Tacere è proibito. Parlare è impossibile

Ciò che in ogni caso risulta di fondamentale importanza è saper riconoscere, nel magma degli scrittori che hanno trattato la Shoah, chi si è accostato al problema con un atteggiamento etico e se costui, quando ha usato dei dispositivi letterari, li ha usati per meglio veicolare un messaggio etico – come è riuscito a fare magistralmente Jorge Semprún – o solo per donare una stucchevole patina estetizzante a un discorso che, sin dal suo principio, secca la gole di chi vuol proferirne parola. 2 L’Olocausto personale: tipologia di prigionieri, distanza critica e strategie retoriche
Per comprendere il dilemma del testimone-scrittore, è necessario tornare al paradosso di Wiesel: «Tacere è proibito. Parlare è impossibile». <105
Ricordo che Wiesel pronuncia questa frase guardando negli occhi un altro sopravvissuto, Jorge Semprún, che in effetti gli aveva detto, nella battuta di dialogo che precede il paradosso: «Non si può dire tutto. Non si può far immaginare, far capire tutto. È chiaro che è impossibile».
Ma al di là della dichiarazione di impossibilità di parola, quali sono i principi retorici generali sui quali gli scrittori fondano le loro testimonianze?
A mio parere è necessario isolare almeno tre elementi di diversità per comprendere i differenti atteggiamenti narrativi dei testimoni dell’Olocausto, e la quaterna di autori che propongo mi sembra esemplificativa del problema. Da Primo Levi, Elie Wiesel, Jorge Semprún e Robert Antelme possiamo trarre la casistica necessaria a definire i tre ambiti di diversità che propongo.
2.1.Lo status del prigioniero: politici e ebrei
Il primo riguarda il loro status di prigionieri, ovvero la tipologia di internamento che hanno dovuto subire, la quale poteva variare in base alla causa di imprigionamento e al luogo specifico. Infatti un prigioniero politico (Semprún, Antelme) ha sofferto in modo diverso, e per motivi diversi, rispetto a un prigioniero ebreo (Wiesel, Levi).
Inoltre, è ormai noto che le condizioni di vita, le ore di lavoro, l’apporto calorico quotidiano, erano differenti in ogni campo. Tali condizioni sono ulteriormente variate dopo la conferenza di Wannsee nel gennaio del ’42 e dopo l’avanzata russa seguita alla rottura del fronte orientale a Stalingrado, nel 1943. Ciò significa che chi è stato ebreo ad Auschwitz ha vissuto diversamente la propria pena rispetto a un ebreo a Buchenwald, perché il primo nasce nel Governatorato Generale come campo di sterminio, mentre il secondo nel cuore della Germania, a Weimar, come campo di lavoro per prigionieri politici. <106
Wiesel è stato in entrambi i luoghi: internato inizialmente nello stesso campo in cui era stato rinchiuso Primo Levi, Auschwitz-Monowitz, è stato poi trasferito a Buchenwald nel 1944, a causa dell’avanzamento dei russi. Ma a Buchenwald viveva nel Piccolo Campo, una zona di quarantena costruita nel ’42, costituita da 17 baracche in cui venivano concentrati gli ebrei provenienti dall’Est. Quindi, anche se hanno vissuto la liberazione nello stesso Lager, Semprún e Wiesel ne hanno una visione completamente diversa. «Figurati che io non sapevo nemmeno» confessa Wiesel a Semprún «che esistesse una resistenza, a Buchenwald». <107
Ovviamente una differenza di questo tipo influisce sulla qualità della testimonianza. Primo Levi ne è pienamente cosciente e nel suo libro conclusivo, “I sommersi e i salvati”, <108 traccia a chiare linee i contorni di questo problema: «È naturale ed ovvio che il materiale più consistente per la ricostruzione delle verità sui campi sia costituito dalle memorie dei superstiti. Al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano, esse vanno lette con occhio critico. Per una conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane a cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d’insieme del loro universo. […]. Da questa carenza sono state condizionate le testimonianze, verbali o scritte, dei prigionieri “normali”, dei non privilegiati». <109
Dopo aver spiegato ciò che per brevità definisco “il dilemma del testimone”, ossia il fatto che solo chi non è tornato dal Lager sia il vero testimone, e quindi dopo aver sottolineato l’impossibilità della vera testimonianza, Levi prosegue: «D’altra parte, i testimoni “privilegiati” disponevano di un osservatorio certamente migliore […] però era anche falsato in maggiore o minor misura dal privilegio medesimo». <110 Quindi giunge a una chiara conclusione: «I migliori storici dei Lager sono dunque emersi fra i pochissimi che hanno avuto l’abilità e la fortuna di raggiungere un osservatorio privilegiato senza piegarsi a compromessi. […]. Era nella logica delle cose che questi storici fossero quasi tutti prigionieri politici». <111
I politici infatti avevano una preparazione intellettuale, si organizzavano in forme minimali di resistenza, potevano coprire cariche importanti all’interno del campo e, soprattutto, godevano di un trattamento diverso che non li riduceva ai bisogni minimi. Inoltre, dal punto di vista psicologico, i politici erano dei prigionieri attivi, vale a dire che scontavano una pena per delle motivazioni ben precise e pagavano per degli atti assolutamente individuali. Al contrario, gli ebrei venivano imprigionati per una motivazione generica che non aveva a che fare con le loro azioni particolari, con la loro individualità. Questa dinamica viene descritta in particolare da Bruno Bettelheim: «I prigionieri non politici appartenenti alla classe media […] erano quelli che sopportavano meno bene degli altri lo shock iniziale. Erano del tutto incapaci di rendersi conto di quello che stava succedendo e perché. Si aggrappavano più che mai a ciò che fino ad allora aveva alimentato il loro rispetto di sé. Perfino mentre venivano maltrattati e ingiuriati cercavano di convincere le SS di non essersi mai opposti al nazismo. Non riuscivano a capire perché fossero proprio loro ad essere perseguitati, loro, che avevano sempre obbedito a tutte le leggi senza discutere. […]. I prigionieri politici, invece, si erano aspettati la persecuzione delle SS, e perciò l’arresto non era per loro uno shock paragonabile a quello subito dagli altri, essendovici psicologicamente preparati. Soffrivano, sì, ma in un certo senso accettavano quel destino, che era conforme al loro giudizio sul corso degli eventi. […] Non vedevano alcuna ragione di sentirsi umiliati per il fatto di essere stati arrestati». <112
Anche Semprún, nel suo dialogo con Wiesel, espone lo stesso problema: «I partigiani si erano assunti un certo numero di rischi, sapevano perfettamente di rischiare l’arresto, e di conseguenza le torture, la deportazione o il plotone di esecuzione. […]. Voi invece avete fatto un’esperienza familiare. […]. È stata un’esperienza completamente diversa». <113
Tutto ciò ovviamente si riflette in modo diretto sulle testimonianze scritte.
Antelme infatti si sofferma sulla lotta al potere e al controllo, tutta interna al Lager, tra prigionieri politici e criminali comuni, sia nell’introduzione al suo libro che tra le maglie della narrazione: «La lotta per il potere tra detenuti politici e comuni non ha mai assunto un carattere di lotta tra due fazioni per accaparrarselo. Era una lotta tra uomini che avevano uno scopo, gli uni quello di instaurare una legalità […] e gli altri precisamente l’opposto […]. Solo da una società senza leggi essi potevano trarre vantaggi […]. La nostra condizione non può dunque essere paragonata a quella dei detenuti che avevano nei campi e nei Kommandos dei responsabili politici. […]. A Gandersheim, i nostri responsabili erano nostri nemici». <114
Anche Semprún si concentra spesso sugli aspetti del suo status di prigioniero politico, descrivendo i giochi di potere del campo in cui era stato internato, <115 e in particolare parla spesso della Resistenza interna. Inoltre si sofferma più volte sul fatto che il campo di Buchenwald è stato poi usato dai sovietici, ovvero dai vincitori, come campo di prigionia per oppositori del comunismo e ex nazisti fino al 1950. <116
Questa scoperta gli si presenta sotto la forma del paradosso: una beffa politica sull’atrocità.
Nelle testimonianze di Wiesel e Levi, invece, non c’è spazio per considerazioni di questo tipo. Anche se le sofferenze dal punto di vista fisico fossero state identiche (e così non era, perché un prigioniero politico restava un comunque un Mensch, mentre l’ebreo era un Untermensch) dal punto di vista psicologico l’ebreo soffriva una punizione senza una colpa. Se i politici scrivono anche della realtà esterna, della possibilità di organizzarsi, dei dialoghi con cui si intrattenevano, gli scrittori ebrei non possono farlo, e si concentrano su una narrazione che spesso indulge in tratti metafisici, dato che vuole raggiungere una verità posta fuori dalla Storia, nella comprensione di Dio o nell’universalità della colpa di essere uomini.
[NOTE]
105 J. Semprún, E. Wiesel, Tacere è impossibile, cit., p. 20.
106 Infatti a partire dal 1942 tutti gli ebrei di Buchenwald vennero trasferiti ad Auschwitz. Buchenwald era un campo destinato alla “correzione” dei prigionieri politici, mentre per Auschwitz non era previsto alcun programma di “riabilitazione”.
107 J. Semprún, E. Wiesel, Tacere è impossibile, cit., p. 42.
108 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.
109 Ivi, pp. 7-8.
110 Ivi, pp. 8-9.
111 Ivi, p. 9.
112 Bruno Bettelheim, The Informed Heart. Autonomy in a mass age, Free Press, Glencoe, 1963 (trad. it. Il prezzo della vita. L’autonomia individuale in una società di massa, Adelphi, Milano, 1965, pp. 99-101).
113 J. Semprún, E. Wiesel, Tacere è impossibile, cit., p. 16.
114 R. Antelme, La specie umana, cit., pp. 6-7.
115 «Uno dei tratti specifici di Buchenwald è stata la concentrazione in quel campo dei quadri comunisti e socialdemocratici, che ha permesso successivamente il prevalere dei politici sui “diritto comune” nell’amministrazione interna». Jorge Semprún, L’Écriture ou la Vie, Gallimard, Paris, 1994 (trad. it. La scrittura o la vita, Guanda, Parma, 1996, p. 277).
116 J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., p. 279; J. Semprún, E. Wiesel, Tacere è impossibile, cit., p.18.
Saverio Vita, Autobiografi della vergogna. La vergogna come dispositivo narrativo nella letteratura autobiografica e testimoniale del secondo dopoguerra, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2016

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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