Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana

Sanremo (IM): un angolo della città vecchia

La prima edizione del Sentiero dei nidi di ragno uscì nell’ottobre del 1947 per l’editore Einaudi di Torino. Una nuova edizione del romanzo apparve nel giugno del 1964 e in essa l’autore inserì una lunga Prefazione, con il senso subito evidente di una sua riflessione sulla propria opera.
Come primo elemento di analisi Calvino prende in considerazione l’origine dell’opera e le motivazioni che ne stavano alla base:
“Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”. <97
La grande fioritura letteraria di quegli anni era per Calvino un fatto collettivo che riguardava l’esistenza di chi aveva vissuto la guerra e non se n’era sentito vinto o sopraffatto, ma vincitore e tutto preso da una grande euforia. Secondo l’autore “non era facile ottimismo ma un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero” <98. Tutti coloro che avevano vissuto quegli anni caratterizzati dalla guerra e poi successivamente dalla guerra civile erano carichi di storie da raccontare e finalmente godevano anche della possibilità di esprimersi in libertà. Si creava, per una sorta di condivisione di esperienze, una comunicazione immediata tra lo scrittore e il suo pubblico:
“[…] si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle “mense del popolo”, ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa da altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale”. <99
La guerra partigiana veniva quindi raccontata come un intreccio di storie, raccontate oralmente da coloro i quali l’avevano vissuta. Questo incontro di diverse voci richiamava secondo l’autore “le storie raccontate la notte attorno al fuoco”. Calvino sostiene quindi che i suoi primi racconti e il suo stesso primo romanzo si inserirono nella tradizione orale non solo per avvalorarne il materiale con una ulteriore documentazione, ma per esprimere “noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora” <100.
I personaggi, i paesaggi e tutti gli elementi che caratterizzarono l’esperienza vissuta divennero per l’autore “i colori della tavolozza”, “le note del pentagramma” da utilizzare per fare letteratura. Essi diedero vita a quel “neorealismo” che rappresentò il modo per “trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo” <101.
La definizione di quello che Calvino intendeva per neorealismo ci arriva dalle parole dello stesso autore:
“Il “neorealismo” non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza.) Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie […] senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato “neorealismo”.” <102
Per questo Calvino marcava la distanza tra il “proprio” realismo e il verismo regionale ottocentesco e il naturalismo in genere, scegliendo per propri capisaldi opere dalla forte connotazione stilistica come I Malavoglia (1881), Conversazione in Sicilia (1941) e Paesi tuoi (1941).
La narrazione viene resa personale e intima grazie all’inserimento della vicenda in un paesaggio definito da Calvino stesso come “gelosamente mio”. Infatti la storia si snoda a partire dal paesaggio della sua città, Sanremo, soprattutto nei vicoli della città vecchia dove Pin fa la sua apparizione. Il paesaggio, però doveva divenire funzionale al procedere della narrazione, doveva far emergere le persone e le loro storie. Infatti “La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone” <103. Il nuovo realismo, di cui Calvino stesso parla analizzando la propria opera, è quello che nacque dalla possibilità di far scorrere i propri personaggi e le proprie storie sullo sfondo del proprio, personale paesaggio.
In questa analisi del proprio romanzo l’autore rimarca più volte come questo sia il suo primo “lavoro” e spesso ne fa emergere i limiti legati a diversi aspetti:
“In questo romanzo […] i segni dell’epoca letteraria si confondono con quelli della giovinezza dell’autore. L’esasperazione dei motivi della violenza e del sesso finisce per apparire ingenua […]. E altrettanto ingenua e voluta può apparire la smania di innestare la discussione ideologica nel racconto, in un racconto come questo, impostato in tutt’altra chiave: di rappresentazione immediata, oggettiva, come linguaggio e come immagini”. <104
Tra i limiti dell’opera, secondo l’autore, emergono ad esempio le tematiche amorose o la scelta di concentrare tutta la discussione ideologica in un solo capitolo, il nono, attraverso le riflessioni del commissario Kim. Quest’ultima scelta fu criticata da alcuni lettori ma tuttavia Calvino decise di conservarla.
Altro tema critico che emerge è quello della “lingua-dialetto”. Ne Il sentiero dei nidi di ragno, questo rapporto è presente nella sua fase iniziale, più “ingenua” e il dialetto è “aggrumato in macchie di colore”, macchie come quelle, per esempio, dei quattro partigiani calabresi inseriti nel reggimento del Dritto. Il dialetto nelle opere successive di Calvino verrà quasi del tutto assorbito nella lingua, “come un plasma vitale ma nascosto”.
Altro elemento stilistico che l’autore ricollega ad una sua immaturità è il modo di descrivere i personaggi e la figura umana in generale con “tratti esasperati e grotteschi, smorfie contorte, oscuri drammi visceral-collettivi”. È proprio attraverso l’espressionismo che Calvino rende contraffatti e irriconoscibili i partigiani da lui realmente incontrati durante la sua esperienza.
Giunge a questo punto della trattazione forse il tema centrale della stessa. Calvino analizza la motivazione che l’ha portato a scrivere della Resistenza e della responsabilità che sentiva e che quasi lo paralizzava. Una responsabilità di tipo morale. Lo scrittore si sente protagonista di un momento decisivo per la storia. Il narrare la propria esperienza durante la lotta partigiana e lo scrivere quindi “il romanzo della Resistenza” erano sentiti come un imperativo categorico, avvertiti non soltanto da lui ma da molti altri scrittori, come per esempio Vittorini che due mesi dopo la Liberazione aveva scritto il suo Uomini e no: un romanzo, però, che riguardava i gap di Milano e non i partigiani di montagna come lo stesso Calvino si autodefiniva.
“Il disagio che per tanto tempo questo libro mi ha dato in parte si è attutito, in parte resta: è il rapporto con qualcosa di tanto più grande di me, con emozioni che hanno coinvolto tutti i miei contemporanei, e tragedie, ed eroismi, e slanci generosi e geniali, e oscuri drammi di coscienza. La Resistenza; come entra questo libro nella “letteratura della Resistenza”?” <105
Proprio per la consapevolezza che Calvino sentiva dell’importanza di quel tema, proprio perché sentiva la Resistenza come qualcosa di troppo “impegnativo e solenne”, egli aveva deciso di non affrontarlo frontalmente ma “di scorcio”. Fu per questo che decise che il punto di vista della sua storia sarebbe stato quello di un bambino. Ed è proprio così, attraverso questo espediente letterario, attraverso il modo in cui Pin guarda gli adulti, che l’autore implicitamente richiama il modo in cui lui, studente borghese, aveva affrontato la realtà brutale della guerra partigiana e attraverso di essa era entrato in contatto con persone ed ambienti fino ad allora a lui sconosciuti. Questo senso di estraneità dello scrittore è analogo a quello già incontrato durante l’analisi de Il Garofano rosso di Vittorini a proposito dell’incontro del giovane Mainardi con i figli degli operai che lavoravano nella cava di mattoni del padre:
“Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…” <106
Lo scrittore colloca il proprio romanzo all’interno della “letteratura impegnata”, richiamando il concetto di “engagement”, ossia di impegno. Con questo impegno Calvino voleva, con il suo romanzo, combattere simultaneamente su due fronti: “lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata” <107.
Per quando riguarda la battaglia sul secondo fronte, quello interno, cominciava nel dopoguerra il tentativo di “direzione politica dell’attività letteraria” che voleva a tutti i costi il partigiano descritto come “eroe positivo” e che voleva dare indicazioni pedagogiche e normative riconducendo la letteratura a mero strumento celebrativo e didascalico. Calvino a proposito di questa nascente tendenza scriveva:
“quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere di una nuova retorica. […]
“Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. […]
E sarà l’opera più positiva, più rivoluzionaria di tutte!” <108
Da parte dell’autore si coglie dunque la volontà di rappresentare la realtà come imperfetta e brutale, sottolineando come queste caratteristiche fossero proprie anche del partigianato. Egli vuole dimostrare alla “cultura di sinistra” come molti di quelli che attivamente parteciparono alla lotta partigiana iniziassero senza ideali precisi e con i tanti difetti umani che Calvino utilizzò per produrre le maschere grazie alle quali descrisse il distaccamento del Dritto. In queste righe di autoanalisi dell’autore cogliamo che per quest’ultimo furono proprio questi difetti e queste imperfezioni a divenire “forze storiche attive”, quelle che rappresentarono lo slancio grazie al quale i partigiani del Dritto divennero i migliori.
Calvino in questa Prefazione indica anche quelli che erano stati per lui i modelli letterari a cui si era riferito, primo fra tutti Per chi suona la campana di Ernest Hemingway, scritto nel 1940, in cui l’autore americano raccontava della guerra civile spagnola. Poi cita alcuni scrittori russi come Isaak Babel e la sua L’armata a cavallo (1926) e Aleksandr Fadeev con La disfatta (1927). Calvino ammette anche che grande importanza ricoprì per lui L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson soprattutto nella costruzione del personaggio di Pin e del suo modo avventuroso e fantastico di affrontare le proprie vicissitudini. Ricorda anche Ippolito Nievo, Le confessioni d’un Italiano (1867), in riferimento all’incontro di Pin con Cugino. È su questi racconti avventurosi che Calvino innesta il “tono fiabesco” che Il sentiero dei nidi di ragno possiede e che ne costituisce un elemento caratterizzante ed il primo a notarlo, come già ho scritto, è stato Cesare Pavese.
Sul finire della trattazione Calvino cerca di dare una definizione di guerra partigiana, tema di cui aveva discusso a lungo con un suo compagno di studi, che nel romanzo aveva preso le sembianze del Commissario Kim, che come lui riteneva la Resistenza l’esperienza fondamentale e come lui era un argomentatore analitico. Tali discussioni partivano dall’idea condivisa che a pochi mesi dalla Liberazione della Resistenza si parlasse in modo sbagliato, troppo pieno di retorica e mitizzazione, mentre ciò che aveva mosso i partigiani era stato un qualcosa di più elementare, riconoscibile in tanti uomini che solo il caso a volte faceva decidere da che parte stare.
Uno degli argomenti alla base delle riflessioni di Calvino, compiute anche insieme all’amico, era quello incentrato sulla violenza che l’autore, giovane borghese che aveva sempre vissuto in famiglia, si trovò a conoscere durante la guerra e che lo traumatizzava, lui che era antifascista ma in maniera “tranquilla”, quasi si trattassi di “una questione di stile”.
Finita la guerra, Calvino provò a raccontare la propria esperienza in prima persona e con un protagonista simile a lui, ma senza riuscirvi del tutto. Esiste infatti un chiaro parallelismo tra la situazione di Pin, bambino che vive tutta la sua vicenda in mezzo agli adulti ed entrando in contatto con situazioni a lui completamente sconosciute, e Calvino che da borghese si immerge nel partigianato che con lui ha poco a che fare. Fu proprio quando Calvino divenne più obiettivo e distaccato dalla sua esperienza personale che l’opera iniziò a dargli più soddisfazione, incontrando anche il plauso dei suoi amici, tra i quali vengono citati Vittorini, Pavese e Natalia Ginzburg.
“Quando cominciai a sviluppare un racconto sul personaggio d’un ragazzetto partigiano che avevo conosciuto nelle bande, non pensavo che m’avrebbe preso più spazio degli altri. Perché si trasformò in un romanzo? Perché, compresi poi, l’identificazione tra me e il protagonista era diventata qualcosa di più complesso. […] L’inferiorità di Pin come bambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese. […] La mia storia era quella dell’adolescenza durata troppo a lungo, per il giovane che aveva preso la guerra come un alibi, nel senso proprio e in quello traslato. Nel giro di pochi anni, d’improvviso l’alibi era diventato un qui e ora.” <109
Negli anni ’50 del Novecento il quadro letterario italiano mutò, a partire da quelli che Calvino considerava maestri: la morte di Pavese; Vittorini chiuso in un silenzio di opposizione e Moravia che cambiò il proprio contesto di riferimento passando da esistenziale a naturalistico. E nel romanzo italiano finì con l’imporsi un orientamento tutto diverso che l’autore definì “elegiaco-moderato-sociologico”.
Il romanzo che “tutti avevamo sognato”, però, arrivò comunque, quando nessuno se lo aspettava. Beppe Fenoglio morì prima di aver terminato e di veder pubblicato il suo Una questione privata che infatti uscì dopo la sua morte e che viene descritto da Calvino come il “libro che la nostra generazione voleva fare”, il romanzo epico della Resistenza. Con quel romanzo la stagione, iniziata con Il sentiero dei nidi di ragno, poteva dirsi conclusa:
“Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.
Ne Una questione privata infatti c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti, quanto più impliciti, e la commozione e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. (…) E’ al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio”. <110
[NOTE]
97 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p. V-VI
98 Ivi, p.VI
99 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p. VI-VII
100 Ibidem
101 Ivi, p. VIII.
102 Ivi, p. VIII
103 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p. VIII.
104 Ivi, p. X.
105 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p XI.
106 Ivi, p. XII.
107 Ivi, p. XIII.
108 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p. XIV.
109 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p. XX-XXI
110 Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2015, p. XXIII
Lorenzo Ori, Storia e letteratura della guerra civile in Italia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno accademico 2020-2021

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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