Spetta al pubblico scoprire anche nelle movenze all’apparenza più serie la vena ironica, lo spunto parodico, con cui Pontiggia rende i suoi personaggi emblemi dell’umano

Il medesimo principio saggistico della «totalità del non totale», del frammento cosmico che fa «risplendere» l’intero «senza però asserirne la presenza» <328, viene sfruttato da Giuseppe Pontiggia quando assembla il suo repertorio esistenziale, in cui un numero ristretto di “Vite di uomini non illustri” (1993) basta a descrivere un microcosmo universale di ordinarietà, in divenire come lo schema narrativo che lo comprende. Proprio la forma-saggio, intesa alla maniera di matrice conoscitiva ancora prima che strutturale, si sovrappone al genere biografico tramite il collante della desublimazione parodica, che penetra nei territori classici di Plutarco, Nepote e Svetonio, sfiora le raccolte di John Aubrey e Marcel Schwob, per trarne le costanti stilistiche con cui attuare il rovesciamento. Non a caso, tra le diciotto biografie scandite da tappe telegrafiche, frammentarie, che rimpolpano una collezione umana potenzialmente completa, si distingue la “Vita parallela” di Elisa Giacchero, un evidente omaggio, tributato all’incontrario, all’opera plutarchiana, dove la storia della protagonista si dipana attorno a un nucleo di atti mancati e privazioni autoinflitte, perché bisogna «restare con i piedi sulla terra» e «avere» fin troppo «coraggio» per scrivere o per scegliere l’uomo a cui si è davvero interessati <329.
[…] Come i «pittori che, cercando di evocare un colore, una atmosfera, modificano o inventano aspetti del paesaggio, anche storico» <333, Pontiggia attinge alla sfera dell’immaginazione per ritrarre personaggi con tutte le carte in regola per essere reali, a partire dall’«esibizione burocratica delle ascendenze famigliari», fa notare Marco Bellardi <334, che preme su quella variabile relazionale tramite cui l’uno entra nella rete dei molti, moltiplicabili saggisticamente all’infinito ma controllati dalla schematicità necessaria del repertorio biografico. Emerge un connubio tra provvisorietà e ordine che è enciclopedico in senso echiano, per via della rappresentazione mai definitiva che sfrutta i legami tra i nodi locali in prospettiva globale: oltre agli intrecci all’interno delle singole storie, emblematici delle dinamiche in cui l’uomo di ogni epoca è invischiato, dai pasticci amorosi e lavorativi alle ossessioni per il denaro o il proprio corpo, anche le storie stesse si collegano tra loro attraverso rispondenze contenutistiche e insieme strutturali.
In particolare, è sotto la luce di un sole «enorme» o «radente», lungo le rive di un fiume in cui si compie il battesimo della felicità, che l’opera trova il suo inizio così come la sua conclusione, segnando la rinascita di Antonio Vitali, nomen omen, che abbandona dopo nove mesi di dubbi, non a caso il tempo di una gestazione, il suo grigio impiego per intraprendere un viaggio verso «il centro del mondo», sulle acque salvifiche del Nilo <335; e quella di Luigi Tornaghi, «pazzo» d’amore mentre insegue in bicicletta il flusso della Loira, al quale tocca «ricominciare da un altro punto», «luminoso» però, che gli fa chiedere il pensionamento anticipato in modo da dedicarsi alla pittura <336. Al centro del repertorio, poi, pulsa l’alienante perfezione di vita a cui viene chiamato Elio Venturini, novello Sansone, invischiato a tal punto nelle trame di una rete di convenzioni che alla fine può soltanto constatare il rapporto diretto tra l’angoscia e la caduta dei capelli. E se il Mauro Terzaghi, protagonista del racconto in seconda posizione, accetta i limiti imposti da una zoppia capitata per disgrazia, e infatti merita i toni epici dell’eroe per la «forza armoniosa» e la crescente «autorità» che dimostra, meno fortuna ha il suo corrispettivo femminile nella penultima storia, che si limita da sé quando rinuncia a un «grande futuro» da attrice in favore della famiglia <337.
In mezzo alle fibre reticolari delle esistenze più immediatamente connesse, si accumulano tanti elementi che si rincorrono, dai complessi di inferiorità mai risolti (Filippo de Capitani scopre presto «che cosa significa essere nato con la d minuscola»), ai matrimoni da «patti chiari amicizia lunga», fino ai modelli di vita consumistici che impongono l’«animale tecnologico», l’idolo-televisore e un approccio iperanalitico verso il mondo <338.
Ogni vicenda pare accelerare verso la morte, il «centro vuoto» che Luigi Grazioli definisce «il motore immobile» attorno a cui nella narrativa pontiggiana si affacciano con apprensione disillusa i personaggi, e che qui determina e solo di rado riscatta il mondo dove annaspano l’umanità e l’autore che la ritrae <339. Anzi, è proprio l’autore a «disertare» la realtà per rifondarla, tracciandone i contorni tramite «focalizzazioni oblique», «deviazioni» di prospettiva, tagli fermissimi da «chirurgo dei sentimenti» <340, che solo nel caso delle “Vite di uomini non illustri”, e poi in “Nati due volte” (2000), uniscono allo sguardo caustico di chi sa che la sconfitta è definitiva una compassione più morbida, perché «la saggezza non si imita» ma «si vive», proprio come tutto ciò che saggezza non è <341.
Del resto Pontiggia, sulla scia della riflessione pragmatistica di John Dewey, crede che esperienza e conoscenza siano unite da un legame irriducibile: a partire dai dati esistenziali, il lavoro di rielaborazione artistica sfocia nella «comprensione delle cose», che coinvolge l’autore in qualità di cronista biografico, su cui ricadono gli eventi della routine umana in generale, e i lettori che partecipano attraverso il racconto di uno alle esperienze di tutti <342.
Si tratta di un gioco di riflessi, ancora una volta relazionale, per cui se da un lato la scrittura si rivela il ponte tra lo specchio della realtà e quello dell’autore, talvolta consolidato dall’inserimento di indizi autobiografici che finiscono col diventare materiale diverso, condivisibile, nel processo di ricerca conoscitivo, dall’altro spetta alla pratica della lettura farsi veicolo riverberante delle storie di vita sul pubblico.
L’ordinarietà complessa che ruota a mulinello attorno al vuoto, inteso come spazio pronto per essere riempito, secondo la tradizione orientale e in particolare taoistica a cui Pontiggia si interessa già dalla fine degli anni cinquanta frequentando la redazione del “Verri” (soprattutto l’amicizia con Claudio Rugafiori, traduttore peraltro del surrealista René Daumal, lo avvicina ai testi della tradizione sapienziale dell’Oriente) <343, trova la sua sistemazione nella griglia biografica di un’opera aperta ai legami tra le microstorie e, più in profondità, tra i nodi essenziali, asciutti, che segnano la progressione dell’esistenza verso quel medesimo vuoto da cui si sono generati. È «la rinuncia a dire» che lascia «parlare gli spazi vuoti, l’allusione», proprio grazie agli stimoli provenienti dalle teorie del taoismo, che costituiscono per l’autore «un pensiero di radicale profondità, forse la punta speculativa più alta, al di fuori dell’esperienza religiosa in senso stretto» <344.
Il nulla dell’abitudinario fa zampillare l’inchiostro dei personaggi non illustri, in potenza persone reali, proprio come l’intero impianto strutturale si nutre degli spazi bianchi attorno ai frammenti narrativi, ricalcando un’attitudine al racconto che risulta evidente nella produzione saggistica di Pontiggia, in cui brevi paragrafi accompagnano un’argomentazione ridotta all’osso dell’oggetto centrale. «Il testo» da esaminare «è l’occasione del saggio» al di là di qualsiasi tentazione «feticistica», per usare le parole di Grazioli, e allo stesso modo la descrizione di una vita è motivo di considerazioni universali sull’individuo e le sue incoerenze <345. Alla immobilità dei cliché esistenziali si applica il sistema mobile del saggio, che scopre corrispondenze tra frammenti di una architettura molto più estesa, inserendosi in un congegno letterario a cui l’autore ricorre non solo nell’ambito narrativo, ma anche in un’opera mista come “Le sabbie immobili” (1991), in equilibrio tra i generi saggistico, aforistico e inventariale, dove il pantano delle manie e ipocrisie della società di fine Novecento si scuote al ritmo dei pensieri specifici, rapidi, che si condensano in una successione dalle implicazioni globali.
Emerge il ritratto del Paese da cui Pontiggia non si sente estraneo e che tuttavia riesce a rappresentare per bagliori, schegge, tramite una carica ironica che lo allontana dalla realtà per meglio comprenderla, quasi come in un flaubertiano “Dictionnaire des idées reçues”: dal vero miracolo economico, ossia «l’italiano medio» che «si allarga» nel corpo e al contempo «allunga» le sue prospettive di vita, alle voci di un particolarissimo compendio sul Microcomico, in cui è il linguaggio a farsi specchio delle contraddizioni comportamentali dell’essere umano, perché il dialogo viene «ricercato da tutti, purché non sia reciproco» e la cultura risulta «facile da definire» se «quello che non pensiamo sia cultura è cultura» <346; dal Decalogo (dissacratorio) della società letteraria, per cui lo scrittore vecchio, «malato» e «isolato» pare «migliore degli altri», alla lista degli “Antidetti”, che smaschera l’assuefazione a un perbenismo fasullo, se è vero che «chi non lavora, mangia» e «tra i due litiganti il terzo le prende» <347. La fotografia sociale dell’autore ritrae «nobili che sono convinti di esserlo, intellettuali che si sentono delegati a pensare, genitori che costringono al dialogo figli che aspirano al silenzio», catturando «la radice tragica del comico» di cui un paio di anni dopo si riempie anche la raccolta delle “Vite di uomini non illustri”, dove la nota compassionevole smorza solo in parte la carica più sarcastica dello humour pontiggiano <348.
Non è difficile riconoscere un’amara comicità nelle parole del capitano Fossati, quando ricorda a Livio Pinzauti che «le armi sono un mezzo» e «il fine è la Patria», e perciò bisogna «comandare uomini perché uccidano altri uomini» <349. «A questo» l’allievo ufficiale «si sta preparando», a una recita di stampo pirandelliano in cui i ruoli assegnati da altri contano più delle inclinazioni della persona, al punto che il suicidio, sotto la maschera dell’interpretazione accidentale, si rivela l’unica possibilità per «liberarsi di sé» <350. Nessun treno che ha fischiato, come capita invece nelle esistenze di Vitali o Tornaghi, dove comunque il grigiore, la monotonia, faticano a lasciare posto allo slancio rivoluzionario da cui vengono travolti i protagonisti di Pirandello, ma soltanto la rassegnazione della quieta morte e, molto spesso, del quieto vivere in vista della morte. E allora cosa importa scegliere la donna che si ama davvero se dopotutto «mi trovo bene» anche «con lei», la moglie di convenienza, che «ha» persino «l’anima» <351?
Pure di fronte alla figura di Massimo Lovati, avaro di professione, le reazioni oscillano tra riso e indignazione, mentre lo si osserva alle prese con una serie di aggettivi alternativi («oculato, parco, previdente, cauto, parsimonioso, equilibrato»), che scandiscono le tappe di una vita in lire <352. Forse l’unica soluzione è «imparare a perdonare», a sé stessi e agli altri, o immergersi come «una goccia nell’oceano divino», alla maniera di quella Claudia Bertelli che si oppone a colpi di scelte sbagliate al conformismo della famiglia, fino a trovare una consolazione tragicamente comica nelle teorie discutibili del guru indiano, iconoclasta, Osho Rajneesh <353.
Alla commistione dei due registri corrisponde una densità narrativa farcita di dialoghi, botta e risposta, che dimostrano quanto per l’autore contino le parole, perché «quando noi riusciamo a dire con precisione quello che sentiamo, ossia quando siamo veri nel linguaggio, è il momento che suscitiamo negli altri il massimo interesse» <354. Si tratta di una cura verso le potenzialità dell’espressione che Pontiggia matura già ai tempi del momentaneo avvicinamento alla Neoavanguardia, di cui condivide le spinte innovatrici, ma rigetta gli eccessi ludici o distruttivi, se è vero che la letteratura serve innanzitutto a ricercare «un senso», «una verità» capace di spingersi oltre il linguaggio concettuale, aprendosi a una leggibilità stratificata <355. Convinto che l’indagine letteraria si debba «confrontare» di continuo «con il nostro senso dell’esistenza», Pontiggia traduce l’impasto eterogeneo del vivere in un linguaggio dove si avvicendano «rifrazioni di significati», così da rimpolpare semanticamente la rete di legami tematici e strutturali <356.
Nel caso dei racconti sugli uomini non illustri, la flessibilità saggistica incontra l’esattezza procedurale delle microbiografie nell’«aderenza dei registri ai contenuti specifici», come fa notare Bellardi, per cui si assiste al formarsi progressivo di un’enciclopedia di stili, dove sul substrato costituito da un tono medio si innesta una varietà direttamente collegata alla precisione linguistica <357. L’autore alterna l’enfasi patriottica che esplode nel grido «Italia! Italia!», mentre scorre una «pioggia» di «lacrime», alla retorica post-sessantottina di “Una goccia nell’oceano divino” <358; le maniere dannunziane adattissime a descrivere le atmosfere della Villa di Bolsena, percorse da un sentimento panico, «di penetrazione indicibile nel cuore palpitante dell’universo», ai picchi epici con cui viene ritratto Terzaghi, «eretto nell’alto busto» e con un andatura «nobile», resa più autorevole dal bastone di mogano su cui «si appuntano […] gli sguardi dei presenti» <359.
Spetta al pubblico scoprire anche nelle movenze all’apparenza più serie la vena ironica, lo spunto parodico, con cui Pontiggia rende i suoi personaggi emblemi dell’umano: la ragazza madre, l’avaro, il marito o la moglie adulteri, godono del piedistallo della rappresentanza, ma solo quando vengono appiedati tramite lo sfoggio della loro più spiccia ordinarietà acquisiscono una valenza collettiva, ribaltando il modello classico delle biografie illustri <360. È il macro della storia, che ingloba guerre, politiche economiche e furie contestatrici, a ridursi fino a penetrare nel micro della «quotidianità ostinata» di cui parla Giovanni Maccari, perché il primo conflitto mondiale diventa una pila di sacchi di sabbia che causa la zoppia e Caporetto l’inizio di una relazione con l’amante, per poi tornare di nuovo macro proprio grazie al processo universalizzante della mediocrità <361.
[NOTE]
328 THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Il saggio come forma, p. 18.
329 GIUSEPPE PONTIGGIA, Vite degli uomini non illustri [1993], in ID., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Mondadori, Milano 2004 (I Meridiani), pp. 1099-1288: 1217 e 1214.
333 Si tratta della nota che l’autore pone a introduzione della raccolta delle sue Vite, a p. 1100.
334 MARCO BELLARDI, Lo sperimentalismo discreto di Pontiggia, in “Enthymema”, VI (2014), 10, pp. 227-244: 232
335 GIUSEPPE PONTIGGIA, Vite degli uomini non illustri, pp. 1108, 1286 e 1107.
336 Ibi, pp. 1284 e 1286. Sulle rispondenze strutturali dell’opera cfr. CRISTINA NESI, Giuseppe Pontiggia e la parodia: «Vite di uomini non illustri».
337 Ibi, pp. 1111, 1113 e 1271-1272.
338 Ibi, pp. 1172, 1190 e 1132.
339 LUIGI GRAZIOLI, Giuseppe Pontiggia. Dieci anni senza, in “doppiozero”, 27 giugno 2013. Consultabile sul sito https://www.doppiozero.com/giuseppe-pontiggia-dieci-anni-senza?fbclid =IwAR3AsiHFWpU8v_a9ovcfFv9R4_B2AQ4MwoHVT0c251j9Wdbmxjee7D8StSA.
340 Ibidem.
341 GIUSEPPE PONTIGGIA, Vite degli uomini non illustri, p. 1124. A questo proposito, Ermanno Paccagnini parla di «una pietas», «una commozione a ridosso dell’umano capace però di non condizionare il ritratto» (Vite di diciotto eroi il cui nome è nessuno, in “Il Sole 24 ore”, 26 settembre 1993).
342 DANIELA MARCHESCHI, La formazione di un giovane autore. Come Giuseppe Pontiggia è diventato lo scrittore Pontiggia, in ALBERTO CADIOLI, GIUSEPPE LANGELLA, DANIELA MARCHESCHI, GINO RUOZZI (a cura di), Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo, pp. 13-29: 19. Sull’argomento si veda anche LAURA CANNAVACCIUOLO, Lavorare nella contemporaneità. Giuseppe Pontiggia lettore, Liguori, Napoli 2020, in particolare le pp. 35-45.
343 A Daumal “Il Verri” dedica anche un numero speciale (38/1972). Rugafiori, intermediario privilegiato tra Pontiggia e l’opera di Daumal e quindi il pensiero orientale, soprattutto induista, cura per Adelphi la pubblicazione di varie opere dell’autore francese, Il Monte Analogo, La gran bevuta, Le grand jeu e La conoscenza di sé. Alla tradizione buddhista Pontiggia si avvicina invece attraverso la lettura di Schopenhauer, che aveva trovato nella religione del Buddha numerose conferme alle sue teorie sul dolore e sulla volontà. Cfr. ROSSANA DEDOLA, Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, Avagliano, Roma 2013, in particolare le pp. 18-19 e 95-98; si veda anche, della stessa autrice, La parola che inventa: Giuseppe Pontiggia, in GILLIAN ANIA, JOHN BUTCHER (a cura di), Narrativa italiana degli anni Sessanta e Settanta, Dante & Descartes, Napoli 2007, pp. 263-276. La Dedola evidenzia come Pontiggia, grazie al taoismo, abbia capito che «ogni parola deve avere un senso, ogni parola rivela un universo in cui i contrari si toccano e si rovesciano l’uno nell’altro», e perciò anche il silenzio, lo spazio bianco, permette alla narrazione di caricarsi «di nuova significatività» (pp. 270 e 268).
344 ROSSANA DEDOLA, Tre giornate con Pontiggia, in EAD., Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, pp. 18-19 passim. In particolare, Pontiggia si forma sulla traduzione di Alberto Castellani del Tao Tê Ching, che muove dall’idea del Tao come Via, come un’essenza che non ha nome e di cui si può parlare solo attraverso paradossi e allusioni.
345 LUIGI GRAZIOLI, Giuseppe Pontiggia. Dieci anni senza, consultabile sul sito https://www.doppiozero.com/giuseppe-pontiggia-dieci-anni-senza?fbclid=IwAR3AsiHFWpU8v_a9ovcfFv9R4_B2AQ4MwoHVT0c251j9Wdbmxjee7D8StSA.
346 GIUSEPPE PONTIGGIA, Le sabbie immobili [1991], in ID., Opere, pp. 1011-1097: 1015, 1046 e 1047.
347 Ibi, pp. 1063 e 1090.
348 Ibi, p. 1048.
349 GIUSEPPE PONTIGGIA, Vite degli uomini non illustri, p. 1241.
350 Ibi, pp. 1241 e 1242.
351 Ibi, pp. 1202 e 1201.
352 Ibi, p. 1206.
353 Ibi, pp. 1157 e 1127. Dal racconto Una goccia nell’oceano divino, Mario Monicelli ha tratto il film Facciamo paradiso, del 1995, trasferendo la vicenda della protagonista, interpretata da Margherita Buy, da Torino alla Milano sessantottina. In riferimento all’attività del regista, Pontiggia dice di non credere «a nessuna forma di fedeltà espressiva» e, anche se «ci sono dei film che rispettano molto i dialoghi», «sono sempre molto diversi dalla scrittura per un principio[…]a priori» (ROSSANA DEDOLA, Tre giornate con Pontiggia, in EAD., Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, p. 37).
354 GIUSEPPE PONTIGGIA, Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura, a cura di Cristiana De Santis, prefazione di Paolo Di Paolo, Mondadori, Milano 2020, p. 23.
355 ROSSANA DEDOLA, Tre giornate con Pontiggia, in EAD., Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, p. 21.
356 Ibidem.
357 MARCO BELLARDI, Lo sperimentalismo discreto di Pontiggia, p. 236.
358 GIUSEPPE PONTIGGIA, Vite degli uomini non illustri, p. 1231.
359 Ibi, pp. 1159, 1111 e 1112.
360 In particolare, sul rovesciamento del modello classico, che fa riferimento a Platone, Nepote, Svetonio, si veda CESARE SEGRE, Straordinarie avventure di gente ordinaria, in “Corriere della Sera”, 21 settembre 1993.
361 GIOVANNI MACCARI, Giuseppe Pontiggia, Cadmo, Fiesole 2003, p. 88.
Roberta Colombo, La sfida dell’enciclopedismo contemporaneo alla complessità del reale. Indagini sulla letteratura italiana del Novecento, Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, Anno Accademico 2021-2022

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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