“Sono nato e cresciuto a Malo nel Vicentino, e lì ho imparato alcune cose interessanti. Ho fatto studi assurdamente “brillanti” ma inutili e in parte nocivi a Vicenza e a Padova; sono stato esposto da ragazzo agli effetti dell’educazione fascista, e poi rieducato alla meglio durante la guerra e la guerra civile, sotto le piccole ali del Partito d’Azione. Mi sono espatriato nel 1947-48, e mi sono stabilito in Inghilterra con mia moglie Katia. Non abbiamo figli. “L’incontro con la cultura degli inglesi e lo shock della loro lingua hanno avuto per me un’importanza determinante. Sono tuttavia certamente un italiano, e non ho alcun problema d’identità, né mi sono mai sentito per questo aspetto in esilio”. […]“Ho continuato inoltre a studiare e scrivere, confondendo un po’ i due processi; e ho poi lasciato l’insegnamento, nel 1980, per confonderli con più comodo. […]” <1
Luigi Meneghello (Malo 1922 – Thiene 2007) è stato uno dei grandi scrittori del ‘900 italiano, ricordato in particolare per due delle sue opere: “Libera nos a malo” (1963) e “I Piccoli Maestri” (1964).
La scelta di compiere un lavoro sullo scrittore maladense nasce da una domanda che ho sottoposto al professor Almagisti durante il suo corso di Scienza Politica all’Università di Padova: “Come mai una persona come Luigi Meneghello, impegnatosi attivamente durante la guerra civile, ha deciso improvvisamente di andarsene dall’Italia e allontanarsi dalla politica?”
Questo lavoro è finalizzato in parte a rispondere a questa domanda, analizzando in particolare le prime fasi della vita di Luigi Meneghello. Per contestualizzare bene il lavoro, ho iniziato con il descrivere l’ambiente in cui lo scrittore è cresciuto: il paese di Malo, nell’Alto Vicentino, è un po’ un emblema dell’Italia uscita dalla Prima Guerra Mondiale. Un mondo povero, fragile, nel quale seppe inserirsi e radicarsi prepotentemente il Fascismo. Ed è proprio sotto le ali del regime che Meneghello compie le prime “esperienze politiche”. Durante gli studi universitari infatti, Luigi è il “giovanissimo littore”, vincitore dei Littoriali di Bologna del 1940 nella materia di Dottrina del Fascismo, e comincia a scrivere articoli di fondo a carattere politico su vari giornali.
Nei primi anni Quaranta inizia a frequentare Antonio Giuriolo, l’insegnante “senza tessera” che infonde in Meneghello e in altri giovani vicentini i primi germi dell’anti-fascismo. Un “percorso di redenzione” lungo e doloroso, che porterà il giovane maladense a ribellarsi agli ordini del regime dopo l’8 settembre 1943 e a “salire” in montagna per affrontare da partigiano clandestino la guerra civile, aderendo di fatto alle disposizioni rivoluzionarie del Partito d’Azione, del quale proprio Giuriolo fu uno dei fondatori nel 1942.
Il breve periodo trascorso nell’Altopiano di Asiago, con i “Piccoli Maestri”, lo possiamo considerare come l’esperienza politica più forte di Meneghello: una guerra non solo combattuta con le armi, ma una battaglia intellettuale in cui bisognava affrontare quella débacle culturale di un’intera generazione, il crollo del fascismo […], che pareva anche il crollo delle nostre bravure di bravi scolari e studenti, il crollo della nostra mente <2.
Un impegno politico attivo che entra nel vivo dopo la Liberazione; nel 1945-46 Meneghello è a Padova, e con l’amico Licisco Magagnato tenta di far crescere il Partito d’Azione, la formazione politica che raggruppa al suo interno un grande numero di intellettuali anti-fascisti. Meneghello partecipa al Congresso di Roma del PdA del 1946, quello che sancisce di fatto l’inizio di un graduale declino del partito, dissoltosi nel 1947.
Deluso dalle sorti del suo partito di riferimento e dalla scelta elettorale del popolo italiano, nel 1947 Luigi decide di “fare un viaggio” in Inghilterra, trascorrere nel paese britannico un breve periodo di studio, magari per apprendere un po’ di “civiltà” e riportarla nella propria patria. Un paese moderno, l’Inghilterra, che adotterà Meneghello e la moglie Katia per più di 50 anni.
[NOTE]
1 L. Meneghello, “da un profilo autobiografico del 1975 recentemente ritoccato”, dal risvolto di copertina de “Il Dispatrio”, Milano, Rizzoli, 1993.
2 L. Meneghello, “I Piccoli Maestri”(1964), da “Opere Scelte. Luigi Meneghello”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2006, p. 458. L’edizione di riferimento è la revisione del 1975-1976, considerata la migliore anche dall’autore. Il testo de “I Meridiani” è frutto di tale revisione e di una del giugno 1986.
Andrea Menegante, Luigi Meneghello: un apprendista italiano. Un’esperienza politica dal regime fascista alla Repubblica, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012/2013
«La mia maestra si chiama Prospera Moretti. La mia scuola è posta in via Borgo ed è bella e spaziosa». Meneghello trovò questa scritta tra i suoi quaderni di scuola in un giorno di perlustrazione del solaio di casa, là dove era custodita la storia «di noi figli» <68.
In “Libera nos a Malo” compaiono i portatori della cultura italiana, che insegnarono a Luigi e i suoi compagni le prime parole in lingua, offrendo la via per una dimensione altra, parallela a quella di cui avevano esperienza ma incorporea e immateriale. Il mondo della lingua degli italiani finì per essere associato alla religione e al fascismo. La maestra giardiniera Suor Eulalia, secondo l’idealismo pedagogico in voga in quegli anni, innervato dal mito della spontaneità infantile, sosteneva l’insegnamento artistico, del canto e del disegno. Le nuove parole che la maestra Prospera insegnava erano difficili da assimilare, ma Luigi dimostrò sin da bambino una perspicacia che si porterà dietro sino alla maturità. Altra figura di insegnante fu «la Jovanka slava» che gli mostrò come si disegna un uomo; ma quando la maestra Prospera chiese di «disegnare un Uomo sulla tavola nera» «fu una débâcle completa»69. Rimase scolpito nella sua mente, o nella sua penna, quel profilo di uomo, così, in età adolescenziale, anche se «non sapeva disegnare, li disegnava tuttavia, i margini dei suoi libri sono pieni di teste in profilo, con le occhiaie cavernose degli elmi alzate al cielo» <70. «Il vero lavoro di trasmissione della cultura cominciava in quarta». Don Tarcisio fu il suo maestro per gli ultimi due anni di scuola elementare.
C’insegnò tante cose; le prime che si presentano alla memoria sono certi obiter dicta, come quello che la riproduzione sessuale è una cosa perfettamente normale in natura, e l’altro che non si trasgredisce al precetto dell’astinenza mangiando di venerdì insalatuzze con pezzetti di lardo, perché il condimento non fa carne <71.
Durante le lezioni di Don Tarcisio impararono a scrivere e parlare in lingua con l’ausilio dei libri stampati; il lavoro «era suddiviso in due parti, il Libro di Lettura e il Sussidiario. Dal Sussidiario si ricavavano gli elementi di un’analisi scientifica del mondo […]. Il Libro di Lettura conteneva tutto il resto, la Gioconda, la Cavallina storna, Giovanni Berta» <72. Il maestro leggeva dei racconti in italiano con grande coinvolgimento emotivo e non trascurava «le storie in dialetto di Fric Froc e Santuciarèla» <73.
A scuola S. riuscì bravo, quasi troppo. Veramente, quando sui dieci anni dovette andare giù a Vicenza a fare l’Esame di Ammissione, la mamma predisse che lo avrebbero ridimensionato. «Qui fate figura di essere bravi» ci ammonì «perché siete i figli della maestra». S. fece l’Esame con uno slancio di cui si sono persi i documenti: salvo che per spiegare un teorema intorno alla natura dei triangoli di carta chiese un paio di forbici, e questo fu preso per un segno di viva intelligenza. O, e inoltre [ sic ] che analizzando la grammatica superficiale di Vorrei sapere da lorsignori… disse che “parrebbe” che ci fosse un complemento d’agente, ma invece non c’è: e suggerì che si potrebbe considerarlo un complemento di consultazione. Alla fine quando andarono a vedere i risultati, non era stato ridimensionato, anzi aveva fatto figura di essere il più bravo di tutti, non però di tutte, essendogli passata davanti una ragazzetta; e questa fu l’unica volta nella sua carriera scolastica che riuscì secondo a qualcuno <74.
Nel 1932 superò brillantemente l’esame di ammissione così poté frequentare i tre anni di ginnasietto e i due di ginnasio. Inizialmente si spostava tra Malo e Vicenza con un mezzo pubblico, poi, dal 1937 al 1939 la famiglia, per facilitare lo studio dei figli, si trasferì in città.
Tra le pagine del “Fiori italiani” si legge un excursus critico degli insegnanti avuti dall’autore (chiamato S., sigla per scolaro, studente) durante gli anni di scuola superiore e università. È attribuita grande rilevanza all’argomento, tanto che egli stesso nota sarcasticamente: «questo libro si potrebbe anche intitolare “Gli esami”» <75. Il pretesto narrativo conduce il discorso verso aspetti di varia natura, dall’analisi dell’educazione fascista al racconto di come gli insegnanti formino l’uomo solo se questo vuole occuparsi delle cose scritte <76.
[NOTE]
68 Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, p. 18 (d’ora innanzi LNM con indicazione del numero di pagina).
69 LNM, p. 31.
70 Luigi Meneghello, Fiori Italiani, in ID., Opere Scelte…, p. 825 (d’ora innanzi FI con indicazione del numero di pagina).
71 LNM, p. 44.
72 FI, p. 789.
73 LNM, p. 44.
74 FI, p. 787.
75 FI, p. 878.
76 «Abbiamo solo il magistero. Non s’impara dalle persone che parlano, in un contesto formalizzato. Nei contesti formalizzati è meglio scrivere. Per quelli che sono portati a occuparsi delle cose scritte.», FI, p. 850.
Vanessa Galleri, Infanzia, dialetto, poesia. La prospettiva di Luigi Meneghello, Tesi di laurea, Università degli Studi di Sassari, Anno accademico 2017/2018
La tensione di quei tempi sfociò nella decisione di Cesare di partire volontario per il fronte. Con l’arruolamento veniva così a compiersi uno degli obiettivi dei sistemi educativi di regime, ossia inculcare nei giovani l’amore incondizionato per la Patria in modo che, una volta adulti, si sarebbero sacrificati per difenderla dalle difficoltà. A testimonianza della convinzione con cui Cesare portò avanti la propria decisione, Meneghello riporta in “Fiori italiani” alcuni stralci di un suo scritto intitolato “Noi, ancora noi!” in cui si legge: “amici, andiamo. Tanto, è come per gioco: non rischiamo nulla. Questa nostra giovane vita… in fondo è nulla… Ebbene il nostro nulla doniamolo tutto agli altri…” (p. 141). Da queste parole emergono sia l’ingenuità di Cesare, inconsapevole dei reali pericoli connessi con la guerra, che la veemenza dettata dalla sua giovane età, la quale lo porta a volersi scagliare contro qualcosa di più grande di lui, di cui non sapeva nulla. Cesare, in questo suo modo di essere, rappresentava quindi alla perfezione il tipo di cittadino che l’ideologia fascista intendeva “allevare”; un cittadino-soldato pronto ad ubbidire ad ogni ordine senza porre alcuna obiezione; un cittadino pronto a difendere i dogmi del Fascismo anche dinanzi agli sbagli evidenti, anche di fronte all’orrore della guerra. Meneghello definisce Cesare un “giovane da libro di lettura capovolto” mettendo in luce, con la metafora del capovolgimento, la diseducazione cui era stato esposto nella sua vita e cui non aveva saputo trovare scampo, così come non era riuscito a preservarsi dalla morte; una morte forse cercata pur di non tornare dal fronte e scoprire di essere cambiato a tal punto da poter diventare antifascista. Nel concludere il tributo a Bolognesi, Meneghello racconta infatti che vi fu un incontro tra Antonio Giuriolo ed il giovane fascista, il quale non rimase indifferente alle parole del maestro vicentino. Accettare però di farsi “contagiare” dall’antifascismo avrebbe significato non solo mettere in discussione le proprie idee, ma “disporsi a distruggere ciò che si era creduto fosse l’impianto naturale della propria mente: il proprio essere” (p. 144). La morte, occorsa sul campo di battaglia nel dicembre del 1941, in un certo senso “liberò” quindi Cesare dal dover scegliere se tener fede all’ideologia che fino ad allora aveva sostenuto, o sposare posizioni antifasciste. Su questo punto Meneghello evidenzia quanto segue: “questo è il solo contenuto definibile di una figura che ci pareva così straordinaria, e che ha perso ogni altro contenuto” (p. 145). Dai toni amari del commento, emerge rabbia verso il modello di persona che Bolognesi rappresentava; una rabbia che probabilmente il narratore intende rivolgere anche al giovane fascista che a sua volta fu e che, nella nuova ottica antifascista, si sente in dovere di giudicare.
Elisa Bonatti, Un’educazione fascista: Luigi Meneghello, “Fiori Italiani”, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2007/2008
Per quanto riguarda Meneghello, infine, l’espressione dialettale ha lo stesso effetto simile a quello della madeleine proustiana: solamente nominando una determinata parola dialettale si dischiudono al narratore e al lettore tutta una serie di mondi sommersi nel fondo della memoria. Anche in questo caso, l’uso dialettale non è da considerarsi come mero artificio espressionistico, ma è altresì sentito come lingua del profondo, come un linguaggio necessario, fisico, espressione di una interiorità sepolta; se vogliamo è anche un mezzo trasgressivo e polemico nei confronti della società consumistica e omologante. Credo che Meneghello non abbia potuto narrare la storia del suo vecchio paese in altro modo, provocato e pizzicato da continui lampi-sgiantìzi provenienti dal serbatoio dell’antico vernacolo.
Giovanna Dal Lago, Andar per “strosi” e “cavedagne”. Luigi Meneghello, Fernando Bandini e Virgilio Scapin: itinerario letterario fra le terre e le lingue di tre scrittori vicentini, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2015/2016