C’è ancora molto da fare, insomma, per ricostruire un profilo completo dell’opera di Regina Bracchi

Regina Bracchi, Il paese del cieco, 1936 – alluminio, cm 36 x 52 x 3 – Milano, Archivio Fermani – Fonte: Paolo Sacchini, Op. cit. infra

Come si accennava già nell’introduzione, credo che a questo punto si possa riconoscere che Regina Bracchi è stata ben consapevole di ciò che stava facendo in ogni singolo momento del ventennio che abbiamo preso in considerazione. La sua formazione resta per il momento una questione non del tutto risolta, anche se è certo che inizialmente Alloati ha esercitato su di lei un’influenza importante, ben visibile nelle opere più datate; poi la scultrice dovette cominciare a guardare altrove, e nello specifico – sulla base del confronto tra le opere di quegli anni e i testi rinvenuti nella sua biblioteca – mi pare più che plausibile che a fecondare i primi autonomi sviluppi dell’opera reginiana sia stata cl’attenzione per la scultura negra e per tutti quegli artisti che della sintesi primitivista avevano fatto il proprio vessillo: di Zadkine si è ritrovata una monografia interessantissima, ma ovviamente è lecito pensare anche ad altri modelli. E già in questo momento, ovvero almeno tre anni prima dell’adesione al Futurismo, Regina è di fatto un artista d’avanguardia. In seguito, credo proprio che a condurla verso l’uso della lamiera metallica sia stata una conoscenza non marginale della migliore scultura europea, nonché l’esempio – assai prossimo – dei celebri manichini di Marcello Nizzoli; tuttavia, mi pare che sin dall’inizio Regina abbia esplicato questa possibilità in modo assolutamente
personale, dando prova soprattutto di un’ironia che però forse le ha nuociuto, poiché confusa dalla critica con una irrimediabile naïveté.
Poi devono essere stati gli esempi di Fontana e specialmente di Archipenko a stimolarla nella realizzazione delle opere bidimensionali, con le quali la sua sperimentazione avanguardistica procede a larghi passi, delineando una scultura che è antiplastica non più solamente nei materiali, ma anche e soprattutto nella forma.
Ed è solo in questo momento che si definisce l’avvicinamento al Futurismo (milanese), forse preparato da conoscenze già maturate a Torino nell’ambito delle frequentazioni del maestro Alloati, tradizionalista nella forma ma ben addentro – grazie ai suoi ruoli anche istituzionali – al sistema dell’arte della città della Mole.
Il primo “futurismo” di Regina si traduce in opere polimateriche, probabilmente per andare incontro ad una forma d’arte che nel gruppo milanese era particolarmente diffusa e apprezzata; poi, però, la scultrice torna all’amato alluminio, e produce lavori di complessità crescente, per poi virare verso sperimentazioni quasi astratte.
Infine, alla conclusione del decennio Trenta, si allontana progressivamente dal Futurismo, imboccando una strada che nel dopoguerra la condurrà all’astrazione concretista, cui si avvicina però autonomamente sulla base di riflessioni che precedono di qualche anno la sua ufficiale adesione al Movimento Arte Concreta.
Sono diversi, a mio parere, gli ulteriori spunti di riflessione e ricerca che questa tesi suggerisce. Ad esempio, credo che sarebbe utile approfondire il passato prefuturista di molti artisti poi confluiti nel movimento marinettiano, perché come si è visto esso può nascondere delle sorprese del tutto inaspettate.
Normalmente, si pensa che l’esordio avanguardistico dei membri del Futurismo sia stato strettamente legato al loro ingresso nel movimento; in realtà, però, il caso di Regina dimostra che le cose non andarono sempre così, e che anzi per alcuni (molti?) il Futurismo deve essere stato soprattutto una sorta di rifugio capace di offrire al contempo libertà sperimentale per proseguire le proprie ricerche e visibilità anche internazionale. Addirittura, anzi, verrebbe da pensare (vista la particolare vicenda di Regina, che si avvicinò al movimento perché invitata) che Marinetti e compagni avessero in qualche modo costruito anche un sistema di scouting – diremmo oggi -, ovvero una ben oliata macchina di “osservatori” pronti a condurre verso il movimento gli artisti più innovativi del panorama italiano (i quali d’altro canto, per i motivi di cui si è detto, se davvero volevano muoversi lungo la strada dell’avanguardia avevano tutta la convenienza nel farlo sotto l’autorevole cappello offerto dal Futurismo e da Marinetti).
Inoltre, posto che il Secondo Futurismo è stato soprattutto un atteggiamento avanguardistico, il prossimo passo della ricerca credo sia quello di verificare in che modo tale impostazione (non solo di Regina, ma anche di Munari, Prampolini, Dal Monte, Ciacelli…) abbia potuto agire all’interno del MAC, che è forse il movimento avanguardistico del dopoguerra che più ha mutuato dal Futurismo.
Sarebbe a mio avviso fuorviante cercare troppe similitudini dal punto di vista strettamente formale: certamente se ne possono riscontrare, ma l’estrema varietà tanto dell’uno quanto dell’altro raggruppamento non consente di individuare un vero e proprio fil rouge che possa valere per tutti i protagonisti.
È evidente, ad esempio, che le Sculture da viaggio e i Concavo-convessi di Munari hanno molto a che fare con la sua ricerca d’anteguerra (con le Macchine inutili in primo luogo), e per ciò che riguarda Regina è chiaro che il tema della leggerezza antiplastica delle sue sculture si ritrova anche nei plexiglas degli anni Cinquanta; tutto questo, però, riguarda le esperienze singole e non i movimenti nel loro complesso.
Semmai, credo che la vera eredità lasciata dal Futurismo ai movimenti italiani del dopoguerra (al MAC in maniera più diretta per la presenza di tanti ex-futuristi, ma naturalmente anche allo Spazialismo e allo stesso Nuclearismo) sia appunto l’atteggiamento di assoluta disponibilità sperimentale. Forse perché, come abbiamo visto, questo generico avanguardismo era l’unica cosa che veramente caratterizzava il Secondo Futurismo.
Per quanto riguarda più strettamente Regina, credo che il fatto di aver indagato analiticamente la sua stagione prefuturista abbia consentito di avere un quadro molto più chiaro della sua evoluzione creativa e delle fasi attraverso le quali essa deve essere passata, così come ritengo che una ricostruzione finalmente precisa e documentata dei suoi rapporti con il Futurismo (inteso sia come tendenza artistica che come struttura organizzata) permetta di guardare con maggiore consapevolezza a tutto quanto l’artista pavese ha realizzato negli anni della sua partecipazione alle iniziative del movimento. In particolare, il fatto di aver indagato questi due periodi soprattutto attraverso l’analisi dei disegni ha consentito di intercettare alla radice, forse prima ancora che il tutto si chiarisse anche alla stessa Regina, il pensiero e la prassi che la dovevano guidare nella quotidiana esplicazione della sua creatività; e credo che a stimolare questa mia attenzione per il disegno sia stato anche il fatto di provenire da una scuola di studi – quella dell’Università di Parma e dello CSAC – che da molto tempo ha inteso il disegno quale elemento cardine di una vasta cultura del progetto e della comunicazione, che va anche molto oltre le arti visive intese in senso stretto.
A questo punto, penso che il prossimo passo della ricerca reginiana debba essere quello di operare un lavoro analitico sull’esperienza concretista degli anni Cinquanta, che costituisce un altro fondamentale momento creativo dell’artista pavese. Anche in questo caso, però, credo che l’esame di quanto realizzato sotto l’egida del MAC debba essere anticipato – per quanto possibile, poiché certamente non è facile – da una puntuale ricostruzione dell’avventura reginiana nel corso del decennio Quaranta, poiché sono convinto che nei famosi “disegni di fiori” di quegli anni si possano riscontrare i prodromi del lavoro successivo, il quale però – questa almeno è la mia impressione – deve essere scaturito da essi in una maniera non del tutto lineare, che merita di essere chiarita.
Anche perché un esame dei (molti) disegni e delle (poche) opere di questo periodo permetterebbe di mettere in evidenza un momento davvero trascurato della parabola artistica reginiana, che non è escluso possa nascondere sorprese altrettanto importanti quanto quelle che in questa sede si è cercato di precisare a proposito della fase prefuturista. Per non fare che un solo esempio, certe sculture biomorfe degli anni Quaranta mi sembrano poter essere messe in relazione con Arp (che come abbiamo visto Regina conosceva senz’altro). E per quanto riguarda i lavori geometrici del decennio seguente, essi hanno strettissime connessioni formali con le illustrazioni di diversi volumi tecnico-scientifici che si trovano nella sua biblioteca.
C’è ancora molto da fare, insomma, per ricostruire un profilo completo dell’opera di Regina; credo però che senza queste puntualizzazioni sulla sua prima attività sarebbe impossibile procedere, anche e soprattutto perché esse delineano una forma mentis che mi pare essere sostanzialmente rispettata anche dai lavori successivi.
E allo stesso modo, il Secondo Futurismo continua a mio avviso a richiedere indagini accurate, ora non più volte – come negli scorsi decenni – a scoprire o riscoprire questo o quell’artista (poiché ormai, fatte salve sorprese che comunque sono sempre possibili, i nomi significativi credo siano in massima parte emersi), quanto piuttosto orientate verso una migliore conoscenza delle premesse da cui questi artisti sono partiti, dei loro riferimenti e delle diverse fasi eventualmente attraversate (con un occhio di riguardo alle condizioni particolari che ciascuna “filiale” locale del Futurismo metteva a disposizione dei propri membri).
Paolo Sacchini, Regina Bracchi (1894-1974). Dagli esordi al Secondo Futurismo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2012

Pubblicato da Adriano Maini

Scrivo da Bordighera (IM), Liguria di Ponente.

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