dunque, nella storia di una vita, una deviazione (détour) “avventizia”. La diversione origina la diversità (diversité) della storia, ed è associata alla differenza, cioè al differimento supplementare (supplémentaire).
Freud, si è detto, aveva integrato le nevrosi traumatiche nel contesto più ampio della vita pulsionale. Nei termini di Caruth, era partito dall’esperienza del trauma per spiegare la dinamica della vita <68. Con un movimento analogo, applicando il modello freudiano, Peter Brooks è partito dalla narrazione traumatica alla ricerca di una comprensione generale della trama romanzesca. Pur occupandosi del funzionamento traumatico della letteratura in generale (o forse proprio per questo), Brooks non rende conto della singolarità dei testi traumatici, ovvero di quei testi che raccontano un trauma. Concentrandosi sul problema del desiderio narrativo in quanto desiderio della fine, entrambi assimilano la specificità del trauma nella continuità della storia.
Ma come si devono leggere allora quei testi che mettono in atto una feroce resistenza alla fine, che mettono in questione la possibilità stessa del movimento narrativo? Su questa domanda si incentrerà la lettura dell’opera di Samuel Beckett e di Alain Robbe-Grillet che proporremo rispettivamente nel secondo e nel terzo capitolo. <69
Sia Freud che Brooks ci indicano la strada, dicendoci che tra trauma e fine c’è un rapporto indissolubile: il trauma è, allo stesso tempo, un ostacolo sulla via della fine e un catalizzatore di quella forma paradossale di nostalgia dell’origine che è la pulsione di morte. Se testo letterario e figurativo condividono, come sostiene Brooks, il funzionamento dell’apparato psichico, allora la resistenza alla fine, l’immobilità del racconto andranno letti come sintomi di un trauma, che determina l’impossibilità della storia e la ripetizione letterale nel testo. L’analisi della forma traumatica deve dunque ridurre l’estensione del modello freudiano: deve cioè, per poterlo applicare, operare una restrizione simmetrica all’estensione di Freud e Brooks. Interrogarsi sulla possibilità del racconto traumatico significa domandarsi come la coazione a ripetere, cioè la ripetizione letterale dell’evento traumatico, possa conciliarsi con le necessità della creazione romanzesca.
È questo l’interrogativo posto dalle opere di Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet e Robert Morris.
[NOTE]
64 Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, trad. it. di Daniela Fink, Torino, Einaudi, 1995 (2° ed. 2004).
65 Ibid. p. 104.
66 In Speculare – su “Freud”, Jacques Derrida ha assimilato la predeterminazione della propria fine descritta da Freud alla scena del lascito, dell’eredità, e della cartolina (carte postale): “bisogna quindi […] inviarsi il messaggio della propria morte” (114).
67 Jean Laplanche, “Pourquoi la pulsion de mort?”, in Vie et mort en psychanalyse, Paris, Flammarion, 1970, p. 165.
68 Questo passaggio è ben esemplificato dall’improvviso abbandono dal problema delle nevrosi traumatiche per passare alla celebre analisi del gioco del rocchetto: “A questo punto propongo di abbandonare l’oscuro e tetro argomento della nevrosi traumatica e di studiare il metodo di lavoro che l’apparato psichico adotta in una delle sue prime attività normali: il gioco dei bambini.” (ADL, 26). Questo ‘abbandono’ è stato notato da diversi commentatori, tra i quali Derrida (Speculare – “su Freud”, op. cit., pp. 47-48) e da Caruth (UE, 116). Freud lascia dunque il problema della coazione a ripetere, ovvero della ripetizione letterale dei sogni: questa ripetizione sembra escludere il lavoro di assimilazione del trauma – la “perlaborazione” che per Freud è presupposto del ricordo -, ed impedire cioè la legatura che è sola condizione del raggiungimento della fine. Cfr. Sigmund Freud, “Ricordare, ripetere, perlaborare” (1914), in Opere, vol. 7, Totem e tabù e altri scritti, 1912-1914, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 353-361. In questo passaggio dall’adulto al bambino si preannuncia uno dei problemi fondamentali della teoria del trauma, sul quale tornerò più avanti, ovvero l’alternanza, all’interno dell’opera di Freud, di due modelli traumatici distinti e apparentemente incompatibili: quello infantile, associato alla rimozione, e quello adulto, esemplificato nella sua opera dall’incidente ferroviario.
69 Non casualmente Beckett e Robbe-Grillet sono i primi due scrittori considerati da Brooks nella “Conclusione” del suo studio: sono cioè i due autori su cui il suo studio si chiude, ovvero i primi che la sua analisi ‘esclude’. Brooks, Trame, op. cit., pp. 327-331.
Giovanni Parenzan, Trauma, memoria e immagine nel secondo dopoguerra, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno Accademico 2007-2008

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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