Aniante era tuttavia fortemente legato alla sua Sicilia

Uno dei rari visitatori della villa di Juan les-Pins è stato Antonio Aniante. Di questo scrittore italo-francese ben di rado si occupa la nostra critica togata. Egli è noto soltanto ad un’élite, la massa lo ignora. I giornali si sono occupati di lui in seguito alla causa che egli intentò a Rossellini per il film “Stromboli”, il cui soggetto aveva evidenti punti di contatto con un suo racconto pubblicato nella raccolta “La forêt merveilleuse”. Fu la cronaca a parlare di lui, non la critica. Eppure ci si sarebbe potuto occupare di lui quando l’Académie française gli decretò un premio.
A Parigi ne parlarono diffusamente. Molti lo ricordano, nella città brumosa, dalla quale è lontano a causa della sua salute malferma. Chi voglia però rievocare Montparnasse e i “montparnos” dell’epoca d’oro non può dimenticare questo “déraciné”, che lasciò la Sicilia selvaggia per scoprire la vita di Parigi.
Questo sicilianuccio magro pieno di sogni; vivace, ciarliero; sa nascondere la roccia di zolfo che gli isolani suoi pari hanno in petto, tra i polmoni e la bile, fusa e modellata in forma di viscere, connaturata alla carne. Egli fece parte della fauna della Cupole e del Dôme nell’altro dopoguerra. Ad un tavolo trovavi Mac Orlan in complotto con Francis Carco, all’altro Picasso con la sua amante ebrea, ad un terzo Fujita con Fernande Barrey, la sua moglie bianca che dipingeva in blu e nero tele surrealiste avanti lettera. Giù, in fondo, c’era Pitigrilli: veniva ogni anno a comprare l’aria boulerardière, pilotato da Alex Alexis, un piemontese di Parigi che scriveva in argot la vita segreta di Montparnasse.
Al Dôme Aniante sedeva in disparte, davanti ad una tazza vuota di café-crème e alle briciole del frugale croissant che gli serviva da pranzo. Digeriva quell’ettogrammo di farina, zucchero e marmellata, quel decilitro di latte e caffè grigio, guardando gli altri a vivere. Aveva i piedi avvolti in carta di giornale, una coperta sforacchiata sulle spalle, sopra un indumento scolorito che forse era stato una giacca. I peli della sua rada barba di greco-siculo, non rasati da due giorni, gli crescevano sul volto con estrema pigrizia poiché la linfa gli mancava. Aveva l’espressione ascetica degli affamati, gli occhi un po’ feroci di chi da lungo tempo non sente l’odore delle salsicce calde, del pane fresco; di chi soffre il freddo per abitudine e sente quasi il ribrezzo del tepore.
Malgrado il gelo, la fame e a corollario delle altre miserie è a Parigi che Aniante ha scritto i suoi libri più belli. Pareva lo sapesse che, per diventare un grande scrittore, doveva venire in quella benedetta e maledetta città. Vi era giunto a 18 anni con un violino. Suonava nei caffè; per fame gli toccò vendere lo strumento ad un ebreo della rue Lépic. E ricominciare la Via crucis lasciata e ripresa mille volte con alterna fortuna, senza troppa allegria. Era arrivato con 18 franchi. Salvatore Aponte gliene aveva dati cento in un caffè vicino alla stazione. Pitigrilli, che amava fotografarlo con le prime lastre pancromatiche in commercio solo in Germania, gli mormorava: “Ecco, Aniante, dieci franchetti. Dieci soli perché tu, cento, non li vorresti. Preferisci un regalo ad un prestito”.
E a lui, che aveva fame, capitava spesso il turista italiano che lo guardava curiosamente e gli offriva da bere: un pernod bruciante sull’epidermide sottile e rosata dell’esofago.
Eppure a casa sua stavano bene. Possedevano oliveti, aranceti, molta terra. La casa era bella e in tavola, ad ogni pasto, c’erano minestra calda e sostanziosa, olive e alici, salsiccia secca, carne, contorno, spaghetti gocciolanti di sugo. Non si trattava di confinarsi proprio nel villaggio di Viagrande, poteva benissimo stare a Catania, passare i pomeriggi al caffé e, all’uso dei signorotti dell’isola, vivere una vita placida e noiosa, movimentata solo dai ricordi erotici di coloro che di quando in quando si permettevano una gita in «continente».
Allorché ancora i genitori foraggiavano il figliol prodigo, Aniante era comparso a Roma ad un tratto e aveva sfolgorato nei salotti. Vestiva da Caraceni, alloggiava all’hôtel des Princes, era l’amante di una contessa. Bragaglia, dava i suoi lavori nella catacomba degli Indipendenti. Il giovane dandy siciliano rischiò di perdersi.
Lo salvò il miraggio pericoloso di Parigi. Nella Ville Lumière visse lunghi anni con alterna fortuna. Lavorava accanitamente scrivendo, con rabbia, non si sa come, (con quale penna spuntata e quale inchiostro verdastro?) nelle biblioteche di quartiere o nelle capanne di Vanves dove abitava con la sua amante, la pittrice turca Alé Asaf, condannata da un cancro. Dall’Italia gli negavano ogni collaborazione ai giornali, dopo la pubblicazione di “Mussolini” (editore Grasset). Aniante aveva scritto che il dittatore avrebbe portato l’Italia alla guerra. Léon Blum e Drieu de la Rochelle avevano citato passi di quel libro. Il suo nome, a poco a poco, si faceva strada. Ma che importava; ormai, poiché Alé era morta e la salute se n’era andata? Lasciata la spelonca di Vanves e la camera a subaffitto, poté finalmente permettersi l’inaudito lusso di una convalescenza a Berk-Plage sul Pas de Calais. Nell’immenso sanatorio bianco, su una delle vaste terrazze al sole, Aniante si trovò accanto un’ammalata. Si fecero coraggio a vicenda, si consolarono, unirono le loro infelicità e intrecciarono un idillio triste e soave. Simone sposò Antonio nel ’40 portandogli come dono di nozze una volpina bianca, Bichette, che è morta l’anno scorso.
La scheda n. 1151 racchiusa nel casellario del consolato italiano a Nizza riporta: «Dottor Antonio Rapisarda, in arte Antonio Aniante, nato a Viagrande (Catania) il 2 gennaio 1900 («secondo giorno del secolo», nota Aniante), addetto all’ufficio propaganda; stipendio 50 mila franchi mensili; orario d’ufficio, ogni giorno dalle 8 alle 13,30 e due volte alla settimana, a scelta dell’impiegato, dalle 16 alle 18. Quindici giorni all’anno di ferie».
Questa assurda carriera di burocrate ha una sua origine bislacca. Quando nel ’40, imperversando la guerra, egli scappò da Parigi a Nizza, venne a sapere che i tedeschi lo ricercavano e che il suo nome figurava nella famosa «lista Otto», insieme con personaggi ignoti e celebri di sette nazioni, con Churchill e De Gaulle. Presso chi trovare scampo? Il console Fragnito diede allo scrittore ammalato e in fuga soccorsi e amicizia. Lo assistette e, per metterlo al coperto, lo iscrisse abusivamente fra gli impiegati del consolato. Venne la Liberazione: Aniante si trovò automaticamente in ruolo e vi rimase sul serio. Se avesse impiegato le 9000 ore di ufficio a scrivere romanzi e novelle sarebbe ben più celebre di quanto non sia. Ma intanto pubblica un libro all’anno, in purissima lingua francese. A Parigi si occupano di lui, lo seguono, lo elogiano; l’Accademia lo premia, il pubblico lo legge. Il console italiano di Nizza lo presenta a tutti i visitatori come una curiosità. Lo scrittore sostiene la sua parte, ma in pelle in pelle sono certo che sorride. Non aspetta che l’ora di uscire, di correre al sole sulla promenade des Anglais, a crogiolarvisi. Ha sofferto tanto freddo in vita sua che quel sole se l’è guadagnato! Simone va ogni giorno a prendere il marito al consolato. Camminano insieme lentamente, come due perenni convalescenti, fino al lungomare. Fanno colazione al Forum. Siedono accanto. Simone ha nella borsetta le pillole che Antonio deve prendere prima del pasto. Sorveglia che i cibi siano leggeri e confacenti. Prende dalla tasca del marito il pacchetto delle sigarette. Fa la conta e ogni giorno, invariabilmente, lo ammonisce: «Dix cigarettes, mais c’est fou!». Paiono due fidanzati.
Marcel Pagnol ha inserito Aniante nell’elenco dei quattro o cinque europei da lui chiamati nell’Accademia Internazionale del Turismo.
Angelo Nizza, Riviera amor mio, Dall’Oglio editore, 1953, pp. 290-293

Siamo a Parigi, è il 1936 circa, è un’estate afosa, c’è nell’aria un’inquietudine storica che non promette nulla di buono, ma non è ancora il peggio. C’è un giovane uomo che vaga per Montmartre, ha alcune tele sottobraccio, sono pesanti rispetto alla sua gracile corporatura. Sembra indaffarato, agitato, confuso. Le scarpe che indossa hanno trasceso il significato di logoro, anche la camicia, buchi e maniche arrotolate, stride rispetto a ciò che sta trasportando: ha con sé quadri di De Pisis, perfino un De Chirico; li conosce tutti gli artisti che orbitano nel quartiere più creativo e difficile della capitale. Li conosce, perché quell’uomo ha fondato una galleria d’arte molto frequentata a Montparnasse: la Jeune Europe. Ma è già fallita, ha chiuso i battenti assai presto, perché ha scritto ‘Mussolini’, una pungente biografia satirica sul Duce, rendendolo dunque un inviso, e tutti gli editori della Ville Lumière adesso non ne vogliono sapere di pubblicare i suoi scritti.
Quell’uomo, che sta raccogliendo quadri che oggi animano le aste e i musei di tutto il mondo, è un geniale scrittore: Antonio Aniante. Il suo nome probabilmente non dirà niente a nessuno.
È uno squattrinato italiano che ha scritto pièce teatrali d’avanguardia, Filippo Tommaso Marinetti lo celebra perché vede in lui qualcuno che il futurismo ce l’ha non solo nel sangue ma nell’inchiostro della penna, Anton Giulio Bragaglia, che ha letto alcuni suoi testi, lo considera una mente più che brillante.
Lo è certamente, ma è perseguitato da debiti, tormenti e insuccessi.
Come sempre, per sopravvivere, si è inventato uno stratagemma che ha tutta l’aria di una truffa: ha bisogno di soldi, la donna che ama, una raffinatissima pittrice, sta morendo.
Anche la disperazione richiede creatività.
[…] E così, più indebitato di prima, Aniante ritorna a Parigi, continua a scrivere – romanzi tragici e commedie teatrali – ma senza un vero riscontro. Da qui l’idea di fondare la Jeune Europe, per tentare di vivere se non di arte, almeno nell’arte, si tratta di una galleria per artisti esordienti infatti, per gli amici che incontra nei caffè. Per i primi tempi è un successo, ha talento in questo campo, le cose vanno bene, è uno dei primi a intuire la grandezza di Giorgio De Chirico, a cogliere l’originalità di Leonor Fini, è inoltre amico di Picasso, di Pirandello (conterraneo che gli presta non poco denaro), di Filippo de Pisis. I suoi vernissage sono sempre un po’ improvvisati, ma lì c’è il vero cuore pulsante di Parigi. Lì ci sono i classici, quando nessuno li avrebbe mai giudicati tali.
A fare davvero la differenza, però, è la donna che insieme a lui dirige la galleria: Hale Asaf.
È giovane, affascinante, con una sensibilità fuori dal comune e alle spalle un passato travagliato.
È la donna che ama. In lei ha visto il fulgore del talento e la necessità di donarle uno spazio per esprimersi, senza limiti, né dogmi, per tracciare una nuova pagina di storia dell’arte.
Lui ci aveva visto bene, ma gli orizzonti spesso non rivelano cieli sempre cristallini. Ed è qui che il futuro precipita. Hale era nata nel 1905, a Istanbul e aveva viaggiato molto, da Parigi a Roma, parlava cinque lingue e aveva studiato nelle migliori scuole grazie alla sua alta estrazione sociale, suo padre, da sempre legato al sultano, era stato anche Presidente della Corte di Cassazione di Istanbul. Con la disgregazione dell’impero turco, tuttavia, la famiglia cadde presto in disgrazia e Hale perse praticamente tutto. Tranne l’energia creativa: i suoi dipinti, i suoi paesaggi e i suoi autoritratti, riconducibili al cubismo, raccontavano di lei una tensione nuova, un capitolo inedito per l’arte figurativa del suo paese, prima pittrice ad aver ottenuto riconoscimenti in tutta Europa.
Già nel 1929, a Bursa, fu l’unica donna artista ad avere un ruolo attivo nella fondazione del “Müstakil Ressamlar ve Heykeltraşlar Birliği” – un’associazione indipendente di pittori e scultori. Eppure la sua indipendenza e la sua intraprendenza non vennero premiate da una realtà patriarcale e ancora troppo chiusa nei confronti delle donne, e così, nel 1931 tornò a Parigi, depressa e fortemente debilitata, tanto da dover subire una difficile operazione chirurgica.
È da convalescente che incontra Antonio Aniante, all’epoca lo scrittore viveva proprio in una vecchia casa di legno, in una zona verde che oggi non esiste più, di fronte all’Ospedale Paris Saint-Joseph, in via Vanves. La incontra lì, tra una fasciatura e l’altra e vede i suoi dipinti, si accorge che Hale ha bisogno di un’opportunità, di una rivalsa: ed ecco la Jeune Europe, che dirigeranno insieme. Sembra una premessa perfetta ma i due si trovano ben presto a condividere arte e disperazione, abbandonato l’alloggio in via Vanves, si trasferiscono in un appartamento dotato di una sola piccola finestra, a Montparnasse, ma non ci sono più i soldi nemmeno per i pennelli, gli editori rifiutano le bozze di lui che intanto ha scritto un romanzo dedicato a Marco Polo, in stile futurista, e la creatività di lei è minata da continui problemi di salute e ricadute. Litigano, si disperano, si rinfacciano ogni amplesso carnale. Ogni tradimento. Ogni cura.
Intanto, a Montmartre, sono tanti gli amici che apprezzano Hale e il suo lavoro alla galleria, tanto che sono loro ad anticipare i franchi necessari per colori e tele. Hanno un debito anche nei confronti di Aniante, che è stato il primo a credere in loro, a esporli. Fra questi figurano Picasso, Saporetti, Mario Tozzi, Moses Levy… li ha scoperti lui, mentre Aniante stesso falliva.
Ma l’abbiamo detto, mentre la verve dello scrittore siciliano toccava nervi scoperti in termini politici, anche la Jeune Europe fallì con lui.
Hale Asaf, la più promettente pittrice della sua generazione, si ritrova a sua volta con nulla in tasca.
Ed ecco amplificarsi i rancori. E il dolore. Lei lo detesta, è a causa sua se tutto va sempre a puttane, lui che non riesce a sfondare come scrittore, lui che si è giocato anche la galleria d’arte.
Ma alle furibonde liti si accompagna sempre la pace, e per un breve periodo anche le loro economie sembrarono migliorare, eppure il sogno dura poco: il terrore vero giunge una notte come tante, quando Hale ha un preoccupante sbocco di sangue.
Lei lo rassicura immediatamente, le è già successo durante un lungo e faticoso viaggio in nave mentre era di ritorno dall’Albania. Aniante ormai è mosso da una sola convinzione, Hale è malata di tubercolosi, serve un’aria più salubre, occorre lasciare Parigi per l’Engadina. E subito.
Ma come trovare il denaro per il soggiorno? Loro, che si erano ridotti a mangiare solo arance e poco pane raffermo?
Ed eccoci dunque in quell’estate afosa del ’36, insieme a quell’uomo indaffarato, disperato, con tutti quei quadri sottobraccio pronto a mettere in scena un numero degno di una delle sue pièce teatrali tanto amate da Marinetti: nello stesso periodo un industriale italiano di sua conoscenza gli aveva chiesto, in nome della sua esperienza di critico e di gallerista, di raggruppare per lui tele di artisti noti a Parigi, per comprargliele in blocco, con o senza cornice. Aniante, che aveva urgentemente bisogno di denaro, accettò, era una bella coincidenza, ma ovviamente, caduto in disgrazia com’era non aveva più con sé tele abbastanza rinomate per il suo acquirente e la Jeune Europe era ormai spoglia. Si inventò una mostra da organizzare a Milano e invitò tutti i suo amici artisti a donargli una tela per il vernissage italiano, questi, sulla fiducia, acconsentirono. Sembrava fatta, ma all’acquirente venne in mente di non rivendere quei quadri bensì di esporli a Parigi. Aniante cadde nel panico, tutti avrebbero scoperto il complicato espediente e mosso da un orgoglio in frantumi si premurò di stampare degli opuscoli elogiativi per ogni artista che gli aveva gratuitamente donato un’opera. Indebitandosi ulteriormente. Nessuno di questi pittori inveì contro di lui, poiché tutti conoscevano la situazione drammatica della sua compagna e la profonda miseria nella quale i due tentavano di sopravvivere.
I mesi passano, uno dopo l’altro, ma i soldi per mandare Hale in montagna non arriveranno mai.
Aureola di Luna, così la chiama teneramente lui, è ormai troppo debole per dipingere e il ventre le si è gonfiato in maniera impressionante, scartata l’ipotesi di una gravidanza, i due si recano da un medico celebre a Parigi, il Dottor Lardennois, uno che sperimenta, aperto a una medicina più moderna.
Prescrive una radiografia, che evidenzia subito nell’organismo di lei numerose macchie, nonché focolai di un qualche male; è in questa circostanza che Aniante scopre che la giovane Hale aveva subìto sin da bambina almeno otto operazione chirurgiche per rimuovere dei tumori benigni e che la tubercolosi che lui credeva di curare era un male di origine diversa e ben più grave. Hale Asaf, che conosceva la natura della sua precaria condizione, non aveva mai voluto rivelare la verità ad Aniante, non aveva mai trovato il coraggio di confessargli la sua condanna. Seguì una dolorosa operazione. La pittrice aveva nel frattempo riunito e incartato le proprie opere, insieme alle poche cose che possedeva, lasciando un tenero e commovente biglietto su quei pacchi, Antonio non toccare, come chi si appresta a partire per un lungo viaggio.
Superata la prima operazione il medico comunicò ai due artisti che era necessario e urgente un altro intervento, questa volta all’utero e così Hale Asaf fu nuovamente ricoverata presso l’Ospedale Leannec. Si risveglia, ma la notte stessa si sente male, rigetta il pasto che le era stato servito e la situazione precipita insieme all’inesorabilità del destino di lei.
Sta morendo e lo sa, e saluta con un filo di voce l’uomo che più l’amava, il suo scrittore italiano, e con un ultimo bacio, con la poca coscienza che era riuscita a conservare, gli fa promettere di sopravvivere all’arte, almeno lui.
È il 31 maggio 1938, a soli trentatré anni, Hale Asaf si spegne. Con lei spira anche il soffio vitale di quella nicchia d’arte turca che tanto aveva illuminato il cosmopolita quartiere di Montparnasse in quegli anni Trenta così complessi e fragili.
Non ci sono i soldi nemmeno per il funerale, che pagheranno gli stessi artisti parigini che avevano lavorato con lei e che avevano donato ad Aniante alcuni loro pezzi, utili a saldare un modesto carro, per condurla sino al cimitero di Thiais, dove ancora oggi Hale riposa.
È in nome di lei che lui riprende a scrivere e a viaggiare, seguiranno per lo scrittore siciliano anni intensi, vissuti a Nizza, nel Sud della Francia, vicino all’amico Picasso e a Edith Piaf, spesso ospite presso casa sua. Sono gli anni del riscatto artistico e personale, esce il suo romanzo più celebre ‘La rosa di zolfo’, divenuto poi uno spettacolo teatrale con protagonista Domenico Modugno.
Sino alla scomparsa, avvenuta poi nella cittadina di Latte, a Ventimiglia, nel 1983.
Testimone di una Parigi leggendaria, Aniante raccoglierà nelle sue autobiografie ‘Memorie di Francia’, ‘Ricordi di un giovane troppo presto invecchiatosi’, ‘Nato sul Mongibello’ e ‘Segreti di Cagliostro’ tutta la sua travagliata avventura di artista, di scrittore e di critico d’arte.
Pagine uniche le sue, che travalicano ogni cronaca e che offrono uno straordinario spaccato della Ville Lumìere del tempo, delle sue contraddizioni, e uno scorcio di quell’Europa, ormai sull’orlo della catastrofe della Seconda Guerra Mondiale.
C’è ancora lui, oggi dimenticato, dietro i più grandi nomi del Novecento. E c’è ancora Hale a fare scuola nell’ambito dell’arte figurativa turca.
Giulia Bocchio e Vanni Santoni, Storia di una Parigi che non c’è più: Aniante-Asaf, minima&moralia, 14 giugno 2022

La città [Catania] cerca di riscoprire i suoi figli. Già qualche tempo fa questa organizzazione teatrale, l’International Meetings, indusse un convegno su Antonio Aniante, che era appena morto, e allora annunciò questa ‘Rosa di zolfo’ che son venuto a vedere. Aniante è un personaggio difficile. Per nulla scomodo, ma difficile da “interpretare”. E intendo interpretare sulla scena, chè la sua narrativa non è oscura. Vissuto in modo assai cosmopolita, amante della Francia e delle cose francesi, Aniante era tuttavia fortemente legato alla sua Sicilia. Direi che era legato al clima della Sicilia, alla calura, all’idea di siccità, e anche alla sue favole antiche. Il gusto della invenzione favolistica entrava di impeto nella sua drammaturgia, in una invenzione che lo accomunava parecchio al suo conterraneo Rosso di San Secondo. Questa ‘Rosa di zolfo’ è la sua ultima opera, scritta nel dopoguerra, e subito rappresentata con non felicissimo successo. Perchè è una opera difficile, appunto. Non è indecifrabile, ‘La rosa di zolfo’ tutto vi è chiaro. La difficoltà sta nel comprendere appieno di che stoffa sia la sincerità indubbia delle sue adesioni formali. Si tratta di comprendere, per capirlo, quanto Aniante davvero amasse quegli zolfatari e quanto disprezzasse quel nobile, quanto quel rude Colao discenda da una antica letteratura addirittura “di gesta” e quanto, invece, essi siano personaggi formalizzati in altro senso, personaggi delle fiabe, della fola, della narrazione popolare, del sogno. Propenderemmo per questa ultima ipotesi: il sogno è davvero il protagonista di questa Dream’s girl siciliana, che immagina un mondo meraviglioso e tragico di fughe e di angiporti dove lei è protagonista, si immagina puttana, fuggente verso americhe latine, traduce il suo desiderio di sessualità in immaginazione compensatoria. Qui Aniante va sicuramente nella direzione di una ispirazione antica, alla quale fanno curiosissimo supporto anche alcune intenzioni direi positiviste. Perchè la ragazza sognatrice, questa Rosalia sepolta presso alla solfara, deve far nascere il sogno dalla necessità, ella è malata. E’ malata di meningite, e sentite in questo dichiarar con evidenza il motivo clinico, che Aniante quasi esita di fronte alla possibilità che s’era dato di portare Freud nelle Madonie, di appoggiare un racconto simbolico alla teoria dei simboli. Preferisce rivolgersi a un mondo più accertabile, meno sfuggente, direi indiscutibile. Ma la sua vena reale resta l’altra, resta quel simbolismo un po’ surreale cui induce la tecnica delle favole, resta forse anche il piacere della lingua, resta la voglia di immaginare, fantasticando, ad esempio, la Palermo degli emigranti come l’ avrebbe pensata un narratore leggermente surrealista, come l’avrebbe vista forse Roussel, un porto di immagini realistiche ma inserite in una cornice quasi beffarda, dove le parole crescono di dimensione, staccandosi dall’ oggetto che rappresentano. Se questo è ‘La rosa di zolfo’, si può comprendere come un regista si sia sempre ritratto nel rappresentarla, o ne abbia tratto delusioni. Perchè son troppe le tentazioni, un racconto alla Verga magari, o un’insidiosa opera di non antichi pupi, uno scivolamento verso la farsa, o addirittura una commedia musicale. Tanti anni fa si prese Domenico Modugno e ora, accanto a Leo Gullotta, Rosa Balistreri: che dovrebbe commentare con le consuete nenie la favola corrusca di Rosalia, che è Elisabetta Carta. Tutto questo è stato messo in un crogiolo che, miracolosamente avrebbe dovuto produrre l’efflorescenza minerale della rosa. La reazione sulfurea direi che non si è compiuta. Il regista Romano Bernardi ha costruito, correttamente, al centro del palcoscenico, il grande praticabile tondo di legno, la pedana su cui si dovrebbe simulare la zolfara, o la casa di Rosalia, i moli del porto, o l’ alloggio delle prostitute. Ha simulato con accorgimento sonoro la pioggia che, secondo magia, dovrebbe scrosciare nel finale. In questo contesto ha collocato alcuni attori che son degnissimi ma che debbono spostare per forza ogni cosa su altri terreni. Leo Gullotta cede subito alla sua voglia di cabarettista, immergendosi in un carabiniere che è caratterizzato come da Macario. E poi tenta di aggrapparsi a una presunta drammaticità del personaggio, con mezzi convenzionali. Ma aveva ragione a non crederla, quella drammaticità. Essa non c’è, in quel testo, che è stato curiosamente addirittura un po’ lavorato con forbici. Per Rosa Balistreri il musicista Pippo Russo aveva immaginato adatte cantilene, che certo portavano il racconto nel campo fortemente allusivo delle stregonerie, che certo son dette (ma a me pare in chiave non folcloristica) […]
Tommaso Chiaretti, Sogna fanciulla. E’ l’unico modo per sentirsi vivi, la Repubblica, 10 maggio 1984

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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